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2019-01-14
«Io che l’ho aiutato a evadere vi dico: non rimarrà in carcere a lungo»
Ansa
È l'uomo che il 4 ottobre 1981 ha fatto evadere Cesare Battisti dal carcere di Frosinone, consentendogli una fuga lunga 38 anni. Adesso la prima frase che pronuncia Pietro Mutti è di sollievo: «È finita anche per quel signore». Ma la sua voce non sprizza gioia. Per gli amici di Battisti è il «fantasma» che con le sue dichiarazioni ha incastrato il loro idolo. In realtà Mutti, uno dei fondatori dei Proletari armati per il comunismo, è il pentito che custodisce i segreti dell'ex compagno. Mutti, 64 anni, occhialuto, baffi e capelli brizzolati, fisico asciutto, sa che qualcuno in Italia potrebbe tremare per il ritorno di Battisti, in particolare i complici mai identificati che protessero il fuggitivo prima a Roma e poi a Bologna. «Quelli in Emilia erano rapporti più personali che politici», rivela Mutti. Secondo il quale quei nomi non sono mai usciti perché erano una rete di amicizie costruita da alcuni suoi ex compagni dei Pac, a partire da Sebastiano Masala, ma anche da Claudio Lavazza e Luigi Bergamin. Il primo è irrintracciabile, il secondo, convertitosi all'anarchia, è in carcere in Spagna dopo aver ammazzato nel 1996 due poliziotti e il terzo fa il traduttore (latitante) in Francia. I fiancheggiatori misteriosi di Battisti erano donne? «Probabile. So che Masala aveva una relazione amorosa a Bologna, una donna che io però non ho mai conosciuto personalmente. Quando Masala aveva queste storie io stavo già entrando in Prima linea e lui stava meditando di lasciare la lotta armata. Io, però, non sono mai riuscito a spiegare ai magistrati come quei contatti fossero passati da Masala, che nel frattempo era stato arrestato, a Bergamin e Lavazza. Io all'epoca li vedevo raramente. Nel 1981 ci siamo incontrati per organizzare l'evasione di Battisti da Frosinone, però, ognuno faceva la propria vita».
All'epoca Mutti si era trasferito a Roma in un seminterrato in zona San Giovanni dove viveva in clandestinità con la ragazza dell'epoca, la terrorista Maria Pia Sacchi. Ma chi ebbe l'idea di far evadere Battisti? «Me lo proposero Lavazza e Bergamin. Con loro mi incontravo sempre in luoghi pubblici in giro per la Capitale. Erano in contatto con la sorella di Battisti e mi risulta che lei gli avesse spiegato la situazione della prigione di Frosinone, che aveva ben poche misure di sicurezza. Così Lavazza e Bergamin cercarono di coinvolgermi».
Mutti era in grado di fornire un appoggio militare perché era uno dei capi di Prima linea. «Personalmente ero interessato all'operazione, però, per correttezza mi sono consultato con gli altri coordinatori, anche se all'epoca pure Prima linea era alla fine ed eravamo quattro gatti. A gestire gli ultimi rimasugli eravamo io e Giulia Borelli». Quell'esperienza finì nel giro di pochi mesi. Prima venne ferita la Borelli, quindi i carabinieri del futuro generale Mario Mori arrestarono Mutti nel suo rifugio, dove era imprudentemente tornato. Gli inquirenti iniziarono a torchiare lui e i suoi compagni su Prima linea. Successivamente si concentrarono sulle malefatte dei Pac e di Battisti.
Ma torniamo all'evasione. I vertici di Prima linea autorizzarono l'assalto al carcere di Frosinone: «Lo fecero con riserva, ma trattandosi di un'operazione di liberazione dissero che andava bene e per questo abbiamo fatto questa unione tattica tra ex Pac e Prima linea». Il commando era composto da Mutti, Bergamin, Lavazza, oltre che da Luca Frassinetti e Sonia Benedetti di Pl. «Arrivammo in macchina. Era l'orario delle visite. La Benedetti suonò al portone come se fosse una parente che doveva avere un colloquio. Per quello portammo una donna. Inizialmente doveva venire l'ex fidanzata di Battisti, ma non era militarmente all'altezza (oggi fa la docente universitaria, ndr). Io entrai subito dopo Sonia. Bloccammo le guardie, che erano disarmate e non opposero resistenza. Avevamo pistole e bottiglie molotov, ma non abbiamo dovuto sparare nemmeno un colpo. Come ho detto, era una casa circondariale per ladri di polli. Battisti lo avevano trasferito per un vecchio processo che doveva subire per reati comuni (era stato condannato per rapina, ndr) e poi era rimasto lì. Ci facemmo aprire due cancelli e mi sembra che Battisti fosse già ad aspettarci sulle scale che portavano ai raggi dell'istituto. Con lui c'era anche un suo compagno di cella, un camorrista di nome Luigi Moccia. Siamo fuggiti con l'unica auto che avevamo perché Moccia non era previsto. Dopo pochi chilometri abbiamo mollato la macchina e siamo saliti su un furgoncino con cui abbiamo scollinato. Da lì abbiamo raggiunto a piedi una piccola stazione e siamo ritornati a Roma in treno».
Battisti era euforico? «Mi sembra che fosse abbastanza tranquillo. Qualcuno, o Lavazza o Bergamin, gli diede un'arma, mentre io ho dato una pistola a Moccia anche se non ero molto convinto». Dove avete lasciato Battisti? «Aveva un appoggio in città che gli avevano trovato Bergamin e Lavazza, una casa che non so di chi fosse. Sicuramente si trattava di compagni». Le strade di Battisti e di Mutti si separarono quel giorno. Si è pentito di averlo fatto scappare? «No, all'epoca era una decisione politica, sia chiaro che non lo feci per amicizia».
Con il ritorno di Battisti forse anche Mutti chiuderà i suoi conti con il passato. «Questa storia doveva finire tanto tempo fa. Il periodo delle provocazioni è finito, ora Battisti si faccia la sua galera e non rompa le scatole. Anche se non credo che andrà così». Che cosa intende? «Vedrà che troverà una scusa. Secondo me non starà molto in cella. Addurrà motivi di salute. Logicamente qualche anno lo sconterà, ma di sicuro non è il tipo che morirà in gabbia».
Oggi Mutti non andrà ad attendere Battisti in aeroporto, né stapperà una bottiglia di vino. «Il suo ritorno mi lascia abbastanza indifferente», ci assicura. Gli chiediamo se per l'ex latitante non sarebbe stato meglio farsi un po' di prigione negli anni Ottanta e Novanta e uscire di galera a 40 anni. L'ex fondatore dei Pac non è d'accordo: «C'è l'altro lato della medaglia: Battisti ha vissuto tutta la sua esistenza fuori, tranquillo. Da personaggio pubblico, in Francia e in Brasile. Adesso, a 64 anni, se ne può andare in carcere a scrivere i suoi libri».
Giacomo Amadori
Battisti sarà a Roma entro poche ore. «Lo attende la cella»
Su un marciapiedi di Santa Cruz de la Sierra, in un'assolata giornata boliviana, si è chiuso il conto aperto 38 anni fa con la giustizia da Cesare Battisti, assassino dei Proletari armati per il comunismo, condannato a 4 ergastoli. Il criminale protetto dall'internazionale rossa, prima in Francia e poi in Sudamerica, è stato arrestato nella notte di ieri da una squadra dell'Interpol a conclusione di uno straordinario lavoro investigativo che ha visto la collaborazione delle autorità di Roma, Brasilia e La Paz, a cui il terrorista aveva inutilmente chiesto asilo politico, convinto probabilmente dall'orientamento socialista del presidente Evo Morales, sindacalista del movimento dei coltivatori di coca (anche se può ancora presentare appello fino al 18 gennaio).
Battisti era fuggito dalla casa di Cananeia, nello Stato di San Paolo, in Brasile, negli ultimi giorni di novembre. Allarmato dalle continue voci sulla sua imminente cattura e dalla martellante campagna dell'allora candidato alla presidenza, Jair Bolsonaro, che ne aveva promesso la consegna all'Italia. Già a metà dicembre, secondo quanto risulta alla Verità, era pronto il blitz con un aereo dell'intelligence italiana dislocato in Brasile, ma all'ultimo minuto era stato annullato. Non si sono interrotti, invece, i pedinamenti elettronici che la Digos di Milano e gli uomini dell'Aise (gli 007 guidati dal nuovo direttore, il generale della Gdf Luciano Carta, che ha inaugurato con un successo la sua gestione) avevano attivato sul gruppo di fiancheggiatori del criminale in fuga ben prima che diventasse ufficialmente latitante (14 dicembre). Gli investigatori hanno monitorato mail e telefonate, nonostante Battisti fosse particolarmente accorto a cambiare spesso numero. Le indagini, coordinate dal sostituto pg Antonio Lamanna, si sono concentrate su 15 apparecchi - tablet, cellulari e pc - intestati a vari prestanome e a soggetti, comunque, riconducibili all'entourage di Battisti, e hanno permesso di scoprire che, durante la latitanza, il terrorista era solito collegarsi anche ai social network. Alla fine, tre cellulari - usati personalmente dal killer dei Pac - sono stati agganciati grazie a sofisticate attività tecniche che hanno lavorato sulle celle telefoniche di volta in volta coinvolte nello scambio dati. Negli ultimi dieci giorni, gli uomini della Criminalpol, della Digos e della polizia boliviana, ottenuta la ragionevole certezza che si trovasse a Santa Cruz de la Sierra, una città da due milioni di abitanti, hanno battuto palmo a palmo quattro aree di maggiore interesse fino alla individuazione visiva, avvenuta circa una settimana fa. Battisti era ospite di alcuni conoscenti e si muoveva da solo, spesso guardandosi con circospezione attorno. Al momento del fermo, Battisti indossava barba e baffi finti e un paio di occhiali, aveva in tasca due dollari ed emanava odore di alcol. Ha risposto in portoghese agli agenti che lo hanno fermato e li ha seguiti in caserma, dove ha esibito i documenti brasiliani che gli erano stati rilasciati nell'agosto del 2011, quando l'ex presidente Lula gli accordò il permesso di residenza permanente.
Battisti atterrerà a Ciampino, probabilmente, nel primo pomeriggio di oggi. La Bolivia ha infatti espresso l'intenzione di consegnarlo direttamente all'Italia saltando il passaggio intermedio in Brasile, per essere entrato illegalmente nel Paese. Per Matteo Salvini - al quale Battisti è stato presentato in un tweet come un «piccolo regalo» da Eduardo Bolsonaro, figlio del presidente brasiliano Jair - la cattura è «un successo atteso da anni», frutto di «un positivo scenario internazionale dove l'Italia è tornata protagonista». Il leader dei Pac, per il titolare del Viminale, è «un infame» che «merita di finire i suoi giorni in galera», «dopo che per troppo tempo si è goduto una vita che ha vigliaccamente tolto ad altri, coccolato dalle sinistre di mezzo mondo». Soddisfazione è stata espressa dal premier, Giuseppe Conte («lo attende la cella»), dal Guardasigilli, Alfonso Bonafede («finirà a Rebibbia») e dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che si augura che «Battisti venga prontamente consegnato alla giustizia italiana», affinché «sconti la pena per i gravi crimini di cui si è macchiato in Italia e che lo stesso avvenga per tutti i latitanti fuggiti all'estero». Battisti è stato condannato all'ergastolo per gli omicidi del maresciallo della polizia penitenziaria di Udine Antonio Santoro (6 giugno 1978), dell'agente della Digos Andrea Campagna (19 aprile 1979), del macellaio Lino Sabbadin e del gioielliere Pierluigi Torregiani (uccisi a distanza di poche ore, il 16 febbraio 1979). A Santoro i Pac imputavano maltrattamenti ai danni di detenuti, in base a inchieste giornalistiche del quotidiano Lotta Continua, che lo accusarono di abuso d'ufficio e abuso di potere. Mentre Sabbadin e Torregiani furono ammazzati perché ritenuti dai Pac responsabili della morte di due rapinatori.
Dopo l'arresto e l'estradizione di Battisti, aveva iniziato la sua vita di ricercato di lusso in Francia, grazie alla dottrina Mitterand, le indagini continueranno sulla sua rete di protezione, la cui esistenza è stata confermata dal direttore dell'Antiterrorismo, Lamberto Giannini. Ad assicurargli le necessarie coperture ci sarebbero stati familiari stretti, amici brasiliani e anche alcuni italiani. Pare che Battisti contasse pure sull'amicizia con il vicepresidente boliviano per ottenere asilo politico.
«Uno dei peggiori criminali che erano in circolazione», lo ha definito il procuratore Armando Spataro. Per Adriano Sabbadin, figlio di Lino, «è un momento di soddisfazione dopo 40 anni di attesa, speriamo che sia la volta buona e che Battisti finalmente sconti la pena che merita. Di perdono non se ne parla». Da Maurizio Campagna, fratello di Andrea, solo due parole: «Sono contento».
Simone Di Meo
Il silenzio pesante dei suoi amici italiani
«C'eravamo tanto amati», poi hanno deciso di scomparire. Il «gruppo Battisti» si è sciolto, gli amici dell'assassino si sono dileguati e neanche respirano nel giorno dell'arresto. Eppure sono tanti, molto ben piazzati nei gangli della società, indignati perché uno scrittore del suo calibro era perseguitato dalla giustizia italiana. Terrorista? Giammai, soltanto un povero ex. Ci sono docenti universitari, politici, autori di libri, registi, giornalisti, avvocati di Soccorso rosso, sindacalisti di seconda fascia, una teologa, missionari francescani e tre pentiti di lusso.
Per capire il contesto è importante partire da due di questi, Roberto Saviano ed Erri De Luca (il terzo è l'ex direttore della Mostra del cinema di Venezia, Marco Müller). Il primo firmò un appello perché Cesare Battisti venisse lasciato in pace, poi spiegò: «Mi segnalano che la mia firma è finita lì per chissà quali strade del Web. Non so abbastanza di quella vicenda, chiedo di togliere il mio nome per rispetto di tutte le vittime». De Luca negò di avere mai firmato, ma propose su Le Monde una soluzione politica (leggi amnistia) per i fuoriusciti. Gli altri fanno tutti parte di quella sinistra post rivoluzionaria da salotto rimasta sotto le macerie del muro di Berlino e oggi hanno un solo timore, che il ministro dell'Interno Matteo Salvini si intesti la cattura del terrorista come loro si erano intestati le sue fughe per la libertà.
Sostenuto dagli amici dei circoli parigini dov'era rifugiato sotto l'ombrello protettivo della dottrina Mitterrand (la scrittrice e finanziatrice Fred Vargas, Daniel Pennac, Tahar Ben Jelloun, il filosofo tuttologo Bernard-Henri Lévy), Battisti piaceva parecchio anche in Italia. E il fremito puzzolente di chi, la settimana scorsa, ha fatto il tifo per la sua ennesima scomparsa, ha percorso Twitter senza un briciolo di vergogna. Ora non c'è più in giro nessuno, ma poiché da quelle parti politiche hanno l'autografo scorrevole e adorano usarlo per siglare tazebao, non è difficile ricostruire la mappa dei tifosi, dei sodali e dei semplici conoscenti.
Quindici anni fa il sito di cultura alternativa Carmilla lanciò una raccolta di firme ancora rintracciabile, con 1.500 adesioni e in testa il vignettista moralista Vauro Senesi. Poi gli scrittori Tiziano Scarpa (vincitore di un premio Strega), Nanni Balestrini, Gianni Biondillo, Sandrone Dazieri, Massimo Carlotto, Pino Cacucci, Loredana Lipperini (firma di Repubblica), l'immancabile Lidia Ravera. E registi come Guido Chiesa (Classe Z, I belli di papà, Fuga di cervelli), Davide Ferrario (Tutti giù per terra, La luna su Torino e l'imperdibile Guardami). Ed ex parlamentari da corteo come Giovanni Russo Spena e Paolo Cento. E Sante Notarnicola, definito poeta, ma ultranoto come membro della banda Cavallero.
Niente a che vedere con la sfilata di star che firmò la condanna a morte del commissario Luigi Calabresi su Lotta Continua diretta da Adriano Sofri, qui siamo alle seconde linee, anche se iscrizioni tardive al club come Gabriel Garcia Márquez, Carla Bruni Sarkozy e alcuni membri di Amnesty International del Sud America danno un certo tono fashion.
Ma lo spaccato è interessante che anche perché, nella lista di Carmilla, compaiono missionari francescani, il gruppo di preghiera latina Dio è amore, la rete servizi per richiedenti asilo Respira con Assopace di Napoli, i docenti universitari Enzo Scandurra della Sapienza di Roma e Fabio Frosini di Urbino. La casa editrice DeriveApprodi mandò in ristampa il libro di Battisti L'ultimo sparo per finanziare la sua difesa legale. Oggi a spanne servirebbe la Treccani.
Giorgio Gandola
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Riduci
Pietro Mutti, fondatore dei Pac, organizzò la fuga di Battisti dal penitenziario di Frosinone nel 1981: «Si farà qualche anno e poi troverà una scusa, magari per motivi di salute. Di certo non morirà in gabbia».Il terrorista, condannato per quattro omicidi, è stato catturato in Bolivia. Tra chi lo copriva c'è anche una rete di italiani.Molti nomi noti hanno sottoscritto appelli in sua difesa. Roberto Saviano ed Erri De Luca si sono dissociati.Lo speciale contiene tre articoliÈ l'uomo che il 4 ottobre 1981 ha fatto evadere Cesare Battisti dal carcere di Frosinone, consentendogli una fuga lunga 38 anni. Adesso la prima frase che pronuncia Pietro Mutti è di sollievo: «È finita anche per quel signore». Ma la sua voce non sprizza gioia. Per gli amici di Battisti è il «fantasma» che con le sue dichiarazioni ha incastrato il loro idolo. In realtà Mutti, uno dei fondatori dei Proletari armati per il comunismo, è il pentito che custodisce i segreti dell'ex compagno. Mutti, 64 anni, occhialuto, baffi e capelli brizzolati, fisico asciutto, sa che qualcuno in Italia potrebbe tremare per il ritorno di Battisti, in particolare i complici mai identificati che protessero il fuggitivo prima a Roma e poi a Bologna. «Quelli in Emilia erano rapporti più personali che politici», rivela Mutti. Secondo il quale quei nomi non sono mai usciti perché erano una rete di amicizie costruita da alcuni suoi ex compagni dei Pac, a partire da Sebastiano Masala, ma anche da Claudio Lavazza e Luigi Bergamin. Il primo è irrintracciabile, il secondo, convertitosi all'anarchia, è in carcere in Spagna dopo aver ammazzato nel 1996 due poliziotti e il terzo fa il traduttore (latitante) in Francia. I fiancheggiatori misteriosi di Battisti erano donne? «Probabile. So che Masala aveva una relazione amorosa a Bologna, una donna che io però non ho mai conosciuto personalmente. Quando Masala aveva queste storie io stavo già entrando in Prima linea e lui stava meditando di lasciare la lotta armata. Io, però, non sono mai riuscito a spiegare ai magistrati come quei contatti fossero passati da Masala, che nel frattempo era stato arrestato, a Bergamin e Lavazza. Io all'epoca li vedevo raramente. Nel 1981 ci siamo incontrati per organizzare l'evasione di Battisti da Frosinone, però, ognuno faceva la propria vita». All'epoca Mutti si era trasferito a Roma in un seminterrato in zona San Giovanni dove viveva in clandestinità con la ragazza dell'epoca, la terrorista Maria Pia Sacchi. Ma chi ebbe l'idea di far evadere Battisti? «Me lo proposero Lavazza e Bergamin. Con loro mi incontravo sempre in luoghi pubblici in giro per la Capitale. Erano in contatto con la sorella di Battisti e mi risulta che lei gli avesse spiegato la situazione della prigione di Frosinone, che aveva ben poche misure di sicurezza. Così Lavazza e Bergamin cercarono di coinvolgermi». Mutti era in grado di fornire un appoggio militare perché era uno dei capi di Prima linea. «Personalmente ero interessato all'operazione, però, per correttezza mi sono consultato con gli altri coordinatori, anche se all'epoca pure Prima linea era alla fine ed eravamo quattro gatti. A gestire gli ultimi rimasugli eravamo io e Giulia Borelli». Quell'esperienza finì nel giro di pochi mesi. Prima venne ferita la Borelli, quindi i carabinieri del futuro generale Mario Mori arrestarono Mutti nel suo rifugio, dove era imprudentemente tornato. Gli inquirenti iniziarono a torchiare lui e i suoi compagni su Prima linea. Successivamente si concentrarono sulle malefatte dei Pac e di Battisti. Ma torniamo all'evasione. I vertici di Prima linea autorizzarono l'assalto al carcere di Frosinone: «Lo fecero con riserva, ma trattandosi di un'operazione di liberazione dissero che andava bene e per questo abbiamo fatto questa unione tattica tra ex Pac e Prima linea». Il commando era composto da Mutti, Bergamin, Lavazza, oltre che da Luca Frassinetti e Sonia Benedetti di Pl. «Arrivammo in macchina. Era l'orario delle visite. La Benedetti suonò al portone come se fosse una parente che doveva avere un colloquio. Per quello portammo una donna. Inizialmente doveva venire l'ex fidanzata di Battisti, ma non era militarmente all'altezza (oggi fa la docente universitaria, ndr). Io entrai subito dopo Sonia. Bloccammo le guardie, che erano disarmate e non opposero resistenza. Avevamo pistole e bottiglie molotov, ma non abbiamo dovuto sparare nemmeno un colpo. Come ho detto, era una casa circondariale per ladri di polli. Battisti lo avevano trasferito per un vecchio processo che doveva subire per reati comuni (era stato condannato per rapina, ndr) e poi era rimasto lì. Ci facemmo aprire due cancelli e mi sembra che Battisti fosse già ad aspettarci sulle scale che portavano ai raggi dell'istituto. Con lui c'era anche un suo compagno di cella, un camorrista di nome Luigi Moccia. Siamo fuggiti con l'unica auto che avevamo perché Moccia non era previsto. Dopo pochi chilometri abbiamo mollato la macchina e siamo saliti su un furgoncino con cui abbiamo scollinato. Da lì abbiamo raggiunto a piedi una piccola stazione e siamo ritornati a Roma in treno». Battisti era euforico? «Mi sembra che fosse abbastanza tranquillo. Qualcuno, o Lavazza o Bergamin, gli diede un'arma, mentre io ho dato una pistola a Moccia anche se non ero molto convinto». Dove avete lasciato Battisti? «Aveva un appoggio in città che gli avevano trovato Bergamin e Lavazza, una casa che non so di chi fosse. Sicuramente si trattava di compagni». Le strade di Battisti e di Mutti si separarono quel giorno. Si è pentito di averlo fatto scappare? «No, all'epoca era una decisione politica, sia chiaro che non lo feci per amicizia». Con il ritorno di Battisti forse anche Mutti chiuderà i suoi conti con il passato. «Questa storia doveva finire tanto tempo fa. Il periodo delle provocazioni è finito, ora Battisti si faccia la sua galera e non rompa le scatole. Anche se non credo che andrà così». Che cosa intende? «Vedrà che troverà una scusa. Secondo me non starà molto in cella. Addurrà motivi di salute. Logicamente qualche anno lo sconterà, ma di sicuro non è il tipo che morirà in gabbia». Oggi Mutti non andrà ad attendere Battisti in aeroporto, né stapperà una bottiglia di vino. «Il suo ritorno mi lascia abbastanza indifferente», ci assicura. Gli chiediamo se per l'ex latitante non sarebbe stato meglio farsi un po' di prigione negli anni Ottanta e Novanta e uscire di galera a 40 anni. L'ex fondatore dei Pac non è d'accordo: «C'è l'altro lato della medaglia: Battisti ha vissuto tutta la sua esistenza fuori, tranquillo. Da personaggio pubblico, in Francia e in Brasile. 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Il criminale protetto dall'internazionale rossa, prima in Francia e poi in Sudamerica, è stato arrestato nella notte di ieri da una squadra dell'Interpol a conclusione di uno straordinario lavoro investigativo che ha visto la collaborazione delle autorità di Roma, Brasilia e La Paz, a cui il terrorista aveva inutilmente chiesto asilo politico, convinto probabilmente dall'orientamento socialista del presidente Evo Morales, sindacalista del movimento dei coltivatori di coca (anche se può ancora presentare appello fino al 18 gennaio). Battisti era fuggito dalla casa di Cananeia, nello Stato di San Paolo, in Brasile, negli ultimi giorni di novembre. Allarmato dalle continue voci sulla sua imminente cattura e dalla martellante campagna dell'allora candidato alla presidenza, Jair Bolsonaro, che ne aveva promesso la consegna all'Italia. Già a metà dicembre, secondo quanto risulta alla Verità, era pronto il blitz con un aereo dell'intelligence italiana dislocato in Brasile, ma all'ultimo minuto era stato annullato. Non si sono interrotti, invece, i pedinamenti elettronici che la Digos di Milano e gli uomini dell'Aise (gli 007 guidati dal nuovo direttore, il generale della Gdf Luciano Carta, che ha inaugurato con un successo la sua gestione) avevano attivato sul gruppo di fiancheggiatori del criminale in fuga ben prima che diventasse ufficialmente latitante (14 dicembre). Gli investigatori hanno monitorato mail e telefonate, nonostante Battisti fosse particolarmente accorto a cambiare spesso numero. Le indagini, coordinate dal sostituto pg Antonio Lamanna, si sono concentrate su 15 apparecchi - tablet, cellulari e pc - intestati a vari prestanome e a soggetti, comunque, riconducibili all'entourage di Battisti, e hanno permesso di scoprire che, durante la latitanza, il terrorista era solito collegarsi anche ai social network. Alla fine, tre cellulari - usati personalmente dal killer dei Pac - sono stati agganciati grazie a sofisticate attività tecniche che hanno lavorato sulle celle telefoniche di volta in volta coinvolte nello scambio dati. Negli ultimi dieci giorni, gli uomini della Criminalpol, della Digos e della polizia boliviana, ottenuta la ragionevole certezza che si trovasse a Santa Cruz de la Sierra, una città da due milioni di abitanti, hanno battuto palmo a palmo quattro aree di maggiore interesse fino alla individuazione visiva, avvenuta circa una settimana fa. Battisti era ospite di alcuni conoscenti e si muoveva da solo, spesso guardandosi con circospezione attorno. Al momento del fermo, Battisti indossava barba e baffi finti e un paio di occhiali, aveva in tasca due dollari ed emanava odore di alcol. Ha risposto in portoghese agli agenti che lo hanno fermato e li ha seguiti in caserma, dove ha esibito i documenti brasiliani che gli erano stati rilasciati nell'agosto del 2011, quando l'ex presidente Lula gli accordò il permesso di residenza permanente. Battisti atterrerà a Ciampino, probabilmente, nel primo pomeriggio di oggi. La Bolivia ha infatti espresso l'intenzione di consegnarlo direttamente all'Italia saltando il passaggio intermedio in Brasile, per essere entrato illegalmente nel Paese. Per Matteo Salvini - al quale Battisti è stato presentato in un tweet come un «piccolo regalo» da Eduardo Bolsonaro, figlio del presidente brasiliano Jair - la cattura è «un successo atteso da anni», frutto di «un positivo scenario internazionale dove l'Italia è tornata protagonista». Il leader dei Pac, per il titolare del Viminale, è «un infame» che «merita di finire i suoi giorni in galera», «dopo che per troppo tempo si è goduto una vita che ha vigliaccamente tolto ad altri, coccolato dalle sinistre di mezzo mondo». Soddisfazione è stata espressa dal premier, Giuseppe Conte («lo attende la cella»), dal Guardasigilli, Alfonso Bonafede («finirà a Rebibbia») e dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che si augura che «Battisti venga prontamente consegnato alla giustizia italiana», affinché «sconti la pena per i gravi crimini di cui si è macchiato in Italia e che lo stesso avvenga per tutti i latitanti fuggiti all'estero». Battisti è stato condannato all'ergastolo per gli omicidi del maresciallo della polizia penitenziaria di Udine Antonio Santoro (6 giugno 1978), dell'agente della Digos Andrea Campagna (19 aprile 1979), del macellaio Lino Sabbadin e del gioielliere Pierluigi Torregiani (uccisi a distanza di poche ore, il 16 febbraio 1979). A Santoro i Pac imputavano maltrattamenti ai danni di detenuti, in base a inchieste giornalistiche del quotidiano Lotta Continua, che lo accusarono di abuso d'ufficio e abuso di potere. Mentre Sabbadin e Torregiani furono ammazzati perché ritenuti dai Pac responsabili della morte di due rapinatori. Dopo l'arresto e l'estradizione di Battisti, aveva iniziato la sua vita di ricercato di lusso in Francia, grazie alla dottrina Mitterand, le indagini continueranno sulla sua rete di protezione, la cui esistenza è stata confermata dal direttore dell'Antiterrorismo, Lamberto Giannini. Ad assicurargli le necessarie coperture ci sarebbero stati familiari stretti, amici brasiliani e anche alcuni italiani. Pare che Battisti contasse pure sull'amicizia con il vicepresidente boliviano per ottenere asilo politico. «Uno dei peggiori criminali che erano in circolazione», lo ha definito il procuratore Armando Spataro. Per Adriano Sabbadin, figlio di Lino, «è un momento di soddisfazione dopo 40 anni di attesa, speriamo che sia la volta buona e che Battisti finalmente sconti la pena che merita. Di perdono non se ne parla». Da Maurizio Campagna, fratello di Andrea, solo due parole: «Sono contento». Simone Di Meo <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/io-che-lho-aiutato-a-evadere-vi-dico-non-rimarra-in-carcere-a-lungo-2625904183.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="il-silenzio-pesante-dei-suoi-amici-italiani" data-post-id="2625904183" data-published-at="1765387489" data-use-pagination="False"> Il silenzio pesante dei suoi amici italiani «C'eravamo tanto amati», poi hanno deciso di scomparire. Il «gruppo Battisti» si è sciolto, gli amici dell'assassino si sono dileguati e neanche respirano nel giorno dell'arresto. Eppure sono tanti, molto ben piazzati nei gangli della società, indignati perché uno scrittore del suo calibro era perseguitato dalla giustizia italiana. Terrorista? Giammai, soltanto un povero ex. Ci sono docenti universitari, politici, autori di libri, registi, giornalisti, avvocati di Soccorso rosso, sindacalisti di seconda fascia, una teologa, missionari francescani e tre pentiti di lusso. Per capire il contesto è importante partire da due di questi, Roberto Saviano ed Erri De Luca (il terzo è l'ex direttore della Mostra del cinema di Venezia, Marco Müller). Il primo firmò un appello perché Cesare Battisti venisse lasciato in pace, poi spiegò: «Mi segnalano che la mia firma è finita lì per chissà quali strade del Web. Non so abbastanza di quella vicenda, chiedo di togliere il mio nome per rispetto di tutte le vittime». De Luca negò di avere mai firmato, ma propose su Le Monde una soluzione politica (leggi amnistia) per i fuoriusciti. Gli altri fanno tutti parte di quella sinistra post rivoluzionaria da salotto rimasta sotto le macerie del muro di Berlino e oggi hanno un solo timore, che il ministro dell'Interno Matteo Salvini si intesti la cattura del terrorista come loro si erano intestati le sue fughe per la libertà. Sostenuto dagli amici dei circoli parigini dov'era rifugiato sotto l'ombrello protettivo della dottrina Mitterrand (la scrittrice e finanziatrice Fred Vargas, Daniel Pennac, Tahar Ben Jelloun, il filosofo tuttologo Bernard-Henri Lévy), Battisti piaceva parecchio anche in Italia. E il fremito puzzolente di chi, la settimana scorsa, ha fatto il tifo per la sua ennesima scomparsa, ha percorso Twitter senza un briciolo di vergogna. Ora non c'è più in giro nessuno, ma poiché da quelle parti politiche hanno l'autografo scorrevole e adorano usarlo per siglare tazebao, non è difficile ricostruire la mappa dei tifosi, dei sodali e dei semplici conoscenti. Quindici anni fa il sito di cultura alternativa Carmilla lanciò una raccolta di firme ancora rintracciabile, con 1.500 adesioni e in testa il vignettista moralista Vauro Senesi. Poi gli scrittori Tiziano Scarpa (vincitore di un premio Strega), Nanni Balestrini, Gianni Biondillo, Sandrone Dazieri, Massimo Carlotto, Pino Cacucci, Loredana Lipperini (firma di Repubblica), l'immancabile Lidia Ravera. E registi come Guido Chiesa (Classe Z, I belli di papà, Fuga di cervelli), Davide Ferrario (Tutti giù per terra, La luna su Torino e l'imperdibile Guardami). Ed ex parlamentari da corteo come Giovanni Russo Spena e Paolo Cento. E Sante Notarnicola, definito poeta, ma ultranoto come membro della banda Cavallero. Niente a che vedere con la sfilata di star che firmò la condanna a morte del commissario Luigi Calabresi su Lotta Continua diretta da Adriano Sofri, qui siamo alle seconde linee, anche se iscrizioni tardive al club come Gabriel Garcia Márquez, Carla Bruni Sarkozy e alcuni membri di Amnesty International del Sud America danno un certo tono fashion. Ma lo spaccato è interessante che anche perché, nella lista di Carmilla, compaiono missionari francescani, il gruppo di preghiera latina Dio è amore, la rete servizi per richiedenti asilo Respira con Assopace di Napoli, i docenti universitari Enzo Scandurra della Sapienza di Roma e Fabio Frosini di Urbino. La casa editrice DeriveApprodi mandò in ristampa il libro di Battisti L'ultimo sparo per finanziare la sua difesa legale. Oggi a spanne servirebbe la Treccani. Giorgio Gandola
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Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
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(Totaleu)
Lo ha detto il Ministro per gli Affari europei in un’intervista margine degli Ecr Study Days a Roma.
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Ed è quel che ha pensato il gran capo della Fifa, l’imbarazzante Infantino, dopo aver intestato a Trump un neonato riconoscimento Fifa. Solo che stavolta lo show diventa un caso diplomatico e rischia di diventare imbarazzante e difficile da gestire perché, come dicevamo, la partita celebrativa dell’orgoglio Lgbtq+ sarà Egitto contro Iran, due Paesi dove gay, lesbiche e trans finiscono in carcere o addirittura condannate a morte.
Ora, delle due l’una: o censuri chi non si adegua a certe regole oppure imporre le proprie regole diventa ingerenza negli affari altrui. E non si può. Com’è noto il match del 26 giugno a Seattle, una delle città in cui la cultura Lgbtq+ è più radicata, era stata scelto da tempo come pride match, visto che si giocherà di venerdì, alle porte del nel weekend dell’orgoglio gay. Diciamo che la sorte ha deciso di farsi beffa di Infantino e del politically correct. Infatti le due nazioni hanno immediatamente protestato: che c’entriamo noi con queste convenzioni occidentali? Del resto la protesta ha un senso: se nessuno boicotta gli Stati dove l’omosessualità è reato, perché poi dovrebbero partecipare ad un rito occidentale? Per loro la scelta è «inappropriata e politicamente connotata». Così Iran ed Egitto hanno presentato un’obiezione formale, tant’è che Mehdi Taj, presidente della Federcalcio iraniana, ha spiegato la posizione del governo iraniano e della sua federazione: «Sia noi che l’Egitto abbiamo protestato. È stata una decisione irragionevole che sembrava favorire un gruppo particolare. Affronteremo sicuramente la questione». Se le Federcalcio di Iran ed Egitto non hanno intenzione di cedere a una pressione internazionale che ingerisce negli affari interni, nemmeno la Fifa ha intenzione di fare marcia indietro. Secondo Eric Wahl, membro del Pride match advisory committee, «La partita Egitto-Iran a Seattle in giugno capita proprio come pride match, e credo che sia un bene, in realtà. Persone Lgbtq+ esistono ovunque. Qui a Seattle tutti sono liberi di essere se stessi». Certo, lì a Seattle sarà così ma il rischio che la Fifa non considera è quello di esporre gli atleti egiziani e soprattutto iraniani a ritorsioni interne. Andremo al Var? Meglio di no, perché altrimenti dovremmo rivedere certi errori macroscopici su altri diritti dei quali nessun pride si era occupato organizzando partite ad hoc. Per esempio sui diritti dei lavoratori; eppure non pochi operai nei cantieri degli stadi ci hanno lasciato le penne. Ma evidentemente la fretta di rispettare i tempi di consegna fa chiudere entrambi gli occhi. Oppure degli operai non importa nulla. E qui tutto il mondo è Paese.
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