2025-07-23
La Cassazione ordina i processi per il clima
La Corte intima al tribunale di Roma di pronunciarsi nel merito della causa per danni intentata all’Eni da Greenpeace e da altri attivisti. Il modello è la class action delle nonne svizzere. Così si rischia una valanga di procedimenti legali: in Europa sono già 200. «Storica vittoria», festeggia Greenpeace: «Da oggi in Italia è finalmente possibile ottenere giustizia climatica». Sì: giustizia climatica. Fa tanto caldo, ma viene da rabbrividire. La doccia gelata ce la offre la Corte di Cassazione, la quale ordina al Tribunale di Roma di esaminare nel merito la causa per risarcimento danni che gli attivisti green, ReCommon e 12 cittadini «residenti in aree del territorio nazionale particolarmente esposte al cambiamento climatico» hanno intentato all’Eni, insieme al ministero delle Finanze e alla Cassa depositi e prestiti, in quanto «azionisti che esercitano un’influenza dominante» sulla società.Capiamoci: non c’è ancora alcuna condanna. Però il procedimento andrà avanti e i magistrati saranno tenuti a esaminare le ragioni degli ambientalisti. Al contrario, in un precedente pronunciamento, i giudici della Capitale si erano dichiarati incompetenti a decidere, perché l’azione legale avviata, in quel caso, nei confronti della presidenza del Consiglio, avrebbe interferito con scelte politiche discrezionali. Adesso, gli ermellini ribaltano la situazione, aggrappandosi a una distinzione sottile, eppure determinante: quella tra la «comune azione risarcitoria», promossa appunto dai ricorrenti contro Eni, Mef e Cdp, «ancorché fondata sull’allegazione dell’omesso o illegittimo esercizio della potestà legislativa» (ossia sul presunto rifiuto di mettere in atto adeguate misure di mitigazione delle emissioni di CO2), e la vera e propria «invasione della sfera riservata al potere legislativo».Così, la palla passerà al giudice ordinario, il quale aveva già fissato a settembre un’udienza per valutare gli argomenti presentati dai tre soggetti coinvolti. Questi ultimi contestavano la «non giustiziabilità» della pretesa, nonché il difetto di giurisdizione della nostra autorità giudiziaria, quello del tribunale rispetto alle prerogative esclusive del ministero dell’Ambiente e l’attacco alla libertà d’impresa da parte degli ecologisti. In attesa della sentenza finale, non è difficile capire cosa ne pensi la Cassazione stessa. Nella cui ordinanza, datata 21 luglio, si ricorda ad esempio che «vi è ormai certezza in ordine all’esistenza di un cambiamento climatico di origine antropica, che rappresenta una grave minaccia per il godimento dei diritti umani e richiede l’adozione di misure urgenti che coinvolgono sia il settore pubblico che quello privato, al fine di limitare l’aumento della temperatura a 1,5° C».Quanto alla difficoltà di localizzare il presunto illecito civile e, quindi, di determinare se in effetti le toghe abbiano titolo a esprimersi, la Corte afferma che «il luogo in cui si verifica l’evento generatore del danno dev’essere individuato in quello (o in tutti quelli, avuto riguardo della pluralità di luoghi e di Stati in cui si svolge direttamente o indirettamente l’attività dell’Eni) in cui si producono le emissioni climalteranti, mentre il luogo in cui si concretizza il danno fatto valere dagli attori va identificato in quello in cui gli stessi risiedono». Cioè, in Italia. Ed ecco che l’autorità giudiziaria nazionale diventa l’unica competente.La convinzione di Greenpeace, ReCommon e dei cittadini battaglieri è che la compagnia energetica partecipata da Mef e Cdp, pur «pienamente consapevole», dagli anni Settanta e Ottanta, della pericolosità dei combustibili fossili, abbia continuato a investire sulla loro estrazione. I ricorrenti hanno attinto a tutto l’arsenale di norme e trattati sulla riduzione della CO2: convenzioni Onu, Accordo di Copenaghen, Accordi di Cancun, Accordi di Parigi, Cop, Ipcc. Ma di particolare rilievo sono state alcune innovazioni normative sulle quali La Verità, in tempi non sospetti, aveva messo in guardia i lettori. In primis, le modifiche alla Costituzione risalenti al 2022: l’articolo 9 ha introdotto la tutela dell’ambiente «nell’interesse delle future generazioni»; il 41 vieta l’iniziativa economica privata se essa reca danno «all’ambiente». Formulazioni che, prevedevamo su questo giornale, avrebbero finito per legittimare il sindacato giudiziario sull’attività d’impresa. Dopodiché, ci sono le esperienze all’estero. In particolare, la class action delle «Anziane per il clima», da cui è scaturita una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che, come nota la Cassazione, «ha riconosciuto la complementarietà dell’intervento giudiziario rispetto ai processi democratici, affermando che, pur non potendo sostituire l’azione del potere legislativo ed esecutivo, il compito della magistratura consiste nel garantire il rispetto dei requisiti legali». Copione già recitato dalla nostra Consulta su adozioni gay, madri intenzionali, suicidio assistito.Da questo punto di vista, Greenpeace e compagnia, fautori della «Giusta causa» dinanzi al Tribunale di Roma, non sbagliano nel sostenere che il verdetto degli ermellini «avrà impatto su tutte le cause climatiche in corso o future» e spalancherà, anche in Italia, le porte alla climate change litigation. Una valanga di ricorsi di ispirazione ambientalista nei confronti delle aziende, specie se esse svolgono un ruolo strategico qual è quello dell’Eni. Perciò è pura ipocrisia escludere cortocircuiti con la sovranità e l’autonomia della politica: sul versante opposto della totale irresponsabilità dei privati - che va senza dubbio scongiurata! - si situa il comunismo verde vagheggiato da certe associazioni. In Europa, questo genere di procedimenti è già esploso: nel Vecchio continente è stata superata quota 200.Sarà sufficiente che un’ultrasessantenne di Canicattì patisca l’afa per mettere in croce le compagnie di idrocarburi? Per delegittimare la politica energetica di un governo e imporgli la transizione green, oltre che a colpi di direttive Ue, a furia di sentenze? Un giorno andrà sotto processo pure il nucleare? E se le bollette aumenteranno i nome del verde, o le famiglie non potranno più permettersi auto abbastanza ecocompatibili, la causa per danni bisognerà farla a Greenpeace?
Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa (Ansa)
Protagonista di questo numero è l’atteso Salone della Giustizia di Roma, presieduto da Francesco Arcieri, ideatore e promotore di un evento che, negli anni, si è imposto come crocevia del mondo giuridico, istituzionale e accademico.
Arcieri rinnova la missione del Salone: unire magistratura, avvocatura, politica, università e cittadini in un confronto trasparente e costruttivo, capace di far uscire la giustizia dal linguaggio tecnico per restituirla alla società. L’edizione di quest’anno affronta i temi cruciali del nostro tempo — diritti, sicurezza, innovazione, etica pubblica — ma su tutti domina la grande sfida: la riforma della giustizia.
Sul piano istituzionale spicca la voce di Alberto Balboni, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, che individua nella riforma Nordio una battaglia di civiltà. Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, riformare il Consiglio superiore della magistratura, rafforzare la terzietà del giudice: per Balboni sono passaggi essenziali per restituire equilibrio, fiducia e autorevolezza all’intero sistema giudiziario.
Accanto a lui l’intervento di Cesare Parodi dell’Associazione nazionale magistrati, che esprime con chiarezza la posizione contraria dell’Anm: la riforma, sostiene Parodi, rischia di indebolire la coesione interna della magistratura e di alterare l’equilibrio tra accusa e difesa. Un dialogo serrato ma costruttivo, che la testata propone come simbolo di pluralismo e maturità democratica. La prima pagina di Giustizia è dedicata inoltre alla lotta contro la violenza di genere, con l’autorevole contributo dell’avvocato Giulia Buongiorno, figura di riferimento nazionale nella difesa delle donne e nella promozione di politiche concrete contro ogni forma di abuso. Buongiorno denuncia l’urgenza di una risposta integrata — legislativa, educativa e culturale — capace di affrontare il fenomeno non solo come emergenza sociale ma come questione di civiltà. Segue la sezione Prìncipi del Foro, dedicata a riconosciuti maestri del diritto: Pietro Ichino, Franco Toffoletto, Salvatore Trifirò, Ugo Ruffolo e Nicola Mazzacuva affrontano i nodi centrali della giustizia del lavoro, dell’impresa e della professione forense. Ichino analizza il rapporto tra flessibilità e tutela; Toffoletto riflette sul nuovo equilibrio tra lavoro e nuove tecnologie; Trifirò richiama la responsabilità morale del giurista; Ruffolo e Mazzacuva parlano rispettivamente di deontologia nell’era digitale e dell’emergenza carceri. Ampio spazio, infine, ai processi mediatici, un terreno molto delicato e controverso della giustizia contemporanea. L’avvocato Nicodemo Gentile apre con una riflessione sui femminicidi invisibili, storie di dolore taciuto che svelano il volto sommerso della cronaca. Liborio Cataliotti, protagonista della difesa di Wanna Marchi e Stefania Nobile, racconta invece l’esperienza diretta di un processo trasformato in spettacolo mediatico. Chiudono la sezione l’avvocato Barbara Iannuccelli, parte civile nel processo per l’omicidio di Saman, che riflette sulla difficoltà di tutelare la dignità della vittima quando il clamore dei media rischia di sovrastare la verità e Cristina Rossello che pone l’attenzione sulla privacy di chi viene assistito.
Voci da angolature diverse, un unico tema: il fragile equilibrio tra giustizia e comunicazione. Ma i contributi di questo numero non si esauriscono qui. Giustizia ospita analisi, interviste, riflessioni e testimonianze che spaziano dal diritto penale all’etica pubblica, dalla cyber sicurezza alla devianza e criminalità giovanile. Ogni pagina di Giustizia aggiunge una tessera a un mosaico complessivo e vivo, dove il sapere incontra l’esperienza e la passione civile si traduce in parola scritta.
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Terry Rozier (Getty Images)
L’operazione Royal Flush dell’Fbi coinvolge due nomi eccellenti: la guardia dei Miami Heat Terry Rozier e il coach dei Portland Trail Blazers Chauncey Billups, accusati di frode e riciclaggio in un vasto giro di scommesse truccate e poker illegale gestito dalle storiche famiglie mafiose.