2024-12-22
Tra Italia e Ue Prodi sceglie sempre la Cina
Il Professore teme che il legame del premier con Donald Trump e Ursula von der Leyen possa sconvolgere gli equilibri che lui ha avviato 25 anni fa a Bruxelles. Per questo invita a non rompere con Pechino, ma le sue aperture verso il Dragone non han mai fatto bene al nostro Pil.A Romano Prodi va riconosciuta una certa coerenza. Quando c’è da scegliere tra Europa e Italia, la sua fede politica opta per la Cina. I suoi appelli, i suoi inviti da padre fondatore di un’Europa globalizzata e di un atlantismo socialista indicano sempre una terza via che vuole a tutti i costi dipingere Pechino come una opportunità.Nel suo consueto editoriale sul Messaggero rammenta a tutti noi che il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca il prossimo gennaio sarà improntato al motto «America first» e in quanto tale avvierà una politica di avvicinamento ostile al Paese del Dragone. «Sarà uno schema G2», scrive, dal quale noi europei saremo esclusi. Nulla di nuovo né inedito. Se non nei toni. I quali sono rivolti alla politica interna italiana e al rapporto che si è venuto a formare da un lato tra Giorgia Meloni e la coppia Musk-Trump e dall’altro tra il nostro premier e Ursula von der Leyen. Quando Prodi accusa Meloni di ubbidire alla politica estera americana e, indirettamente, di scambiare un interlocutore privato per un interlocutore politico, si lascia scappare il senso di timore. La paura che dopo quasi 25 anni qualcuno possa annullare cinque lustri di politica europea frutto ed eredità degli anni in cui il professore di Bologna è stato a Bruxelles a fare il Commissario.Teme evidentemente che adesso, senza la filiera dei Clinton e di Obama dall’altra parte dell’oceano, i rapporti di peso possano invertirsi. Non certo dal punto di vista Usa, ma da quello degli interlocutori degli Usa. A puntellare le varie congreghe socialiste in questi anni non è stato il consenso degli elettori, ma il ruolo di garanti di un equilibrio. Tolto il ruolo, viene meno la ragione di esistere o tener in vita un intero Deep State. Detto questo, Prodi ha ragione quando delinea le sfide che ci attendono con l’arrivo del Trump bis. Cioè un mondo polarizzato, all’interno del quale l’Europa sarà ancor più di oggi in affanno. Un mondo deglobalizzato con guerre vere, guerre ibride e guerre combattute attorno al possesso delle materie prime indispensabili per la sovranità tecnologica. Una lunga serie di incognite che lasciano anche gli analisti più qualificati senza risposte precise. Viviamo in un momento in cui sulla mappa del globo le parti con la scritta latina hic sunt leones sono sempre più numerose. Tuttavia, c’è una certezza. La strada che indica Prodi è quasi certamente quella sbagliata, almeno se analizziamo a ritroso il suo impegno e le sue scelte politiche a partire dal marzo del 1999 quando fu nominato Commissario Ue. La sua presidenza ha coinciso con le trattative per l’ingresso della Cina nel Wto. Tra il Duemila e il 2004 ci furono ben tre vertici tra Bruxelles e Pechino durante i quali sarebbe stato possibile chiedere maggiori garanzie per le imprese Ue. Ma nessun allarme è stato lanciato. Bisogna aspettare l’arrivo di José Manuel Barroso per vedere una presa di coscienza. Ma la frittata era stata fatta. D’altronde alla base di quella politica c’era anche il supporto dell’ideologia di Bill Clinton, convinto che portando la Cina dentro le logiche di mercato questa si sarebbe aperta alla democrazia. È avvenuto invece l’opposto. Dimostrando che un sistema autocratico come il suo poteva andare a braccetto con l’economia liberale, con un Prodotto interno lordo che secondo i dati del Fondo monetario internazionale dal Duemila è sempre stato in crescita, con un picco nel 2007 del 14,2%. Ovviamente nessuno ha mai verificato i numeri, né ha avuto la possibilità di farlo. Abbiamo solo assistito a politiche monetarie artefatte e a bolle borsistiche che alla fine hanno sempre visto la politica del Pcc attirare capitali occidentali e utilizzarli per rafforzare il proprio potere contro l’Occidente. Ma il punto è un altro. È che se siamo in questo cul de sac lo dobbiamo proprio al cammino che la sinistra ha scelto per l’Europa. E, nonostante le evidenze, non accenna a retromarce: al contrario sbraita contro chi ha idee diverse e magari valide. Nei primi anni del Duemila il commercio con la Cina è aumentato del 700% e lungo la Penisola abbiamo assistito alla prima grande moria di aziende. All’epoca Guglielmo Epifani, che era leader della Cgil, si è scagliato contro il governo Berlusconi puntando il dito sul grande contenitore del Wto. Gli rispose magistralmente dagli uffici di Via XX Settembre Giulio Tremonti: «Il dottor Epifani avrebbe potuto informarsi meglio. Se lo avesse fatto, avrebbe scoperto che l’atto politico decisivo per l’ingresso della Cina nel Wto è l’accordo Ue-Cina del maggio del Duemila (governo Amato appena succeduto a quello D’Alema, ndr)», recitava la nota del Mef. «Con questo strumento, l’impegno dell’Italia è diventato irreversibile. Tanto per cambiare, la Sinistra non si assume le sue responsabilità. Invece di essere orgogliosa della scelta sua mercatista, cerca di truccare le carte in tavola. È, in specie, più coerente il presidente Prodi, che da Pechino conforta e tranquillizza i cinesi. Li assicura che l’allargamento dell’Europa a Est costituisce nel suo insieme un importante vantaggio per la Cina, che si troverà così davanti a un mercato di dimensioni enormi». Era il 2004, anno in cui l’Ue si è estesa in blocco ad altri dieci Paesi. Non era una millanteria quella di Prodi ma un dato di fatto. Ora attenzione, non è escluso che si torni a discutere di allargamento dell’Ue nei Balcani. Ok. Ma che avvenga per le nostre imprese e non per quelle cinesi. Stesso discorso per l’Africa. La scelta di sostenere le cosiddette primavere arabe è stata alla fine un enorme favore a Pechino. E anche su questo capitolo ci sarebbe da versare tonnellate di inchiostro. Dal prossimo anno le sfide sono aspre. Le soluzioni fumose. Ma al momento, grazie alla sinistra, sappiamo quali esempi non seguire.
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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Viktor Orbán durante la visita a Roma dove ha incontrato Giorgia Meloni (Ansa)
Francesca Albanese (Ansa)