2025-08-12
Lo ammette pure il dirigente: l’Italia fu chiusa in casa dando retta a un matematico
Piazza Duomo a Milano durante il primo lockdown del marzo 2020 (Ansa)
In Commissione Covid il direttore della programmazione sanitaria lo conferma: l’autorità sui lockdown era Merler della Fondazione Kessler. Che nemmeno è medico.Dati disomogenei e «mandati a spizzichi e bocconi»; protocolli dell’Oms tradotti e sintetizzati arbitrariamente perché nessuno sapeva l’inglese; riunioni a singhiozzo con la linea che saltava; nessuna regia nazionale della comunicazione e membri del Cts che «stavano più in televisione che non all’interno del comitato tecnico-scientifico», conflittualità elevata; sovrapposizione di pareri diversi o addirittura opposti; troppi generali impreparati e nessun soldato nei gruppi di lavoro; sgarri tra colleghi per guadagnare un posto al sole; incapacità di tracciare le persone in arrivo in Italia e, infine, una regia occulta in Trentino, dove un istituto privato decideva le sorti del Paese: a rileggere i verbali delle audizioni in commissione Covid dei due membri della task-force Coronavirus, Mauro Dionisio e Andrea Urbani, desecretati ieri, c’è da andare ad accendere un cero alla Madonna. Perché a fronte di tale e tanta inadeguatezza e malagestione dell’emergenza, sarebbero potuti morire molti più italiani e non certo per colpa del Covid.Le due audizioni, che si sono svolte il 16 aprile e il 13 maggio, hanno coinvolto due funzionari della task-force Coronavirus: il dottor Mauro Dionisio, dirigente medico del Ministero della salute, e il dottor Andrea Urbani, già direttore generale della programmazione sanitaria del Ministero della salute, entrambi chiamati a far parte della task force a gennaio 2020. L’obiettivo della commissione Covid è sempre quello di conoscere le prove scientifiche alla base delle misure draconiane adottate dall’Italia rispetto agli altri Paesi con risultati tragici e, spoiler, non ce n’è stata neanche una. Che le decisioni siano state prese, infatti, sulla base di indirizzi politici e non scientifici, si è avuta la conferma dopo la domanda rivolta ad Andrea Urbani dal presidente della commissione Covid Marco Lisei, che voleva sapere «chi si è assunto la responsabilità delle scelte». La risposta di Urbani ha confermato che era il ministero a decidere: «I verbali venivano consegnati fondamentalmente al ministro e al presidente del Consiglio che, immagino, avessero tante esigenze da contemperare, ne facevano una sintesi e adottavano decisioni». Sul tema, Lisei incalza anche Dionisio, che replica: «Il ministro o - le rare volte che non c’era - il viceministro, ponevano dei quesiti sulle problematiche generali. A distanza di 30-45 minuti, a seconda del focus della riunione, coloro che avevano necessità di approfondire restavano e tutti gli altri uscivano». Riunioni, c’è da sottolineare, molto spesso saltate a causa dell’arretratezza degli strumenti di comunicazione: «Durante la pandemia molto spesso non riuscivamo a collegarci in videoconferenza, perché i sistemi saltavano e dovevamo spegnere il video», precisa Urbani. Meeting caratterizzati inoltre da aspre conflittualità, sintetizzate sempre da Urbani, interrogato da Guido Liris (Fratelli d’Italia): «C’era un dialogo tra medici sicuramente acceso, spesso di contrapposizione tra Istituto superiore di sanità e l’Istituto Spallanzani, per esempio, ma anche tra Istituto superiore di sanità e Consiglio superiore di sanità; comunque ritengo fosse più legato a questioni personali, o forse è meglio fare riferimento a questioni di leadership all’interno di un gruppo, che non a ragioni di sostanza». Gli ego dei protagonisti della pandemia, insomma, avevano il sopravvento sulla sorte dei cittadini italiani. Urbani risponde anche a Galeazzo Bignami (Fratelli d’Italia) che gli chiede se il Cts non dovesse dotarsi di una sola voce, adottando una comunicazione omogenea e coerente: «C’era sicuramente conflittualità all’interno», «c’erano colleghi del Cts che stavano più in televisione che all’interno del Comitato tecnico-scientifico e questo è di tutta evidenza» e comunque «non c’era una regia nazionale sulla comunicazione (quando si provò ad affidare la comunicazione a una sola voce, le virostar, in prima linea Matteo Bassetti, andarono su tutte le furie parlando di «censura», ndr)». Le decisioni, insomma, le prendeva la politica, ossia il ministro della salute Roberto Speranza. Ad esempio quella, cruciale, sul lockdown: «L’atteggiamento del ministro era in linea con la parte più lockdown del Cts», dichiara Urbani a domanda di Lisei. I commissari si chiedono a questo punto sulla base di quali evidenze scientifiche Speranza & Co. abbiano preso le decisioni più dolorose come quella del lockdown. A domandarlo è Claudio Borghi della Lega, ricordando che c’erano stati strumenti di limitazione degli spostamenti e della socialità «che ci sembravano logici e che invece in certi casi erano controproducenti», ad esempio «i coprifuochi che aumentavano gli assembramenti invece che ridurli. Vi risulta che parte delle decisioni fossero derivanti dallo studio fatto dall’Imperial College sulla diffusione del virus, che poi dopo si è rivelato avere qualche lieve problema?», chiede usando un eufemismo il senatore leghista. La replica di Urbani è sconcertante: «Le decisioni venivano prese sulla base di simulazioni d’impatto che arrivavano dall’Istituto superiore di sanità e dalla Fondazione Bruno Kessler. Dopodiché, giravano anche studi sulla libera circolazione, che erano quelli che lei ha ricordato». Domandando per quale motivo la fondazione fosse divenuta «autorità indiscussa sulla decisione di chiudere uno Stato», Borghi domanda a Urbani se sapeva che Stefano Merler, presidente della Fondazione Kessler, non fosse medico. «Quindi, lei mi sta dicendo che buona parte dei vostri colleghi seguiva in modo pedissequo, riconoscendovi una grande autorità in questa fase, le indicazioni che venivano da una piccola fondazione del Trentino e, soprattutto, da una persona che non era un epidemiologo né un medico, perché il professor Merler è laureato in matematica?». «Glielo confermo», è la replica, secca, di Urbani. Ma è sul fronte dei contenuti che le due audizioni fanno rabbrividire, a cominciare dai dati, definiti dal funzionario «molto frammentati e soprattutto non strutturati: quelli che arrivano dall’Istituto superiore di sanità erano inizialmente poco profondi». Ed erano gestiti da troppe persone. Non solo: «I dati arrivavano a spizzichi e bocconi, qualche regione li caricava meglio, qualche regione non li caricava proprio» rivela Urbani, precisando che erano «molto sporchi e incompleti». Come hanno potuto Conte e Speranza chiudere per due anni un Paese sulla base di questi dati, resta un mistero, posto che non sapevano neanche leggerli: «Ero l’unico che parlava inglese in un ufficio che si confronta inevitabilmente con il National focal point di tutti i Paesi». Stesso discorso per quanto riguarda l’incapacità di tracciare i passeggeri provenienti dall’estero, soprattutto dalla Cina: «Mi risulta che, proprio per le difficoltà tecniche e per queste motivazioni che vi ho espresso, l’ipotesi di imporre un blocco a tutti i passeggeri provenienti dalla Cina con voli diretti e indiretti non sia stato preso in considerazione», spiega Dionisio. Lasciando intendere che la terza economia più grande dell’Unione europea e ottava economia mondiale per Pil nominale non sia, né allora né oggi, in grado di risalire alla provenienza di un soggetto in aereo, alla faccia di tutte le minacce terroristiche evocate in questi anni. Sulla mancata applicazione del piano pandemico del 2006, è Andrea Urbani a chiosare: «È stato valutato non applicabile, ma non da me. Era il ministero della Salute a scegliere la cassetta degli attrezzi». E quelli scelti da Roberto Speranza, a quanto pare, sono stati tutti sbagliati. In che mani siamo stati?
Erika Kirk, la moglie di Charlie (Ansa)