2022-09-09
Una sconfitta epica porta Sinner nell’Olimpo
Il golden boy del tennis italiano gioca e perde la partita della vita. E dopo 5 ore e 14 minuti si inchina ad Alcaraz nei quarti di finale degli Us open. Lo spagnolo: «Non so come ho vinto». Il futuro però è dell’«Ice man» di San Candido, che pecca solo nel servizio.Una mattina al Cumberland Club di Londra, Bjorn Borg prese un caffè e ordinò una strana bevanda a base di ribes nero, sciroppo di zucchero e gazzosa. La buttò giù, fece una smorfia e disse al disgustato allenatore, Lennart Bergelin: «Fa bene al servizio». Fosse così facile, per Jannick Sinner sarebbe fatta: il suo unico difetto evidente (una prima altalenante, una seconda poco profonda) scomparirebbe e Carlos Alcaraz avrebbe le ore contate. Ci affidiamo all’aneddotica e scomodiamo un dio del tennis per entrare in argomento e celebrare uno dei più affascinanti, violenti, crudeli match del secolo, quello che resterà degli Us Open chiunque li vinca. Quello che, come una bolletta del gas di questi tempi, determina il destino: il futuro è loro e i regnanti sul viale del tramonto, Rafa Nadal e Nole Djokovic, ora sanno di avere eredi all’altezza della corona.«Spero che i due boys terribili giochino una partita lunghissima», aveva detto Frances Tiafoe, beniamino di New York, poche ore prima della notte più lunga, nella speranza di avere di fronte in semifinale una pelle di leopardo atleticamente sfinita. Ha avuto ragione: cinque ore e 14 minuti, cinque set tiratissimi (6-3, 6-7, 6-7, 7-5, 6-3) sono serviti al genio spagnolo per domare il formidabile enfant prodige italiano, che nel quarto set ha avuto anche un match point per chiudere la faccenda con un colpo da ko. La metafora ci sta, l’Arthur Ashe Stadium come un ring, rovesci come uppercut, palle corte come jab. Un quarto di finale meraviglioso, la conferma che Alcaraz è un predestinato - per varietà di colpi e quel raro serve and volley che fa tanto Pete Sampras -, ma soprattutto che il ragazzo di San Candido può guardarlo dritto negli occhi per i prossimi dieci anni.Sinner ha giocato la partita della vita e l’ha persa. Dopo aver battuto il rivale generazionale (19 anni Alcaraz, 21 lui) a Wimbledon e in Croazia, è venuto il momento di rifare la sacca e tornare a casa prima. Ma la notte americana va oltre punteggi e gastriti. Jannick è uno dei più giovani di sempre ad aver raggiunto i quarti di finale in tutti i tornei dello Slam. Per dire, Nadal c’è arrivato a 20 anni e sette mesi, Djokovic a 20 anni e otto mesi, Roger Federer a 23 anni. Ha giocato una partita coraggiosa e aggressiva, ha dato spettacolo, non si è mai risparmiato, non ha sofferto il tifo americano incline a premiare le zingarate dello spagnolo. Sinner si è confermato «Ice man». Forse gli manca l’istinto del killer, ma a 21 anni non si può avere tutto.Alla fine della maratona Alcaraz ha preso il microfono: «Non so come ho fatto a vincere. Jannick è un grande giocatore e una persona magnifica. Tutti ammirano il suo livello. Come ho recuperato? Mi dico sempre che la speranza è l’ultima cosa che puoi perdere». Un chiaro tributo, per giocare come si fa in paradiso bisogna essere in due. Ma da altoatesino perfezionista, Sinner guarda il bicchiere mezzo vuoto: «Ho subìto sconfitte dure ma questa è in cima alla lista. Mi farà male a lungo. Il lato positivo è che adesso sono pronto a giocare ore e ore. Oggi ho alzato il livello e sono soddisfatto di questo». Il significato della sottolineatura è chiaro: con il nuovo staff capeggiato dall’australiano Darren Cahill (buon doppista, ex allenatore di Lleyton Hewitt e Andre Agassi) il motore atletico funziona meglio, ha più giri, e i colpi pensati dalla mente si scaricano con formidabile scioltezza sul braccio. Oltre le cinque ore a quel ritmo non è più sport ma una scalata himalaiana: fasci di nervi e recuperi in apnea. Il duello fra i due boys terribili ha qualcosa di antico, tira aria da rivalità da racconto di Joseph Conrad: ormai si cercano, si inseguono, si fanno male in campo. Ma a differenza dei due ussari della storia non si odiano, anzi sanno che l’uno potrà fare la fortuna dell’altro. La loro partita è già lì, dentro la bacheca degli Us Open. Non bisognerebbe, ma è difficile non andare con la memoria alle cinque ore e 53 minuti di Djokovic-Nadal, finale degli Australian Open del 2012, la più lunga nella storia del Grande Slam. O alle quattro ore scarse dei cinque set della partita assoluta: il Borg-McEnroe del 1980, sempre sull’erba regale, con lo svedese nell’immagine iconica mentre, in ginocchio, si toglie la fascetta ringraziando lassù. Il boato non si sente, si vede. Tranne qualche fanatico sui social nostalgico di Stefano Pescosolido e Andrea Gaudenzi (con tutto il rispetto), non c’è appassionato italiano di tennis che oggi non sia entusiasta di Sinner. Lo aveva battezzato l’anno scorso Paolo Bertolucci: «Per una volta il merito è della cicogna, che ha avuto la costanza di attraversare le Alpi invece di fermarsi prima». Spavaldo ma mai arrogante, con la dinamite nel braccio e nei quadricipiti, forte di una cultura del lavoro interiorizzata da generazioni nelle malghe che furono dell’imperatore Cecco Beppe, Sinner è come un investimento sul mattone: una certezza. Con lo schützen ci sarà da divertirsi, a cominciare dalla Coppa Davis a Bologna la prossima settimana (in coppia con Matteo Berrettini) contro Croazia, Argentina e Svezia.Da bambino preferiva le racchette da neve, perché a 1.600 metri di altitudine il tuo primo pensiero è legato ai fiocchi che cadono a ottobre e rimangono lì fino a primavera. Voleva diventare uno slalomista, poi decise altrimenti. E al suo primo allenatore, Andrea Spizzica, che se lo ritrovò a sette anni a Brunico accompagnato dal nonno, diceva: «Ho scelto il tennis perché nello sci se fai un errore sei fuori, qui puoi rimediare». Non sempre.