2024-09-14
«La Rai non ha compreso che questo è un Paese fatto di anziani e disabili»
Paola Severini Melograni, un asso del giornalismo italiano (Imagoeconomica)
La giornalista che si occupa di sociale: «I ricchi si abbonano a Netflix. La tv di Stato deve dare buon cibo per la mente ai meno abbienti, anche loro pagano il canone».Paola Severini Melograni: una donna, un ciclone. La intercetto mercoledì 11 settembre, anniversario dell’attacco alle Torri gemelle. «Quel giorno ero con Piero (Melograni ndr). Lo chiamarono dal Sole 24 ore per chiedergli di scrivere l’editoriale». Attivista per i diritti umani, scrittrice e giornalista televisiva e radiofonica, direttrice dell’agenzia Angelipress.com, portale di cultura e informazione sociale, figura cardine del Terzo settore, Paola Severini Melograni ha ideato e conduce O anche no, la prima trasmissione «sulla disabilità positiva» di cui racconta scena e retroscena nell’ultimo saggio intitolato O anche no. Da vicino nessuno è normale (Castelvecchi editore). «L’altro giorno, quando è morta Clio Napolitano, moglie di Giorgio, il Corriere della Sera ha scritto che non ha mai concesso interviste. Errore: l’unica l’ha data a me, per il mio libro Le mogli della Repubblica, pubblicato da Baldini e Castoldi Dalai nel 2006 e poi ripubblicato da Marsilio. Anche Carla Pertini la sua unica intervista la concesse a me».Come ci sei riuscita?«Si fidavano».Apprezzavano la tua incoscienza?«No, perché?».Mi son fatto l’idea che ami le cose complicate: per esempio, il tuo matrimonio con Antonio Guidi, ex ministro per la Famiglia del governo Berlusconi.«Non era complicato perché lo amavo».Te ne innamorasti a 14 anni, lui ne aveva 26 ed è nato con la tetraparesi spastica.«Certo, in quegli anni era difficile. Ma io non ho visto la tetraparesi spastica, ho visto lui».Lo sposasti da minorenne.«A 17 anni, con la dispensa papale».Non è una cosa complicata?«Sono cattolica apostolica romana e per me era importante sposarmi in chiesa. Non mi è sembrato di fare niente di speciale. Sì, i miei genitori hanno sofferto parecchio. Non perché Guidi era spastico, ma perché io ero giovanissima. Mio padre era un medico cattolico, una delle persone più buone al mondo che abbia conosciuto».Quando l’hai vista in azione questa bontà?«A tavola c’era sempre un posto in più per qualcuno bisognoso che avrebbe potuto mangiare con noi. Mio padre era un cardiologo con un sacco di specializzazioni, ma si occupava di certi vecchi boxeur un po’ rintronati. Ce n’era uno finito a vendere saponette in Piazza San Pietro».Si può dire che l’attenzione agli ultimi l’hai imparata in casa.«Quando morì Giovanni XXIII andammo al funerale in Piazza San Pietro, mio padre mi tenne tutto il giorno sulle spalle. Aveva una fede cristallina. Seguiva le congregazioni religiose, anche i frati maroniti che avevano una sede in Italia ma erano libanesi. Allora lui, le ricette pro bono le scriveva in latino».I tuoi genitori soffrirono quando tu e Guidi divorziaste?«Erano già morti, mamma se ne andò a 46 anni, papà a 53. Fu Guidi a lasciarmi nel 1997, per me il matrimonio è un sacramento. Avevamo tre figli e io l’ho amato tanto anche se mi ha fatto parecchio male».È stata l’esperienza privata più complicata o ce ne sono altre?«La mia vita privata è tutta complicata. Vivo con persone molto malate. I primi Ladri di carrozzelle, che seguo da 30 anni, sono tutti morti. Uno si è suicidato, e per me è stata una cosa tremenda. Ho avuto grandi dolori e grandi difficoltà. Vivo tra gente che muore, per questo amo la vita e me la godo ogni secondo proprio perché sto tra gente che soffre. Dico grazie ogni mattina che mi sveglio».La relazione con Melograni fu più semplice?«Era un uomo di grandissima cultura. Conoscitore e amante della musica. Mi portava la colazione a letto. Con lui sono stata felice».Ma non era credente.«Diceva di non aver mai conosciuto tanti preti come da quando stava con me. Faceva lunghe discussioni con il cardinale Georges Cottier. Frequentava Gian Franco Zizola, grande vaticanista, era amico di Giuseppe Di Leo, la firma di temi religiosi di Radio radicale. Prima di morire chiese di avere un congedo religioso perché “il funerale laico è tanto triste”. Nella chiesa addobbata di melograni, risuonò Tutto il mondo è burla, dal Falstaff. A quel punto sono sicura che si è avvicinato e, per ciò che manca, ci pensano le mie preghiere».Anche tu sei vicina al mondo radicale?«Ero molto amica di Massimo Bordin. Vado spesso in carcere con l’associazione Nessuno tocchi Caino, è l’unica tessera che ho».Cattolica e vicina ai radicali, altra complicazione?«I radicali sono persone libere e io voglio bene a loro e li rispetto, nessuno mi ha mai chiesto di rinunciare alle mie convinzioni. Anche perché non lo farei».Sulla vita e il fine vita sono poco conciliabili con quelle dei radicali.«Personalmente la penso come la Chiesa cattolica che è contro l’accanimento terapeutico. La parte dei radicali che lotta per le persone disabili che vogliono vivere per me è molto importante».E sull’inizio vita?«Sono antiabortista, ma questo è ovvio e non mi impedisce di lavorare anche con loro».Perché sei attratta dalle cose complicate.«Forse. Ma non possiamo semplificare a tutti i costi la vita. Ho intervistato don Giorgio Ronzoni, prete a Santa Sofia a Padova, che ha avuto un ictus gravissimo e fa ancora il parroco muovendo tre dita su un joystick. Mi ha detto che rispetta chi decide di lasciare la vita. Bisogna mettersi ognuno nei panni degli altri».Ti piace camminare sul ciglio del burrone.«Don Oreste Benzi diceva che le cose belle prima si fanno e poi si pensano. Ecco, io forse ci penso dopo».In Rai ti occupi di sociale, salita con pendenza elevata?«La Rai è un grande problema perché non ha capito che questo è un Paese di vecchi e di disabili. E non ha capito che il suo pubblico è composto da poveri, perché i ricchi vedono Netflix, vanno a teatro e ai festival. Perciò, la gente che paga il canone ha diritto a un cibo per la mente migliore di quello che attualmente le danno».Un Paese di vecchi e disabili non è confortante.«Da un certo punto di vista sì perché un tempo vecchi e disabili morivano prima».Il tuo impegno sociale in Rai è cominciato dall’ospitata di Ezio Bosso al Festival di Sanremo di Carlo Conti?«Dal punto di vista personale è cominciato nel 1970 quando ho conosciuto Guidi. Sul piano dello spettacolo l’esplosione è avvenuta con Bosso all’Ariston».Boom di ascolti.«Esatto. Da lì ho iniziato il mio programma su Rai 2 grazie a Carlo Freccero e in questo momento sto parlando dall’aeroporto di Fiumicino dove, grazie all’Enac (Ente nazionale per l’aviazione civile ndr), vedo le nostre trasmissioni scorrere sugli schermi delle Sale amica davanti agli imbarchi».L’anno dopo Bosso portasti a Sanremo i Ladri di carrozzelle, meno boom di ascolti?«No, più ascolti perché Carlo Conti li fece cantare all’apertura della serata finale di quell’edizione».Ovviamente sarai contenta che a Sanremo torna Conti.«Felice. Dopo di lui ho visto i disabili esibiti come fiore all’occhiello o per pietà. Per esempio, Paolo Palumbo, malato di Sla, al Festival del 2020, come scrivo nel libro, non è stata un’esperienza entusiasmante».Ora i Ladri di carrozzelle sono protagonisti di O anche no, la rubrica che conduci da cinque anni.«Dal settembre 2019, prima su Rai 2, ora su Rai 3».L’handicap fa audience?«Dipende da ciò che si vuole dimostrare. Sicuramente una parte del successo di Andrea Bocelli è dovuto al fatto che è cieco. Ma poi è anche molto bravo, bravissimo. Guidi diventò ministro perché era disabile, ma poi era anche bravo. Non si può bluffare in tv perché è un’enorme lente d’ingrandimento. La mia storia d’amore con la Rai dura da 39 anni, ma le storie d’amore possono finire. Karl Popper diceva che la televisione può essere anche una buona maestra. Io ho cresciuto una squadra con la quale indichiamo una strada. La Rai dovrebbe ritrovare le radici solidali come quelle che mostrava il maestro Alberto Manzi». Sei soddisfatta di come ti tratta?«Neanche un po’. La Rai ci sopporta perché facciamo parte del contratto di servizio. Il mio più grande desiderio è che qualcuno punti su di noi, che creda nel nostro lavoro. Poi, magari, mi rimproveri se sbaglio. La gente ama questa visione perché sa che è il futuro. Quanti vecchi avremo tra dieci anni? In quante famiglie c’è un disabile? L’attenzione alla disabilità e alla povertà dev’essere la mission del servizio pubblico. L’unica volta che siamo andati su Rai 1 con uno speciale abbiamo fatto l’8,5% di share. A luglio e agosto nessun giorno di vacanza perché ci sono io, un autore e una collaboratrice ai testi. In Rai esistono programmi con 14 autori».Perché tre anni fa non sei diventata presidente della Rai?«Bisogna chiederlo a chi ha scelto Marinella Soldi, si è visto cos’ha fatto in tre anni. Ha usato la Rai come suo ufficio di collocamento».Hai subito lo stop di qualcuno?«Più di qualcuno. Però è stata una bella esperienza competere, perché si impara sempre molto».Com’è andato Stravinco per la vita, il talk sulle Paralimpiadi?«Benissimo, ha avuto un picco del 5,1%. Il rapporto qualità spesa è ottimo perché tutti gli ospiti sono venuti gratis. È facile fare talk a 100.000 euro a ospite. Noi abbiamo avuto Eraldo Affinati, Ferruccio De Bortoli, il ministro dello Sport Andrea Abodi, Davide Casaleggio, solo per citarne alcuni. Abbiamo parlato di tutti i temi del sociale, del progetto di Crazy for football. Mi ha chiamato Santo Rullo, il medico psichiatra che ha costruito la nazionale di calcio dei matti...».Non sei contenta di O anche no?«Certo, ma vorrei andare su Rai 1. Eduardo diceva che gli esami non finiscono mai, io penso di essere laureata. Però ci mandano in onda in contemporanea con la Messa che ha il mio stesso pubblico».Chi?«Rai 3». Rai 3 o qualcun altro?«Qualcun altro. Se mi metti contro la Messa mi ammazzi. Quando mandi l’unico programma sociale di servizio pubblico proprio nell’orario della Messa domenicale è chiaro che è una scelta voluta».In che cosa consiste la convenzione con l’Enac?«Permette ai disabili di volare da soli. Sono molto contenta di averla stipulata, ma lo sarei di più se l’avesse firmata la Rai, non Paola Severini Melograni».La prossima cosa complicata sulla quale ti cimenterai?«Il 27 e 28 settembre, insieme agli eredi della comunità di don Pierino Gelmini, faremo il primo Festival del calcio comunità educante. Sarà un esperimento per capire se e come, attraverso il calcio, si può cambiare la vita di tanti ragazzi. Vi parteciperanno le “squadre special”, composte soprattutto da ragazzi con lo spettro autistico. Se andrà bene, lo ripeteremo ogni anno».
Un appuntamento che, nelle parole del governatore, non è solo sportivo ma anche simbolico: «Come Lombardia abbiamo fortemente voluto le Olimpiadi – ha detto – perché rappresentano una vetrina mondiale straordinaria, capace di lasciare al territorio eredità fondamentali in termini di infrastrutture, servizi e impatto culturale».
Fontana ha voluto sottolineare come l’esperienza olimpica incarni a pieno il “modello Lombardia”, fondato sulla collaborazione tra pubblico e privato e sulla capacità di trasformare le idee in progetti concreti. «I Giochi – ha spiegato – sono un esempio di questo modello di sviluppo, che parte dall’ascolto dei territori e si traduce in risultati tangibili, grazie al pragmatismo che da sempre contraddistingue la nostra regione».
Investimenti e connessioni per i territori
Secondo il presidente, l’evento rappresenta un volano per rafforzare processi già in corso: «Le Olimpiadi invernali sono l’occasione per accelerare investimenti che migliorano le connessioni con le aree montane e l’area metropolitana milanese».
Fontana ha ricordato che l’80% delle opere è già avviato, e che Milano-Cortina 2026 «sarà un laboratorio di metodo per programmare, investire e amministrare», con l’obiettivo di «rispondere ai bisogni delle comunità» e garantire «risultati duraturi e non temporanei».
Un’occasione per il turismo e il Made in Italy
Ampio spazio anche al tema dell’attrattività turistica. L’appuntamento olimpico, ha spiegato Fontana, sarà «un’occasione per mostrare al mondo le bellezze della Lombardia». Le stime parlano di 3 milioni di pernottamenti aggiuntivi nei mesi di febbraio e marzo 2026, un incremento del 50% rispetto ai livelli registrati nel biennio 2024-2025. Crescerà anche la quota di turisti stranieri, che dovrebbe passare dal 60 al 75% del totale.
Per il governatore, si tratta di una «straordinaria opportunità per le eccellenze del Made in Italy lombardo, che potranno presentarsi sulla scena internazionale in una vetrina irripetibile».
Una Smart Land per i cittadini
Fontana ha infine richiamato il valore dell’eredità olimpica, destinata a superare l’evento sportivo: «Questo percorso valorizza il dialogo tra istituzioni e la governance condivisa tra pubblico e privato, tra montagna e metropoli. La Lombardia è una Smart Land, capace di unire visione strategica e prossimità alle persone».
E ha concluso con una promessa: «Andiamo avanti nella sfida di progettare, coordinare e realizzare, sempre pensando al bene dei cittadini lombardi».
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Francesco Zambon (Getty Images)
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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