
In Germania per timore dei musulmani il governo chiede agli ebrei di evitare il loro tipico copricapo. In Gran Bretagna l'ordine dei medici sospende un dottore che ha chiesto a un'islamica di scoprirsi il volto.Dunque, si sono chiuse le urne europee, e da stanotte conosciamo - Paese per Paese - l'elenco dei vincitori e dei vinti. C'è invece da temere che non a tutti sia chiaro il contesto in cui abbiamo votato, il quadro di sottomissione - largamente «accettata» e vissuta come «normale» - in cui ci troviamo a vivere. Un romanzo di Michel Houellebecq realizzato: non più, quindi, una distopia, un'utopia negativa, un affresco cupo disegnato da una mente lucida per metterci in guardia, ma una realtà ormai tragicamente entrata nel nostro vissuto. Ecco due casi per riflettere, destarci dal dormiveglia, e reagire. Primo esempio, siamo in Germania. Non un osservatore qualsiasi, ma Felix Klein, il commissario per il contrasto all'antisemitismo (e tutti sanno quanto il tema sia rovente in un Paese ancora squassato dal senso di colpa per l'Olocausto) rilascia una dichiarazione per consigliare ai cittadini di religione ebraica di non indossare in pubblico la kippah, il copricapo religioso maschile: «Mi spiace dirlo, ma non posso consigliare agli ebrei di indossare ovunque la kippah in Germania». Attenzione, non si tratta di una frase buttata lì, di una voce dal sen fuggita. Klein argomenta, e spiega che il problema non riguarda solo gli estremisti politici (simpatizzanti neonazi), ma anche gli islamici che «guardano canali televisivi arabi, che propongono un'immagine terribile degli ebrei e di Israele». A corredo delle dichiarazioni di Klein, parlano le cifre, con un aumento fino al 20% nell'ultimo anno dei reati a sfondo antisemita, e quasi un raddoppio degli episodi classificabili come violenti. Duro il commento di Michel Friedman (avvocato, già politico, conduttore televisivo, esponente della comunità ebraica tedesca): «È l'ammissione di un fallimento: un rappresentante del governo dice agli ebrei che non sono al sicuro da antisemitismo e violenze». E l'inevitabile conclusione: «Consiglio di prendere molto sul serio queste dichiarazioni: là dove gli ebrei non possono vivere sicuri e liberi, prima poi succederà anche gli altri».E del resto, Germania a parte, pure il caso francese parla chiaro, con ripetute profanazioni di cimiteri ebraici e un'escalation di atti di antisemitismo. La violenza a sfondo religioso non ha risparmiato nemmeno le chiese cristiane: sempre in Francia, solo nel 2018 sono state vandalizzate 875 chiese, e si contano quasi 50 attacchi nel solo mese di febbraio del 2019. Per il secondo esempio, trasferiamoci nel Regno Unito, presso il Royal Stoke University Hospital, un ospedale nella contea dello Staffordshire. Che è successo? Un medico inglese cinquantaduenne, il dottor Keith Wolverson, stava visitando per un mal di gola una bimba di 5 anni, accompagnata dalla mamma di religione islamica. Nel corso della visita, poiché la donna indossava il velo integrale, il dottore ha temuto di non capire ciò che stesse dicendo a proposito delle condizioni di sua figlia, e le ha gentilmente chiesto di rimuoverlo per comprendersi senza equivoci. La madre si è tolta momentaneamente il velo, e tutto sembrava essere andato per il meglio. Senonché, mezz'ora dopo, all'arrivo del marito della donna, quest'ultimo si è lamentato con la direzione dell'ospedale. A seguire, è stata aperta una segnalazione presso l'ordine dei medici britannico.Morale: il povero dottor Wolverson è stato sospeso dal lavoro ed è attualmente sotto indagine nientemeno che per discriminazione razziale, un'accusa che potrebbe fargli definitivamente perdere il posto. Il medico è ovviamente sconvolto, da parte sua non c'era alcuna volontà di discriminare, ma solo lo scrupolo di capire bene le indicazioni della signora: «Le ho domandato di togliere il velo per avere una comunicazione adeguata: avrei chiesto anche a un motociclista di togliere il casco». E c'è davvero poco da ridere, anche dal punto di vista strettamente professionale, come spiega lo stesso Wolverson: «Per chi è fuori dalla professione medica, non è facile capire le conseguenze di un'indagine di questo tipo: è una minaccia di proporzioni inimmaginabili. Si tratta di faccende che richiedono circa un anno di tempo, durante il quale non trovi altri lavori anche come sostituto, perché sei obbligato a dichiarare che sei sotto investigazione, e non ti prende nessuno. So che la mia vita sarà sospesa per mesi, e i miei 23 anni di carriera potrebbero finire in rovina». A sostegno del medico, se non altro, è scattata la mobilitazione online, con 60.000 persone che in pochi giorni hanno firmato una petizione a suo favore. La frase chiave dell'appello è: «Crediamo che il dottore abbia agito nel miglior interesse della bimba coinvolta, e che nelle sue azioni non vi sia stato alcun movente di razzismo o di discriminazione religiosa». Insomma, dalla Germania all'Inghilterra, passando per la Francia, questo è il livello della sfida a cui siamo chiamati, tra minacce esplicite di violenza e le insidie - non meno inquietanti - della cultura «politicamente corretta». Non basterà negare i problemi o trattarli come episodi curiosi, singolari, marginali. È la nuova «normalità».
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».





