
Nel messaggio per i 50 anni della Commissione teologica internazionale, il Pontefice emerito riafferma l'importanza dell'Istituto GPII e della «Veritatis Splendor». Due argini contro la dittatura del relativismo.«Solo l'umiltà può trovare la verità, fondamento dell'amore». Quando la complessità torna al Vangelo tutto si fa chiaro e la giornata nebbiosa d'autunno è spazzata dal vento. Accade nelle pievi di montagna molto lontane dagli intrighi vaticani, accade nelle missioni più povere costruite dall'uomo in tonaca con le sue mani. Accade sempre quando parla o scrive il più anziano e illuminato degli eredi di Pietro, Benedetto XVI, custode discreto della dottrina assediata dagli istinti new age della Chiesa ispirata al marketing della fede.Pochi media hanno dato spazio al saluto di Joseph Ratzinger nel cinquantesimo anniversario di istituzione della Commissione teologica internazionale, inaugurata da San Paolo VI nel 1969 per accompagnare il magistero pontificio dentro le legittime tensioni della modernità. Ed è un peccato, perché nelle parole del Papa emerito si possono di nuovo individuare la strada maestra e quei muretti a secco manzoniani che definiscono un percorso oltre il quale esiste solo un generico «liberi tutti». Benedetto riconosce subito l'importanza della Commissione (oggi guidata dal cardinale Luis Francisco Ladaria Ferrer) e del suo lavoro nell'ultimo mezzo secolo, anche se «non ha potuto raggiungere l'unità morale della teologia e dei teologi nel mondo. Chi si attendeva questo nutriva aspettative sbagliate sulle possibilità di un simile lavoro. E tuttavia la sua è divenuta una voce ascoltata, che in qualche modo indica l'orientamento di fondo che un serio sforzo teologico deve seguire in questo momento storico».È un modo raffinato per ribadire l'importanza fondamentale dei valori non negoziabili, in modo che non diventino una mattina - per l'ansia di assecondare slanci politici di un progressismo senza meta - quelle che padre Antonio Spadaro (consigliere di papa Francesco) definisce «certe questioni morali», assegnando un perimetro di marginalità alle pietre angolari della fede presso i cittadini. Sono sacramenti, famiglia, fine vita, lavoro, dottrina, oggi superati per compiacere il relativismo imperante da eutanasia, aborto, unioni e adozioni gay, utero in affitto, eterologa. Fra i teologi che hanno fatto parte della Commissione, Benedetto cita alcuni giganti come Jorge Medina Estevez, Carlo Colombo, Hans Urs von Balthasar, Raniero Cantalamessa, Johannes Feiner e quel Carlo Caffarra pilastro dell'Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sulla famiglia e sul matrimonio, organismo recentemente spazzato via con il licenziamento dei docenti, per trasformarlo in una specie di dipartimento di sociologia e psicologia. Come se la teologia morale potesse essere sostituita allegramente dalle scienze umane per le quali ha un debole papa Francesco. Ratzinger rivaluta pienamente uno dei cardini di quell'istituto rottamato, l'enciclica Veritatis Splendor di Karol Wojtyla, e la cita come a illuminarla di luce nuova. In particolare sul sacramento del matrimonio ricorda dibattiti e tensioni nella Commissione: «La contrapposizione dei fronti e la mancanza di un comune orientamento di fondo, di cui oggi soffriamo ancora quanto allora, in quel momento mi divenne chiara in modo inaudito. Penso che la Commissione debba continuare a tenere presente il problema e debba fondamentalmente proseguire nello sforzo di ricerca un consenso». Consenso, non rivoluzione. La Veritatis Splendor rimane oggi l'ultimo bastione contro il relativismo, il luogo delle certezze e della dottrina tradizionale, dove la Chiesa aiuta l'uomo a trovare la risposta su «cosa è giusto e cosa è sbagliato». Un ruolo fondamentale, senza il quale varrebbe l'autocertificazione morale del «è bene ciò che io ritengo bene». E allora potrebbe diventare vescovo anche Eugenio Scalfari.Umile come la verità, lo scritto di Benedetto XVI tocca altri due punti chiave. Il primo riguarda la spinta propulsiva del Terzo mondo nel definire le nuove frontiere del cattolicesimo. «Nella Commissione si è sentita sempre più forte anche la voce delle giovani Chiese come quelle dell'Africa e dell'India», con la messa in discussione della tradizione occidentale dominante e l'arricchimento culturale nel confronto delle idee. «Il lavoro mi ha donato la gioia dell'incontro con altre lingue e forme di pensiero. Soprattutto è stato per me continua occasione di umiltà, che vede i limiti di ciò che ci è proprio e apre così la strada alla verità più grande». Il secondo punto è quello più antico e più ambiguo del Vangelo letto e interpretato a certe latitudini: la strumentalizzazione del messaggio di Cristo da parte dell'ateismo comunista. «Nella problematica di progresso umano e salvezza cristiana emerse inevitabilmente anche il tema della teologia della liberazione che in quel momento non rappresentava affatto un problema solo di tipo teorico ma determinava molto concretamente, e minacciava, anche la vita della Chiesa in Sudamerica». Qui di criptico non c'è proprio niente: minacciava la vita della Chiesa, alla fine del mondo.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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