2025-07-30
La Consulta inventa il diritto di essere uccisi
L’ultima sentenza sul tema, pur apparentemente frenando sulla somministrazione da parte di terzi del farmaco letale, trasforma la non punibilità (a certe condizioni) dell’aiuto a morire in un obbligo della sanità. Il medico competente dovrà garantire la pratica.Presidente di sezione emerito della Corte di CassazioneCome riferito nell’articolo di Alessandro Rico sulla Verità del 26 luglio scorso, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 132/2025, ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità, posta dal tribunale di Firenze, dell’art. 579 del codice penale, che prevede come reato l’omicidio del consenziente, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi abbia commesso il fatto nei confronti di soggetto che sia fisicamente impossibilitato a compiere autonomamente anche il solo ultimo atto necessario ad attuare il proposito suicidario e sussistano, tuttavia, le condizioni in cui, secondo la sentenza della stessa Corte n. 242/2019, l’aiuto al suicidio non sarebbe punibile. Condizioni, quelle ora dette, che consistono - come si ricorderà - nella esistenza di una volontà suicidaria autonomamente e liberamente formatasi in soggetto pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, il quale sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e sia affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche da lui reputate intollerabili, sempre che, circa la effettiva esistenza di tali condizioni e circa le previste modalità di esecuzione dell’atto suicidario sia intervenuta verifica da parte di una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. La ragione della ritenuta inammissibilità della questione è stata fatta consistere, dalla Corte, unicamente nel non essere stato adeguatamente motivato, nell’ordinanza che l’aveva sollevata, quanto in essa affermato circa l’impossibilità di reperire un qualche «dispositivo di autosomministrazione farmacologica», azionabile mediante la voce o lo sguardo, che consentisse all’aspirante suicida, privo dell’uso degli arti, un’autonoma assunzione del farmaco letale. Appare, quindi, abbastanza evidente che si è voluta, in questo modo, lasciare aperta la strada ad una riproponibilità della stessa questione nella non improbabile eventualità che quella impossibilità risulti, una volta o l’altra, effettivamente sussistente. E in diversi passaggi della stessa sentenza, sia pure al solo fine di confutare talune eccezioni preliminari circa la proponibilità, nel caso specifico, della questione in discorso, si dà per ammissibile l’ipotesi di un suo possibile accoglimento. Il che, del resto - occorre riconoscerlo - avrebbe una sua logica, una volta che sia data per acquisita, piaccia o non piaccia, la non punibilità dell’aiuto al suicidio in presenza delle condizioni a suo tempo indicate dalla Corte costituzionale ma l’interessato non sia in grado di prestare neppure quel minimo di autonoma collaborazione necessaria per darsi la morte e debba ricorrere all’azione di un altro. Ma altro è, nell’immediato, il motivo di interesse - e di preoccupazione - che nasce dalla lettura della sentenza della Corte. Questa, infatti, dal ritenuto difetto di motivazione, sotto il profilo anzidetto, dell’ordinanza di rimessione, ha inopinatamente tratto spunto per affermare - come opportunamente già notato da Rico - che la persona che si trovi nelle condizioni previste dalla sentenza n. 242/2019 (e confermate nella successiva sentenza n. 135/2024), «ha diritto di essere accompagnata dal Servizio sanitario nazionale nella procedura di suicidio medicalmente assistito, diritto che, secondo i principi che regolano il servizio, include il reperimento dei dispositivi idonei, laddove esistenti, e l’ausilio nel relativo impiego». Ed è, questa, un’affermazione che, oltre a costituire un’assoluta novità rispetto al contenuto delle due precedenti sentenze alle quali la Corte ha fatto riferimento, cozza con elementari principi di logica giuridica. Quella creata, infatti, con le suddette sentenze era né più e né meno che una causa speciale di non punibilità di una condotta, costituita dall’aiuto al suicidio, che, in mancanza di essa, continuava e continua a costituire reato. E il compito assegnato al Servizio sanitario nazionale era soltanto quello di verificare che fossero effettivamente sussistenti le condizioni in presenza delle quali la non punibilità poteva essere riconosciuta e che le modalità stabilite dall’interessato e dal medico di sua fiducia per l’esecuzione del suicidio non fossero tali da offendere la dignità della persona e cagionarle sofferenze. Ma una causa di non punibilità stabilita a favore di chi ponga in essere una condotta che, altrimenti, costituirebbe reato non può in alcun modo valere a rendere obbligatoria quella stessa condotta e a creare, quindi, in chicchessia il diritto a pretenderla. E, invece, questo è proprio ciò che la Corte costituzionale, con la surriportata affermazione, ha, con ogni evidenza, inteso fare, ponendo a carico del servizio sanitario nazionale quello che, in sostanza, viene a configurarsi come un vero e proprio obbligo di prestare aiuto al suicidio, con correlativo diritto dell’aspirante suicida a pretenderne l’adempimento, sotto forma della fornitura di quanto necessario (farmaci, strumentazione e assistenza da parte di personale sanitario) perché il proposito suicidario possa avere attuazione. In questo modo, di fatto, la Corte costituzionale ha inteso - senza darlo, stavolta, troppo a vedere - sostituirsi ancora una volta al legislatore, anticipando quello che dovrebbe poi essere, a suo giudizio, uno dei contenuti della legge sul «fine vita» attualmente in gestazione al Parlamento. E la cosa è tanto più grave in quanto viene a contraddire anche quello che la stessa Corte, nella sentenza n. 242/2019, aveva osservato con riguardo al tema della possibile obiezione di coscienza del personale sanitario, e cioè che la pronuncia di parziale incostituzionalità dell’art. 580 del codice penale, contenuta in detta sentenza, si limitava «a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici». Obbligo che, invece, verrebbe ora a configurarsi in capo al medico del servizio sanitario nazionale competente a rispondere alla richiesta, da parte dell’aspirante suicida, dei mezzi e dell’assistenza necessari a darsi convenientemente la morte. E c’è, purtroppo, da scommettere che quest’obbligo, eticamente inaccettabile e, comunque, del tutto privo, allo stato, di valido fondamento giuridico, finirà per essere generalmente osservato perché il non farlo richiederebbe doti di coraggio, determinazione e chiarezza di idee che da ben pochi sarebbe ragionevole aspettarsi.
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Piergiorgio Odifreddi (Getty Images)