2018-06-14
La Corte suprema assume i galoppini dell’app
I giudici inglesi danno ragione a un idraulico che per cinque anni ha lavorato per una società di servizi online: chiedeva di essere inquadrato come dipendente. Londra ha già smontato Uber e ora può essere capofila della battaglia a favore di rider e fattorini.Arriva ancora una volta dalla Gran Bretagna una sentenza destinata a fare scuola sul fronte dei diritti dei lavoratori della cosiddetta “gig economy", l'economia fondata sui “lavoretti", che per milioni di persone rappresenta però l'unica fonte di sostentamento. La Suprema Corte ha infatti dato ragione a Gary Smith, un idraulico che dal 2005 aveva lavorato per sei anni in via esclusiva per la Pimlico Plumbers, la più grande compagnia privata di servizi idraulici a Londra. L'operaio chiedeva di essere considerato a tutti gli effetti un dipendente, con diritti come le ferie pagate, nonostante fosse inquadrato contrattualmente come lavoratore autonomo. Smith ha portato come prove il fatto che doveva indossare l'uniforme dell'azienda, guidare il furgone con il marchio Pimlico Plumbers e seguire le istruzioni della control room. E la Corte, con sentenza all'unanimità, gli ha dato ragione, creando un precedente destinato a influire su altri casi giudiziari che coinvolgono le aziende della gig economy. Primo fra tutti quello che riguarda gli autisti di Uber, su cui la corte d'appello britannica dovrebbe pronunciarsi nella seconda parte dell'anno. La compagnia ha già perso in tribunale contro due autisti, che sono riusciti a provare di non essere lavoratori autonomi, ma dipendenti, e di avere quindi diritto al salario minimo e a ferie e riposi retribuiti. Al netto dei commenti ironici come quello di Charlie Mullins, fondatore di Pimlico Plumbers - che ha dichiarato: «I giudici hanno perso una grande occasione per portare le leggi sul lavoro nel Ventunesimo secolo»- con la sentenza sul caso Smith la magistratura britannica ha fatto ancora una volta da apripista sulla strada, ancora praticamente inesplorata, della definizione dei diritti dei lavoratori della gig economy. Una questione di stretta attualità non solo in Gran Bretagna. Il lavoro accessorio, infatti, è in rapida crescita anche in Italia: secondo il rapporto Istat sul mercato del lavoro 2017, le persone che sbarcano il lunario con questo genere di lavoretti sono passate dalle 100.000 di prima del 2010 a 1,8 milioni nel 2016 (una cifra simile al milione e 600.000 lavoratori saltuari censiti lo scorso anno in Gran Bretagna), anche se il dato si riferisce solo ai lavori retribuiti con il sistema dei voucher.Secondo altri studi, come quello della Fondazione Rodolfo Debenedetti, la “gig economy" in Italia impiega tra 700.000 e il milione di addetti. Il 10% di questa galassia è rappresentata dai “rider", i fattorini che si occupano delle consegne a domicilio, 10.000 dei quali lavorano per le piattaforme di food delivery come Foodora o Deliveroo. Proprio nei loro confronti un tribunale italiano, quello di Torino, lo scorso aprile aveva emesso una sentenza di segno opposto rispetto a quella della Suprema corte britannica: sei rider avevano infatti fatto causa a Foodora contestando l'interruzione improvvisa del rapporto di lavoro, dopo le proteste del 2016 per il cambiamento delle condizioni contrattuali, ma il tribunale ha respinto il ricorso, sostenendo che i fattorini erano collaboratori autonomi, non legati quindi all'azienda da un rapporto di lavoro subordinato. Tuttavia i rider sono da tempo diventati il simbolo della precarizzazione estrema, tanto che Luigi Di Maio, all'indomani della nomina a ministro del Lavoro, ha voluto incontrare una delegazione di quelle che ha definito «vittime di tante leggi del precariato e di un lavoro che cambia. Gli ho aperto le porte del ministero, ci vedremo ancora: dobbiamo trovare una soluzione». Soluzione che, per il neoministro, passa dall'introduzione di un «salario minimo garantito al di sotto del quale non puoi essere pagato» senza che sia «sfruttamento».
Jose Mourinho (Getty Images)