Ecco #DimmiLaVerità dell'1 dicembre 2025. Il nostro Alessandro Rico commenta l'ipotesi che la Nato lanci attacchi ibridi preventivi contro la Russia.
Maria Chiara Monacelli
Maria Chiara Monacelli, fondatrice dell’azienda umbra Sensorial è riuscita a convertire un materiale tecnico in un veicolo emozionale per il design: «Il progetto intreccia neuroscienze, artigianato e luce. Vogliamo essere una nuova piattaforma creativa anche nell’arredamento».
In Umbria, terra di saperi antichi e materie autentiche, Maria Chiara Monacelli ha dato vita a una realtà capace di trasformare uno dei materiali più umili e tecnici - il cemento - in un linguaggio sensoriale e poetico. Con il suo progetto Sensorial, Monacelli ridefinisce i confini del design artigianale italiano, esplorando il cemento come materia viva, capace di catturare la luce, restituire emozioni tattili e raccontare nuove forme di bellezza. La sua azienda, nata da una visione che unisce ricerca materica, manualità e innovazione, eleva l’artigianato a esperienza, portando il cemento oltre la funzione strutturale e trasformandolo in superficie, texture e gioiello. Un percorso che testimonia quanto la creatività, quando radicata nel territorio e nel saper fare italiano, possa dare nuova vita anche alle materie più inattese.
Come nasce l’idea di Sensorial?
«Sensorial nasce dall’incontro tra materia, neuroscienze, arte e un’eredità familiare radicata nel mondo del cemento. La mia storia personale si intreccia con un percorso di studi dedicato all’architettura, alla percezione, alla neuroestetica e al benessere psicofisico. L’intuizione è arrivata quando ho compreso che il cemento, da materiale tecnico e asettico, poteva trasformarsi in una materia viva, vibrante, capace di emozionare e custodire memoria. Da questo incontro nasce Concrial: un cemento sensoriale, emozionale, un ponte tra corpo e spazio».
Qual è stato l’episodio o l’intuizione che le ha fatto vedere il cemento come una materia «viva» e capace di raccontare luce?
«L’intuizione è stata considerare il cemento non solo come materiale costruttivo ma come tela artistica, veicolo emotivo, custode del gesto creativo. Attraverso la connessione emotiva che ho avuto toccando questa materia, ho capito che avrei potuto applicare i miei studi in ambito neuroscientifico alla materia stessa e non soltanto allo spazio architettonico. Passare per la materia era la via per creare esperienze sensoriali significative».
Il primo esperimento che ti ha fatto capire che il cemento poteva diventare design?
«Dall’incontro con i maestri artigiani e da una serie di eventi significativi, è nato il desiderio e l’esigenza di creare qualcosa di assolutamente unico e innovativo dove la luce incontrava la materia. Questo primo esperimento, assolutamente sorprendente e folgorante, ha dato vita a quella che poi è diventata la collezione Moon: una trama artistica e materica che assorbe la luce del giorno per rilasciarla in condizioni di oscurità. Questo è stato il momento in cui ho capito che il cemento poteva diventare un medium artistico e sensoriale. Moon è stato poi selezionato per realizzare lo scorso anno il Teatro dell’Infinito nell’isola di Sindalah, a Neom, in Arabia Saudita».
Che ruolo ha l’artigianato italiano in questo processo?
«L’artigianato è l’anima di Sensorial. La gestualità, il tempo, la ritualità e la cura del dettaglio rendono ogni creazione unica, irripetibile e profondamente umana. Le radici umbre incontrano neuroscienze e ricerca, dando vita a oggetti unici e identitari».
Qual è la sfida più grande nel lavorare il cemento come materiale di design?
«È cambiare la percezione e l’immaginario del cemento: trasformarlo da materiale freddo e rigido a materia emotiva, luminosa, tattile. La sfida più grande è oggi quella di consegnare ai creativi dei settori design, architettura e arte un terreno progettuale nuovo e sorprendente, sia in termini applicativi che funzionali. Questo significa integrare luce, frequenze sonore, texture, colori e tecniche artistiche all’interno di una sostanza antica, rendendola viva senza perderne la forza originaria».
Sensorial comprende anche gioielli in Concrial.
«I gioielli nascono dal desiderio di portare la materia sensoriale sul corpo. Per farlo, abbiamo alleggerito e trasformato il cemento, rendendolo luminoso, tattile, identitario. Il gioiello diventa un frammento di emozione, un simbolo intimo, un oggetto che racconta la persona che lo indossa».
Quali tecniche utilizza per rendere il cemento adatto al corpo?
«Microimpasti alleggeriti, fibre minerali elastiche, inserti metallici fluidi, trattamenti setosi a poro chiuso. E ovviamente alcune tecniche che sono di dominio dei nostri artigiani. Ogni gioiello è rifinito a mano e unico. Il risultato è un oggetto leggero, confortevole e sorprendente».
Quando e come è arrivata l’idea di trasformare un materiale «grezzo» come il cemento in qualcosa da indossare?
«La collezione Wearable Concrete nasce dalla conoscenza della illustre designer milanese Giuliana Cella, definita dal Financial Times “la regina dell’etno-chic”. Attraverso questa capsule collection abbiamo creato preziosi del tutto non convenzionali, a metà tra micro-architettura, monili talismanici e luminescenti, preziosi che toccano in ciascuno di noi un sentire esotico e ancestrale».
Continua a leggereRiduci
Diego Fusaro (Imagoeconomica)
Il filosofo Diego Fusaro: «Il cibo nutre la pancia ma anche la testa. È in atto una vera e propria guerra contro la nostra identità culinaria».
La filosofia si nutre di pasta e fagioli, meglio se con le cotiche. La filosofia apprezza molto l’ossobuco alla milanese con il ris giald, il riso allo zafferano giallo come l’oro. E i bucatini all’amatriciana? I saltinbocca alla romana? La finocchiona toscana? La filosofia è ghiotta di questa e di quelli. È ghiotta di ogni piatto che ha un passato, una tradizione, un’identità territoriale, una cultura. Lo spiega bene Diego Fusaro, filosofo, docente di storia della filosofia all’Istituto alti studi strategici e politici di Milano, autore del libro La dittatura del sapore: «La filosofia va a nozze con i piatti che si nutrono di cultura e ci aiutano a combattere il dilagante globalismo guidato dalle multinazionali che ci vorrebbero tutti omologati nei gusti, con le stesse abitudini alimentari, con uno stesso piatto unico. Sedersi a tavola in buona compagnia e mangiare i piatti tradizionali del proprio territorio è un atto filosofico, culturale. La filosofia è pensiero e i migliori pensieri nascono a tavola dove si difende ciò che siamo, la nostra identità dalla dittatura del sapore che dopo averci imposto il politicamente corretto vorrebbe imporci il gastronomicamente corretto: larve, insetti, grilli».
Ma davvero i bucatini all’amatriciana o il baccalà alla vicentina ci difendono dal diventare tutti automi a tavola?
«Sì, Sono armi di resistenza contro il gastronomicamente corretto che la globalizzazione turbocapitalistica sta cercando di imporci come modello unico di intendere, preparare e consumare i cibi. È la dittatura del sapore che completa quella del sapere».
E così, dopo l’occhio del Grande fratello di Orwell, arriva il palato standardizzato del Big Brother che Fusaro denuncia nel suo libro: «Il gastronomicamente corretto è la variante a tavola del politicamente corretto. Vogliono imporci un unico modo di pensare e unico modo di mangiare proponendoci panini globalizzati, uguali in tutto il mondo, insetti e carne sintetica mentre loro, le classi dominanti transnazionali che si riuniscono a Davos per decidere le sorti del mondo intero, mangiano tartufi e aragoste. Vogliono neutralizzare le nostre culture, in modo che tutti mangino allo stesso modo, abolendo il passato e la tradizione». Ma non fu Platone a dire «Ti pare che un vero filosofo possa curarsi di piaceri come quelli del mangiare e del bere?». Lo ha citato lei stesso all’inizio del suo libro. E non fu un filosofo a dividere i sensi nobili, vista e udito, da quelli meno nobili, gusto, tatto e olfatto?
«È vero che il tema del cibo, a partire da Platone, è stato molto trascurato dai filosofi. Fino a Feuerbach che dicendo “L’uomo è ciò che mangia” inaugurò la food philosophy, una disciplina che oggi va di moda. La filosofia si occupa del cibo e, quindi, ragiona sulla valenza filosofica del mangiare. È una disciplina in ascesa, interessante. L’uomo costruisce la sua identità sociale e culturale anche intorno al cibo, a ciò che mangia. L’alimentazione è filosofia. Ci si è accorti piuttosto recentemente dell’importanza culturale del cibo. I filosofi hanno maturato una maggiore sensibilità per il mangiare anche come oggetto di riflessione. Siamo passati dal nietzschiano “così parlò Zarathustra” al “così pranzò Zarathustra”. Il cibo non è, come pensava Platone, solo un elemento biologico che nutre il corpo. Ci si è accorti che è anche un elemento culturale che nutre lo spirito. Nutre la pancia, ma nutre anche la testa. È alimento per il pensiero. L’uomo è l’unico animale che prima di mangiare il cibo lo pensa. È anche l’unico animale che concettualizza il piatto elaborando le ricette che trasmette in forma scritta. Anche in questo atto si coglie l’importanza filosofica del cibo per l’essere umano».
Quindi è proprio il gusto, il senso sottovalutato dai filosofi nel corso della storia del pensiero, a diventare l’arma della resistenza, con la quale possiamo difendere la nostra identità, il nostro essere e il nostro divenire. Dobbiamo diventare i partigiani delle tradizioni a tavola. È così professor Fusaro?
«Sì. Si è rinnovato l’interesse per il cibo che mangiamo. Si sta comprendendo la sua importanza proprio quando questa sta venendo meno sotto i colpi della globalizzazione».
Quale è stata la molla che l’ha portata a scrivere La dittatura del sapore?
«Il libro è stato concepito mentre facevo uno studio sul tema della precarietà e mi sono imbattuto, tra le varie forme della precarietà, anche in quella alimentare. Sono dati di fatto che oggi vengono meno i pasti comunitari, i pranzi con tempi conviviali allungati, calmi. Ed è un fatto che si mangia sempre più da soli a tutte le ore, senza più una stabilità garantita. Potremmo dire che, oltre al posto fisso, sparisce anche il pasto fisso nella globalizzazione contemporanea. Da lì è partita la mia ricerca».
Sa cucinare il filosofo Fusaro?
«No, sono un’ottima forchetta, ma non so cucinare. Mi piace mangiare bene e bere bene».
Cosa ne pensa dell’allarme contro il vino che due scienziati, il ricercatore Silvio Garattini e la biologa Antonella Viola, hanno lanciato? «Anche un solo bicchiere fa male», ha detto Viola. Noi modesti bevitori di vino quanto dobbiamo spaventarci?
«A mio giudizio è in atto una vera e propria guerra contro la nostra identità a tavola. Identità data soprattutto dall’olio, dal vino e dal pane. Oggi si stanno prendendo di mira questi tre fondamentali cibi mediterranei. Leggo di questa battaglia contro il vino che si sta combattendo in tutta Europa. Ho letto che l’Irlanda vuole obbligare a mettere sulle bottiglie etichette del tipo “Il vino nuoce gravemente alla salute”. Ma togliere il vino dalla tavola significa perdere una parte della nostra civiltà».
Fusaro, lei ha confessato che beve volentieri un bicchiere di vino. Quale preferisce?
«Per il 50% sono piemontese quindi dico Barolo uber alles. È il miglior vino al mondo, a mio giudizio».
Allora faceva bene Camillo Benso conte di Cavour a consigliare ai diplomatici che accreditava presso le corti di tutta Europa di mettere nel bagaglio qualche bottiglia di Barolo?
«Faceva molto bene. La diplomazia si fa anche a tavola. Ha ragione il ministro Francesco Lollobrigida quando dice che la cucina e il patrimonio enogastronomico italiani sono un potente strumento di diplomazia e promozione culturale. Il mio piatto preferito? Anche in questo prevale la mia metà piemontese: i tajarin con il tartufo bianco di Alba».
C’è più filosofia in un piatto di tortellini o nel fois gras?
«Se ci fosse ancora Giorgio Gaber, direbbe che i tortellini sono di sinistra e il fois gras di destra. Ma io sono per il superamento di destra e sinistra quindi c’è tanta filosofia nei tortellini quanta ce n’è nel fois gras perché hanno entrambi le loro valenze culturali».
Un suo libro è intitolato Pensare altrimenti e ho sott’occhio una sua dedica che raccomanda «Mangiare altrimenti per essere altrimenti». Non teme di diventare il filosofo dell’altrimenti?
«No. Cerco di essere il filosofo delle altre menti. Penso diversamente… altrimenti non ci sarebbe bisogno della filosofia. Complottista io? Ma quando mai. Sarebbero complottisti anche Socrate e Tommaso d’Aquino. Essere altrimenti è importante contro lo sradicamento».
Brillat Savarin ha detto: «Gli animali si nutrono, l’uomo mangia, e solo l’uomo intelligente sa mangiare». È d’accordo?
«Completamente. In tedesco ci sono due verbi diversi per il mangiare: quello degli animali è fressen, quello dell’uomo è essen. Ed è vero che gli uomini intelligenti sanno mangiare bene. Al giorno d’oggi viviamo anche un paradosso: i ricchi sono slim, magri, i poveri, che si nutrono di cibi ipercalorici, sono fat, obesi. In passato era il contrario».
Continua a leggereRiduci
Dario Fabbri (Ansa)
L’esperto Dario Fabbri: «Se l’Ucraina in futuro cambiasse regime, diventerebbe un cavallo di Troia dei russi. La corruzione? A quelle latitudini è normale. Putin ha ottenuto solo vittorie tattiche, adesso gli serve la caduta di Zelensky».
Dario Fabbri, esperto di geopolitica e direttore di Domino, anche se sei a Roma e non a Pokrovsk, ci provi a raccontare cosa sta succedendo da quelle parti?
«Un’offensiva russa massiccia che dovrebbe condurre ad una presa della città. Sappiamo però che la situazione è discretamente ingarbugliata. Di città come questa - raccontate come decisive per la resistenza del Donbass - ce ne sono state molte. Compresa la vicina Myrnohrad. In realtà, nessuna città del Donbass è veramente decisiva per decidere le sorti della guerra. Il governo ucraino ha scelto in maniera simbolica di resistere in alcuni avamposti la cui perdita rappresenterebbe una sconfitta morale. L’anno scorso la città simbolo era Avdiivka, caduta la quale però i russi non si sono presi neppure il Donbass. Ancora prima Bakhmut».
Una guerra di nervi…
«Vedo due ragioni. Da un lato i russi stessi utilizzano questa retorica per segnalare alla controparte che poi per loro sarà la fine. Anche gli ucraini vogliono mandare lo stesso messaggio. Ma agli alleati europei. Ma gira e rigira siamo sempre nell’oblast di Donetsk dove si combatte letteralmente da quasi quattro anni, città per città. Ma anche se i russi si prendessero la città e l’intero Donbass la guerra non sarebbe vinta».
Ora ti obbligo a fare l’analista finanziario, oltre che militare. Poi tornerai a fare le tue riflessioni in materia di geopolitica. E se l’emergenza ucraina fosse che è a corto di soldi?
«Se ti riferisci al possibile utilizzo di fondi russi, finora non sono mai stati scongelati perché ci sarebbe un’ovvia rappresaglia sugli asset occidentali a Mosca. Ma queste decisioni in finale le prendono gli americani. “Devi comprare armamenti da noi e girarli all’Ucraina”, e così avviene. Ma gli americani non riescono a trovare una quadra nel congelamento del conflitto con i russi. Riprova ne sono il fallito vertice in Alaska e quello mai tenutosi a Budapest. Gli americani vorrebbero staccare la Russia dalla Cina riconoscendo le sue conquiste sul campo. Ma per sedurre la Russia non esiste un dossier più importante dell’Ucraina. Solo che gli americani non vogliono cedere l’influenza che hanno ottenuto sull’Ucraina dopo tutti questi anni».
Dove hanno investito un ingente capitale politico oltre ché finanziario
«Quello che rimarrà dell’Ucraina deve rimanere nel fronte occidentale. Si dibatte se entrerà mai nella Nato ma è la Nato ad essere ampiamente entrata nell’Ucraina. Che cosa ha chiesto Putin in queste settimane? Ciò che aveva in testa prima dell’inizio del conflitto. Via il governo Zelensky, mettiamone un altro possibilmente filorusso. Via le armi straniere. Fine anche del patriarcato di Kiev. In Ucraina la Chiesa ortodossa non ha più una sua autocefalia ma ne ha almeno due di capocce, per dirla in romanesco. Deve tornare solo il patriarcato di Mosca. Gli americani provano a mettere pressione minacciando l’invio di missili Tomahawk. E poi ritrattando. E il grande fraintendimento tra gli europei e gli americani è che questi ultimi non vogliono arrivare ad uno scontro frontale con la Russia manco per niente».
Jack Watling su Foreign Affairs sostiene che Putin non vorrebbe Kiev nemmeno dentro l’Ue.
«Sarebbe scenograficamente un fatto da spiegare bene all’opinione pubblica russa. La Russia questa guerra la sta vincendo tatticamente perché comunque i territori li ha occupati e molto probabilmente se li terrà. Ma di obiettivi strategici che contano davvero non ne ha centrato praticamente nessuno. La Russia al momento controlla tre quarti del Donbass. L’obiettivo vero era Zelensky. Il problema di Putin in finale qual è? Non rimanere nei libri di storia come l’uomo che ha perso l’Ucraina. Ma questo rischia seriamente di diventare. Gorbachev è molto amato in Occidente ma è tuttora disprezzato in Russia per essersi consegnato all’Occidente. Basterebbe un nuovo regime a Kiev, anche se non apertamente filorusso. Più aperturista. Che possa essere raccontato dagli americani come filoccidentale. E da Mosca come amico».
La corruzione in Ucraina è un po’ come il segreto di Pulcinella…
«La resistenza ucraina è legata al possibile ingresso dentro l’Unione europea, che sarebbe però compromessa da questo racconto. Un’endemica corruzione è la normalità a quelle latitudini. Sperimentata con la caduta del regime comunista. E si ritorna alle implicazioni di questo ingresso. Una parte della nomenclatura russa lo vivrebbe come una certificazione della sconfitta. Ma l’Ucraina potrebbe pure diventare il cavallo di Troia russo dentro l’Unione europea. La storia mica finisce qui. Tra qualche anno potrebbe esserci un nuovo governo filo Mosca, casomai imposto dall’esterno. Che impallinerebbe l’Ue col diritto di veto. La storia è lunga. E i russi ci stanno dentro. Una parte di establishment ragiona in questi termini a Mosca. Macron, consapevole dell’inghippo, provò ad inventarsi una nuova comunità politica europea nella quale dovevano rientrare anche gli inglesi. Un modo astuto per farli rientrare da qualche parte. Poi c’è il tema di chi pagherà la ricostruzione. Sono costi, è vero. Ma anche sviluppo per le imprese dei governi che partecipano».
Gli ucraini che cosa pensano?
«Una parte della popolazione, sicuramente maggioritaria, vuole agganciarsi all’Occidente. Ma rimangono attive quinte colonne gestite dai russi. E se domani queste potessero ritrovarsi dentro l’Unione europea, è pur vero che l’Ucraina potrebbe teoricamente essere espulsa. Ma sarebbe un’operazione complicatissima. Giusto per dare un’idea, l’Ucraina è il Paese più esteso in termini di superficie»
Proiettiamoci di nuovo alla fine della guerra. La Russia si prende una parte dell’Ucraina e c’è da ricostruire tutto il resto. Ma chi paga? La Russia, gli Stati Uniti e l’Unione europea? E soprattutto quando si chiude una guerra in genere paga lo sconfitto. Ma se pagasse l’Unione europea che cosa vuol dire? Che siamo noi gli sconfitti? Ma mica eravamo in guerra!
«Proposizione interessante, definiamola così. Di certo non pagano i russi. A parte che non ne hanno neanche le capacità finanziarie. Se non attraverso i famosi fondi congelati che tuttavia rappresentano un’opzione nucleare. Un punto di non ritorno. Sarebbe legittimo sul piano giuridico? Apparentemente se siamo in un’economia di guerra si va oltre la conformità giuridica. Vige lo stato di eccezione. Ma questo può portare ad una rappresaglia simmetrica da parte dei russi. Detto ciò, è difficile che siano i russi a pagare. Men che meno gli americani. Quindi ci ritroveremo noi a pagare. Ed è la risposta implicita alla tua domanda. La ricostruzione è anche un business, ma sarebbero i cittadini a pagare. E in Italia il dibattito sarebbe feroce. Il punto è che abbiamo un’idea un po’ lasca di che cosa significa stare in una sfera di influenza. Nel nostro caso quella americana. Non è un club di amici quello dove siamo. Siamo sotto l’influenza americana perché abbiamo perso una guerra. Ringraziando la fortuna, questo ci ha consentito di liberarci dal nazifascismo e da allora gli americani sono qui. Non li ha invitati nessuno e non se ne andrebbero neanche se glielo chiedessimo. Sul dossier Ucraina ci siamo resi conto che seguiamo l’andamento umorale degli Usa. Quando è guerra siamo guerrafondai. Quando c’è il dialogo ci adeguiamo di conseguenza. Quindi decideranno gli americani chi paga. Magari non è un bel mondo. Ma ci è andata di lusso. Se invece che sotto la sfera di influenza degli americani fossimo caduti sotto quella sovietica, sarebbe andata molto peggio».
Continua a leggereRiduci
Ecco #DimmiLaVerità del 10 novembre 2025. Il deputato di Sud chiama Nord Francesco Gallo ci parla del progetto del Ponte sullo Stretto e di elezioni regionali.







