2020-05-19
Iv ci pensa, traballa la poltrona di Bonafede
Domani si discute la mozione di sfiducia al ministro. Sotto accusa la sua politica giudiziaria e correntizia. Matteo Renzi minaccia di votare con la Bonino e il centrodestra, ma potrebbe essere la solita strategia per poi passare all'incasso su altre partite.Valutare le «esigenze organizzative» delle agenzie fiscali è giurisprudenza creativaLo special contiene due articoliE adesso, pover'uomo? Contro il ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede, cresce uno tsunami di polemiche e imbarazzi. E la sua poltrona scricchiola. Italia viva, il partitino di Matteo Renzi, alza la voce e domani, in Senato, minaccia di votare a favore della nuova mozione di sfiducia individuale presentata domenica da +Europa, il gruppo stretto attorno a Emma Bonino, alla cui stesura ha contribuito Enrico Costa, deputato e responsabile giustizia di Forza Italia. Il nuovo atto d'accusa colpisce Bonafede su temi diversi da quelli contenuti nella mozione presentata dieci giorni fa dal centrodestra. Il documento di Lega, Forza Italia e Fratelli d'Italia attacca il ministro della Giustizia soprattutto per lo scandalo delle 400 scarcerazioni di detenuti pericolosi, tra cui vari boss mafiosi, e ha il perno nella querelle che oppone al guardasigilli Nino Di Matteo, il magistrato antimafia che accusa Bonafede di non averlo nominato a capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, nel giugno 2018, per le proteste di «importantissimi boss mafiosi detenuti». La mozione Bonino-Costa, firmata da 52 senatori tra i quali spiccano azzurri di peso come Alberto Barachini, Giacomo Caliendo, Adriano Galliani, Niccolò Ghedini, Licia Ronzulli e Renato Schifani, critica invece Bonafede per un più ampio spettro d'inadempienze. Il ministro non avrebbe solo gestito l'emergenza sanitaria nelle carceri «con sufficienza e negligenza». La mozione gli rimprovera la «mai troppo criticata soppressione della prescrizione», la riforma che ha allargato l'impiego delle intercettazioni e «la ragnatela di norme» che favoriscono «il processo inquisitorio e la gogna mediatica». Sono i tipici temi garantisti che legano i parlamentari liberal-democratici e radicali, e accomunano Forza Italia, Italia Viva e +Europa. «È una risposta alla politica giudiziaria di Bonafede, di cui non condividiamo nulla», dice Costa alla Verità. Aggiunge Benedetto Della Vedova, segretario di +Europa: «È un no alla sua politica confusa, improntata al populismo giudiziario, a un'idea panpenalista e manettara»Il colpo più duro della mozione, però, arriva sulle nomine ministeriali governate da quello che, giorno dopo giorno, emerge come un indecoroso mercato sotterraneo tra le correnti della magistratura: proprio il tema, cioè, che negli ultimi giorni dà più guai a Bonafede, e che giovedì lo ha privato addirittura del suo capo di gabinetto, Fulvio Baldi, costretto alle dimissioni per le intercettazioni depositate dalla Procura di Perugia nell'inchiesta per corruzione contro l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara. Anche ieri, su La Verità (e nell'assordante silenzio degli altri giornali e giornaloni), Giacomo Amadori ha riferito nuovi contenuti di quelle carte. Dal telefonino sequestrato al pubblico ministero sono uscite nuove trattative segrete, tese a piazzare nei «posti giusti» i candidati delle correnti: trattative che coinvolgono l'ex capo di gabinetto Baldi, e scelte che alla fine vengono avallate da Bonafede. Anche per queste rivelazioni, la mozione Bonino-Costa accusa il guardasigilli di essere stato «incapace di vigilare sulla trasparenza delle nomine». E questa è forse la scudisciata più dura per il grillino divenuto ministro, perché nel luglio 2019 proprio Bonafede aveva annunciato in pompa magna una riforma del sistema elettorale del Csm «per sottrarlo allo strapotere delle correnti». La riforma, però, è scomparsa all'orizzonte, mentre oggi il guardasigilli è costretto a vedere il suo ministero in balia «di di scontri e polemiche legate all'influenza delle correnti nelle nomine di magistrati».Domani, al Senato, si vedrà che cosa sarà del ministro. Italia viva si dice tentata di aderire alla mozione Bonino-Costa, ma potrebbe essere la solita «strategia minatoria» che le permette poi di passare all'incasso su altre partite. Una trattativa in extremis, comunque, è in corso anche stavolta, se è vero che ieri sera nell'agenda di Palazzo Chigi era previsto un incontro tra Maria Elena Boschi e il premier, Giuseppe Conte. Renzi intanto ha annunciato che in Senato sarà lui a parlare per il gruppo e ha lanciato un sondaggio online: «I numeri sono ballerini», ha scritto, «e Iv potrebbe essere decisiva. Voi che idea vi siete fatti?». Sempre ieri un anonimo senatore renziano ricordava all'agenzia Adnkronos, sbuffando, che «noi abbiamo 17 senatori e il Pd 35», e lamentava una serie d'inadempienze da parte della maggioranza: «Non è possibile che noi siamo tenuti fuori da ogni decisione. Non è possibile che ogni nostra proposta sia una scocciatura. Non è possibile che da Palazzo Chigi arrivi l'ordine alla Rai di non parlare di Italia viva». E concludeva: «Se stare in questa maggioranza significa non portare nulla al partito, morire per morire almeno facciamolo tenendo fede ai nostri principi». In Parlamento gira anche una strana voce, che la faccenda potrebbe finire con un rimpasto. Bonafede potrebbe lasciare la Giustizia, per scambiare la poltrona con un collega: magari Dario Franceschini, ministro pd della Cultura. Ma potrebbe mai accettare un tale schiaffo il capodelegazione governativo dei grillini, l'uomo che fu assistente del professor Giuseppe Conte all'università di Firenze e che lo presentò al capo politico del Movimento 5 stelle, avviandolo alla carriera politica?<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/iv-ci-pensa-traballa-la-poltrona-di-bonafede-2646028493.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="non-tocca-alla-consulta-sindacare-il-potere-discrezionale-delle-camere" data-post-id="2646028493" data-published-at="1589837368" data-use-pagination="False"> Non tocca alla Consulta sindacare il potere discrezionale delle Camere Il giudice delle leggi diventa anche giudice del fatto, del merito, della opportunità di una legge, prima che della sua legittimità costituzionale? Attuando, in fin dei conti, un sindacato sull'uso del potere discrezionale delle Camere? Aingenerare il dubbio una recente ordinanza della Consulta (n. 52 del 25 febbraio 2020, Pres. Cartabia, Rel. Zanon) in un giudizio promosso dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio che dubita della costituzionalità dell'art. 1, comma 93, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018) che prevede, per le agenzie fiscali, l'istituzione di posizioni organizzative «per lo svolgimento di incarichi di elevata responsabilità, alta professionalità o particolare specializzazione, ivi compresa la responsabilità di uffici operativi di livello non dirigenziale» e le modalità del loro conferimento. La Corte costituzionale ha adottato d'ufficio l'ordinanza prima richiamata avvalendosi di una facoltà, quella di nominare esperti, introdotta solamente l'8 gennaio 2020 tra le «Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale» con delibera del presidente della Corte, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 22 gennaio. Deliberata e subito applicata, la norma ha consentito alla Corte di individuare nei periti Elio Borgonovi e Vieri Ceriani, che il Collegio giudicante ascolterà in Camera di Consiglio il prossimo 27 maggio, coloro ai quali si chiedono «ulteriori e specifiche informazioni in relazione alle esigenze organizzative delle agenzie fiscali, alle mansioni assegnate al personale e alle modalità di selezione dello stesso, con particolare riferimento a presupposti e ricadute della introduzione delle cosiddette posizioni organizzative di elevata responsabilità» (Poer). «Modalità di selezione», e questo è certamente diritto, oggetto appunto del giudizio di costituzionalità promosso dal Tar tra l'altro con rinvio a precedente giurisprudenza della Corte, in particolare alla sentenza n. 37 del 2015 che già aveva censurato analoghe modalità di reclutamento. Il giudizio di costituzionalità, infatti, è di stretta legittimità, come si legge nell'art. 134 Cost. e nell'art. 28 della legge n. 87/1953, sui giudizi di costituzionalità, secondo il quale «il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale del Parlamento». Un limite che va stretto ai seguaci della «giurisprudenza creativa» per i quali i parametri di legittimità sono molto labili, vanno al di là della stessa Carta fondamentale, in quanto oggi - ha scritto l'ex presidente della Corte, Paolo Grossi «abbiamo il dovere di dubitare, fondatissimamente, di quel principio di gerarchia delle fonti che, ai tempi in cui ero studente di Giurisprudenza, ci veniva insegnato come un dogma». Deborderebbe, dunque, la Corte se decidesse sulla base delle «esigenze organizzative» le quali identificano una questione di merito, di natura squisitamente politica, che non compete alla Corte. E comunque non si potrebbe pervenire alla conclusione che sia costituzionalmente legittimo il reclutamento di personale, in astratto idoneo a soddisfare «esigenze organizzative», quando le modalità della selezione contrastassero, come sospetta il Tar, con i principi che si rinvengono negli artt. 3 e 97, ultimo comma, della Costituzione, i quali prescrivono la regola del concorso, pubblico ed aperto, per l'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni (Tar Lazio n. 2080/16 che richiama Corte costituzionale sentenze n. 99 del 2012 e n. 293 del 2009). La disposizione censurata, infatti, aggira tale regola consentendo l'accesso a un ruolo e, comunque, a un inquadramento giuridico diverso da quello rivestito senza pubblico concorso realizzando una vera e propria progressione di carriera verticale per i dipendenti appartenenti alla terza area (ammessi alla selezione) proprio perché la nuova funzione è caratterizzata dall'esercizio di poteri non riconducibili all'area in esame. Un sistema che previlegia gli interni a danno della più ampia selezione, come nell'interesse della Pubblica amministrazione.
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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