2023-07-14
Inutile fare i democristiani con le toghe d’assalto
Sulle prime pagine e in tv infuriano le polemiche per le inchieste giudiziarie con al centro esponenti politici di centrodestra. Giustizia a orologeria la chiamano. E Giorgia Meloni, il cui governo è impegnato nella riforma di alcuni reati, tra i quali quello di abuso d’ufficio a cui tengono tanto i sindaci d’ogni colore, è stata costretta a precisare di non essere in guerra con le toghe. Per questo mi è tornato in mente il vecchio aneddoto che raccontava Francesco Cossiga. I fatti risalgono a prima che egli divenisse presidente della Repubblica e dunque credo che vadano collocati nella seconda metà degli anni Sessanta. Il futuro capo dello Stato, insieme a un collega della Dc, si recò da Flaminio Piccoli, che a quei tempi ricopriva un qualche incarico di rilievo nella Democrazia cristiana, scongiurandolo di votare contro la legge che regolava la carriera dei magistrati. Il leader scudocrociato non lasciò loro neppure il tempo di terminare l’esortazione: «Per carità, se questa legge non passa, quelli ci arrestano tutti». La legge ovviamente passò, ma quando arrivò Mani pulite la concessione voluta da Piccoli non salvò Severino Citaristi, il tesoriere della Dc, dalle manette. Anzi, nel 1992 l’intero pentapartito, su cui si reggeva il governo del Paese, fu spazzato via dalle inchieste delle Procure. Ma qual era la legge a cui i magistrati tenevano così tanto da far temere a Piccoli arresti di massa in caso di mancata approvazione? La cosiddetta Breganzone, dal cognome dell’onorevole vicentino che l’aveva tenuta a battesimo. Fino al 1965, chi tra le toghe desiderava salire di grado era costretto a sottoporsi a una selezione assai dura ed erano pochi quelli che riuscivano a superare il concorso arrivando in Cassazione. Dal 1966 però cambiò tutto e gli avanzamenti furono riconosciuti a chiunque indossasse una toga, senza esclusioni di sorta. In pratica, si accettava il principio che in magistratura non si faceva carriera per merito, ma per appartenenza a una corrente. Vi sembra impossibile che per una funzione così delicata, che decide della libertà delle persone e del loro patrimonio, si proceda per automatismi, senza alcuna valutazione? Eppure, è quel che accade da allora. Non si viene promossi per i risultati, ma per i contatti che si hanno sul telefonino. Del resto, è quanto ha svelato l’inchiesta a carico di Luca Palamara, il regista delle nomine che per sua disgrazia è incappato in una intercettazione, svelando i metodi della cricca.E i magistrati non godono solo di un trattamento di favore se c’è da fare carriera, ma anche quando incappano in un guaio. Mentre i politici sono invitati a dimettersi appena sono iscritti nel registro degli indagati, alle toghe non accade nulla di tutto ciò. Ricordo il caso di un giudice siciliano accusato di vari reati e condannato in primo grado. Dopo la sentenza fu sollecitato a fare le valigie, ma per raggiungere un’altra sede, dove ha potuto continuare ad amministrare la Giustizia, non più nel settore penale ma in quello civile, quasi che bastasse cambiare città o competenza per essere considerati immacolati.Del resto, gli stessi che ora sollecitano l’addio di Ignazio La Russa o di Daniela Santanché si sono ben guardati dal presentare analoga richiesta ai procuratori di Milano che, nel corso del processo per una presunta tangente Eni, non hanno presentato prove a discarico degli imputati, chiudendo gli occhi sulle evidenti contraddizioni dell’accusatore e su fatti che avrebbero dovuto portare a indagare immediatamente i presunti testimoni. I pm del caso, sanzionati da una sentenza di assoluzione degli imputati per le gravi inadempienze, sono stati rinviati a giudizio. Tuttavia, nonostante siano a processo, nessuno ne ha richiesto la rimozione dall’ordine giudiziario ma, anzi, dovendo essere ritenuti innocenti fino a che non intervenga una sentenza definitiva di condanna (così dice la Costituzione) sono stati lasciati al loro posto. Dunque, se un magistrato, che peraltro continua a operare in un settore altamente delicato come quello della giustizia, può continuare a fare il proprio mestiere anche se su di lui pende la spada di Damocle di un procedimento penale, perché un presidente del Senato o un ministro della Repubblica dovrebbero essere costretti a mollare? Posta così, la questione appare per quel che è, ossia più politica che giudiziaria. In altre parole, ci si dimette per opportunità o calcolo, perché è venuta meno una maggioranza.Mettendo però per un attimo da parte la questione di La Russa e Santanché, che certo tolgono il sonno al centrodestra, ma di cui al momento è difficile dire qualche cosa di più, resta il tema di una riforma a ostacoli. Ci si può fermare davanti a un’indagine o una protesta, lasciando che siano sempre le toghe a decidere come amministrare la Giustizia e quali misure introdurre? È possibile che ogni intervento incontri l’opposizione del sindacato dei magistrati? Se ripenso alle parole di Cossiga e a un tentativo che da decenni va avanti per cambiare le regole, la risposta è no. Non so se ci sia una guerra fra governo e giudici, ma so di certo che, se anche non l’ha dichiarata, Giorgia Meloni quella guerra non può perderla. E per capirlo basta l’esempio di chi, tanto spaventato dalla minaccia di arresti di massa, accettò di fornire la corda con cui anni dopo l’avrebbero impiccato.
(Totaleu)
«Strumentalizzazione da parte dei giornali». Lo ha dichiarato l'europarlamentare del Carroccio durante un'intervista a margine della sessione plenaria al Parlamento europeo di Strasburgo.