2025-09-26
La Genova della democratica Salis: minacce e censure dei gruppi antifa
Dopo le pressioni, salta la sala per ricordare Sergio Ramelli. Sui muri dell’università spuntano le facce del rettore e di Anna Maria Bernini con un mirino. Scritte anarchiche sulla società che porta container in Israele. A Genova la Resistenza non è mai finita. Il 1945 è ancora qui. Ed è impastato di odio e violenza. Il collettivo si chiama «Genova antifascista» ed è solito compiere azioni contro chi la pensa diversamente. Perfino se è morto, come Norma Cossetto, massacrata dai partigiani comunisti di Josip Broz Tito nel 1943. Solamente qualche giorno fa, hanno capovolto la sua lapide, evocando così lo scempio di piazzale Loreto. Ad agosto, invece, l’avevano fatta sparire. «Non dobbiamo abbassare l’odio di classe», scrive il collettivo su Facebook. Ed è davvero così. A Genova, infatti, era stato organizzato per il prossimo sabato un evento su Sergio Ramelli, il giovane missino morto a causa di una brutale aggressione con le chiavi inglesi organizzata dalla «Brigata coniglio» (copyright Gad Lerner) di Avanguardia operaia. Sergio muore dopo 47 giorni agonia. L’evento si sarebbe dovuto tenere in centro, in via XX settembre, presso la Bi. Bi. Service. Ma non si farà. O meglio: non si farà lì perché i proprietari di quel locale hanno ricevuto parecchie pressioni. Del resto, «Genova antifascista» rivendica con orgoglio su Facebook, dopo le solite sparate (per ora solamente virtuali) su fascisti o presunti tali: «Pertanto, se c’è da divertirsi e ricordare i bei tempi, sabato ci saremo anche noi. A ricordare, a chiunque vi ospiti, che è solo questione di tempo, e prima o poi, in un modo o nell’altro, verranno sanzionati». Perché non tutti possono parlare o, peggio ancora, non tutti possono ospitare chi preferiscono.In passato, poi «Genova antifascista» ha anche vandalizzato più volte la targa dedicata a Ugo Venturini, operaio e padre di famiglia iscritto all’Msi, morto dopo essere stato colpito alla testa da una bottiglia piena di sabbia lanciata da estremisti di sinistra durante un comizio di Giorgio Almirante a Genova nel 1970.L’antifascismo militante di questa città, però, non riguarda solamente gruppi radicali. Claudio Chiarotti è un consigliere comunale eletto con il Partito democratico ed è colui che ha detto a una collega di Fratelli d’Italia: «Non dire cazzate, vi abbiamo già appesi per i piedi una volta». Nessuno a sinistra (salvo il sindaco Silvia Salis, chiamato ad intervenire: «Ha sbagliato, ha detto una cosa grave», ha detto) ha preso le distanze da queste parole. Anzi. Quando Chiarotti ha provato a chiedere scusa ha detto: «Hanno preteso un minuto di silenzio per Kirk. E hanno dileggiato Bella ciao, che è la canzone di tutti. Mi si è chiusa la vena». Ora, Bella ciao non è la canzone di tutti. Men che meno dei partigiani visto che, come è stato chiarito, non l’hanno mai cantata. Né in montagna né al mare. È la canzone di una fazione che fa dell’antifascismo militante la propria ragion d’essere e che, in suo nome, pretende di chiudere la bocca altrui. Sono tanti i casi di intolleranza e violenza a Genova (ultimo quello delle minacce al sindaco). Durante le proteste pro Palestina di lunedì scorso, l’ateneo cittadino è stata occupato e sono apparse le foto del ministro dell’Università e della ricerca, Anna Maria Bernini, e del rettore, Federico Delfino, con un mirino in fronte. L’accusa? Quella di non sostenere la Flotilla che sta navigando verso Gaza e che, guarda caso, è partita proprio da Genova. Ma non solo. La scorsa settimana sono apparse delle scritte, siglate con la «A» di anarchia, sui muri del gruppo Cosulich, «reo» di caricare container diretti verso Israele perché fa da agenzia alla compagnia di navigazione Borchard. «Complici di genocidio», si legge. Anche se in quei container non c’è nulla che serve per continuare la guerra a Gaza. Tutto in nome della Resistenza. Quella di ieri, certo. Ma pure quella di oggi, in nome del popolo palestinese. Ma, scriveva Giampaolo Pansa, «la storia della Resistenza sbandierata dai vincitori nasconde troppe menzogne. È una narrazione in gran parte falsa e va riscritta quasi per intero. Il tanto demonizzato revisionismo è un obbligo morale per chi non accetta che la propria nazione si regga su un racconto di se stessa viziato da troppe fake news, per usare un’immagine di moda. Soltanto alla fine di questo percorso lungo si potrà davvero ottenere la storia condivisa sempre invocata». Il discorso di Pansa era valido per la Resistenza di ieri. Ma ancor più per quella di oggi.
Erika Kirk, la moglie di Charlie (Ansa)