2025-07-05
Riccardo Muti: «Credo nell’Europa culturale, più importante di euro e Ue. Sul riarmo si ascolti il Papa»
Riccardo Muti (Ravenna Festival)
Il leggendario direttore d’orchestra: «Fede, pace e musica. Vedrete, sarà il tempo di Leone XIV. Negli anni Settanta parlavo di patria e bandiera e mi davano del reazionario».Per generare il suono che annuncia la guerra non c’è manuale o libretto d’istruzioni che tenga. Dev’essere piccolino, ma minaccioso. Fremente d’odio senza però sbraitare, in modo da non mettere in guardia il nemico, proprio come il sibilo di una miccia che brucia pregustando l’esplosione. Per riuscire a trovarlo, armati soltanto di archi, timpani e tamburi, ci vuole una vita. Il Maestro Riccardo Muti lo sa e attorno alle primissime note dell’Ouverture dei Vespri siciliani di Giuseppe Verdi scava per un’intera mattinata. «Coraggio, è una delle più difficili», dice alla sua amata Orchestra giovanile Cherubini, che questa sera affronterà anche la Quinta di Ludwig van Beethoven e l’«italiana» (Sinfonia n. 4 op. 90 in la maggiore) di Felix Mendelssohn-Bartholdy al Ravenna Festival (stesso programma lunedì ad Agrigento). «Il violoncellista si è tagliato i capelli? Bravo! Da qui vedo tutto», avverte Muti. «Datemi un suono bellicoso, italiano! Avete mangiato polenta stamattina?». Al Pala De André non c’è il pubblico delle prove aperte, ma lo spettacolo non cambia, perché è tutto reale. «Più forte con quei piatti, provi a immaginare di darmeli in faccia!», provoca il leggendario direttore d’orchestra. «State attenti che il pizzicato che non vibra mi manda in bestia: è puro disinteresse musicale!», sbotta, ma il malumore dura un secondo. «Visto che l’aspetto ritmico qui è il più insidioso, vi svelerò il trucco di Arturo Toscanini, che mi venne rivelato da Antonino Votto: “Bisogna pronunciare la parola baccalà”. Dite il nome del pesce e seguite il ritmo». Risate distensive. «Dopo la Sicilia che piange, fatemi sentire la Sicilia che si arrabbia! Devo forse rammentarvi la rivolta contro i francesi invasori e il resto della trama? Avanti!». Il suono si trasforma. «Bravi i violoncelli! Sentite che musica. Pensare che oggi i balletti vengono tagliati: sono le pagine più importanti di questo capolavoro verdiano. Pausa!». Staccano tutti, ma non il Maestro, che ci riceve in camerino mentre i giovani musicisti corrono a pranzo.Che rapporto ha con questo piccolo esercito di talentuosi «cherubini»? Per loro sembra quasi un padre.«Li amo molto, ma li tratto esattamente come i Wiener o i Berliner. Ha notato che do loro del lei? Non è distanza, è rispetto. Ci sono colleghi che si fanno chiamare per nome…» (alza gli occhi al cielo). «Sarò fuori tempo io, ma in prima media, a Molfetta, i docenti mi dicevano: “Lei, Muti!”. Me lo ricordo ancora ed ero alto un metro e 50. Io vengo da un mondo che non disconosco».La distanza può essere comunque utile?«Chi la elogia dice che “dà incanto al paesaggio”, perché da lontano tutto sembra più bello. Non è quello che cerco. Io resto a una frase di mia mamma, se comprende il napoletano: “‘A cunferenza porta a mala crianza” (“La confidenza genera cattiva educazione”, ndr)». A proposito di distacco, dopo tre anni di lavoro insieme, o quando spengono 30 candeline, l’orchestra saluta i suoi figli e lascia che spicchino il volo da soli, cedendo il posto ad altri. «In poco più di 20 anni ho visto passare più di 1.000 ragazzi. Non sa che gioia ritrovarli nei migliori teatri del mondo. Quasi un quarto della formazione del Maggio fiorentino viene da questo percorso. Il primo flauto dell’orchestra dell’Opera di Monaco pure, ma la lista sarebbe lunga. Sono i frutti del compito che mi sono dato. Mi lasci aggiungere una nota per voi giornalisti».Prego.«Non chiamateli “orchestrali”, è una parola orrenda. Sono professori d’orchestra. Anche “coristi” mi fa arrabbiare. Meglio artisti del coro». A proposito, ci eravamo lasciati un mese fa, proprio qui al Pala De André di Ravenna, in uno scenario inedito: un unico immenso coro di 3.116 cantanti, amatoriali e non, al posto del pubblico. E, sul palcoscenico, lei solo a dirigerli. Cosa ha significato quella esperienza?«A volte ci sono sogni, o follie, che uno decide di trasformare in realtà, pur sapendo di entrare in un territorio inesplorato, dove la situazione può anche sfuggire di mano, precipitando nel caos».Il sogno qual era?«Una comunità che si fonde in un unico inno».E perché ha funzionato?«Forse perché non ho preparato nulla, né uno show, né un comizio. Ho aspettato di trovarmi davanti a questa marea umana e ho improvvisato, lavorando su tre opere verdiane fondamentali come Nabucco, Macbeth e I lombardi alla prima crociata. Quando da questo camerino ho sentito che ogni regione d’Italia cantava le sue canzoni locali mi sono chiesto: e adesso come faccio a mettere insieme tutte queste voci? Mi sono affacciato e ho sentito un urlo di gioia commovente. Devo dire che lì ho percepito tutto il peso della loro attesa». Per la cronaca, la masterclass si è conclusa con due ore di autografi personalizzati.«Era il minimo che potessi fare davanti a una pura espressione d’amore. Cantare amantis est (Cantare è proprio di chi ama, ndr) è la frase di Sant’Agostino che avevamo scelto come titolo. Non poteva essere più appropriata: stiamo parlando di persone di ogni ceto sociale che hanno raggiunto Ravenna da tutta Italia, a gruppi o singolarmente, sobbarcandosi i viaggi e le spese, in nome della bellezza e dell’armonia».Alla prima esecuzione a freddo del Va, pensiero ho visto scendere lacrime sincere sul viso di qualche critico musicale (e non solo).«C’è qualcosa di misterioso in questa pagina di Verdi. Bastano le prime note dell’orchestra e anche chi non ne sa nulla si identifica immediatamente. Quella melodia ci dice che siamo italiani».Ma se lei ripete fino alla noia che un coro di schiavi, da cantare «lentissimo» e «sottovoce», non può essere il nostro inno?«Parlo di un altro aspetto. Sono rimasto folgorato da 3.000 persone che diventano un’anima sola. Merito del grande potere della musica? Sì, ma conta anche l’appartenenza a un Paese che, nonostante le divisioni e le dialettiche partitiche - spesso distruttive - ha generato Michelangelo, Verdi e Palestrina. Diamo poca importanza alla musica, vero elemento connettivo del popolo».Mi faccia un altro esempio. «La Settimana santa a Molfetta. Ogni volta che posso non manco. Come tutti sanno, sono napoletano, ma per metà pugliese. Tornare in quei luoghi mi fa ripercorrere l’infanzia, mi ricorda i miei genitori. Deve sapere che mio padre faceva parte dell’arciconfraternita di Santo Stefano dal Sacco rosso, che si differenzia da quella della Morte del Sacco nero. Bene, sa che succede alla fine? Al suono delle marce funebri pugliesi, i confratelli sotto a quei sacchi si abbracciano. Possono essere di destra, centro, sinistra, estrema destra o estrema sinistra. Non conta più nulla, la divisione sparisce. Resta un elemento collettivo: è tradizione, religione - ma non in senso bigotto - e cultura plurisecolare. Il nostro popolo non dimentica, è sempre pronto a cogliere la bellezza. Ce l’ha dentro, dal punto di vista umano e storico».A questo punto darei per scontato il bis di Cantare amantis est al Ravenna Festival 2026.«Assolutamente sì. Ho promesso a tutti i partecipanti che ci rivedremo il prossimo anno. E le confido che è stato l’esperimento più bello della mia vita».A proposito di follie, ripetere l’azzardo chiamando da tutta Italia le bande di paese? Non sono un’altra delle sue grandi passioni?«Nulla è impossibile, potrebbe essere un’idea…» (ride). «Sa che le ho dirette tutte? Carabinieri, Finanza, ma anche Polizia, Esercito, Marina. Certo, nel caso non dovremmo rivolgerci a loro, ma riunire le cosiddette bande da giro. È grazie a questi musicisti sottovalutati se, prima della televisione e della radio, le arie d’opera hanno potuto circolare tra la gente. Mio nonno cantava le pagine della Norma perché le ascoltava dalla banda locale».Accennavamo agli inni. Lei difende quello di Mameli, spesso bistrattato, purché non abbia il «sì» strillato finale. Questa Unione europea invece è degna di intestarsi un capolavoro assoluto come l’ultimo movimento della Nona di Beethoven? «Prima mi lasci dire che io parlavo di patria, inno e bandiera negli anni Settanta, quando si passava per reazionari. Nulla di più sbagliato. Io mi definisco “italico” perché sono fiero di essere italiano e devo tutto al mio Paese. Ho avuto grandi insegnanti italiani, sono figlio della scuola italiana e tutte le onorificenze internazionali sono arrivate dopo. Se parliamo di Ue, invece, faccio un passo indietro».In che senso?«Posso fare solo un ragionamento sull’Europa culturale - che è molto più importante dell’euro o dell’Unione europea - e alla quale io credo. Se parliamo dell’istituzione attuale, dal punto di vista politico ed economico, non ho le competenze per giudicare».Che effetto le fa questa generale corsa al riarmo, Germania in testa, con i suoi 1.000 miliardi di euro? L’elmetto si sposa con il testo dell’Inno alla gioia di Friedrich Schiller: «Tutti gli uomini diventano fratelli»?«Triste premessa: la musica da tempo è ridotta a sottofondo. Nessuno ci fa caso o sa di cosa parla. Pensi che 50 anni fa, al Maggio Fiorentino, al termine del Guglielmo Tell mi son sentito dire: “Bello il finale, è la sigla d’inizio trasmissioni della tv!”» (si dispera). «Nel merito, la contraddizione tra gli armamenti e l’auspicio di Schiller c’è, anche se oggi il mondo sembra un immenso incendio. I romani dicevano Si vis pacem, para bellum. Sarà impossibile, ma io preferisco il motto Pacem in terris».E allora le cito l’attuale pontefice: «Come si può credere, dopo secoli di storia, che le azioni belliche portino la pace e non si ritorcano contro chi le ha condotte?». «Sono stato educato a non dare voti ai Papi, ma Leone XIV ha ragione e devo dire che mi piace molto».Perché?«Innanzitutto è un agostiniano. A proposito, la frase del Santo d’Ippona di cui parlavamo prima l’abbiamo scelta in tempi non sospetti…» (ride).Profezia?«Beh, in un certo senso sì: questo è un Papa che ama la musica e canta. L’ha sentito? È un fatto importantissimo. Poi è nato a Chicago, città alla quale sono legato in quanto direttore emerito di quella straordinaria orchestra. Quarto, i paramenti papali sono di nuovo al loro posto perché la guida della Chiesa è anche un capo di Stato. Ma non si parli di ritorno all’antico, è conservazione di ciò che è arrivato a noi, guardando al futuro. L’aspetto cruciale del Santo Padre venuto dagli Stati Uniti comunque è un altro: crede veramente, è evidentissimo. E sa che la storia della Chiesa non si può mettere da parte. Fede, pace, musica. Vedrete, questo sarà il tempo di Robert Francis Prevost».Oltre al Papa, riguardo ai conflitti in corso, da Est al Medio Oriente, la sua speranza trova appigli?«Non voglio rassegnarmi alla distruzione totale. Sdrammatizzando, le citerei Eduardo De Filippo: “Adda passà ‘a nuttata”. Deve finire per forza, altrimenti torniamo all’era dei dinosauri. Ho un’altra paura però».Quale?«Chi può illudersi che davanti al dilagare della morte, della violenza e delle scene raccapriccianti di cui leggiamo ogni giorno, in tutta questa moltitudine di bambini non si faccia strada il seme della vendetta. Chi saprà sopirlo? Capiranno e, crescendo, perdoneranno? La verità è che non c’è nulla da capire e sul perdono la vedo dura».Sarajevo, Gerusalemme, Teheran, Damasco sono solo alcune delle città ferite nelle quali, dal 1997, ha portato quei pellegrinaggi laici e musicali chiamati «Le vie dell’amicizia». A Mosca diresse la Nona di Beethoven unendo due orchestre e due cori: i musicisti del Teatro alla Scala di Milano e quelli del Bolshoi. Oggi sarebbe impensabile, sembra passato un secolo ma era il 2000.«Purtroppo è come dice lei, anche se continuo a credere nel potere taumaturgico della musica. Cantare insieme vuol dire vivere insieme. L’ho imparato in Russia, ma anche nel primo concerto a Sarajevo, ancora sotto le bombe. E poi in Kenya nel 2011, dove mi commossi ascoltando un coro di bambini africani che interpretava il Va, pensiero con una pronuncia italiana quasi perfetta e una partecipazione straordinaria. Su Giuseppe Verdi aveva ragione Gabriele D’Annunzio: “Diede una voce alle speranze e ai lutti, pianse ed amò per tutti”. La sua musica sarà sempre più essenziale nella vita dell’umanità. E, se ci limitiamo all’opera, faccio un altro nome».Quale?«Wolfgang Amadeus Mozart. Sia lui che il compositore di Busseto ci parlano delle nostre debolezze e di tutti i nostri guai: amori, gelosie, tristezze e cattiverie. Ma soprattutto ci offrono un conforto».A proposito di Mozart, a novembre tornerà a Milano, a Fondazione Prada, per guidare alcuni direttori d’orchestra emergenti alla scoperta del Don Giovanni, grazie alla sua Italian Opera Academy. Che tipo di leadership insegna ai giovani? Glielo chiedo perché la sua, come quella di altre bacchette, è stata analizzata, semplificata e insegnata da vari guru ai manager di tutto il mondo.«Questa mi mancava...».L’israeliano Itay Talgam, ad esempio, spiega che una guida alla Muti è perfetta per un’azienda in crisi. Lei indicherebbe una via chiara, che non lascerebbe spazio a interpretazioni e a grandi libertà personali. Risponderebbe solo a chi le sta sopra, ovvero al volere del compositore, garantendo un approdo sicuro alla nave. A lei il commento.«Un conto è non essere accondiscendente di fronte a 100 persone, un altro è passare per dittatore. C’è un punto interessante da chiarire. Il direttore dictat, ovvero dice, spiega, ma non è un dictator. Deve avere un’idea interpretativa e trasmetterla, senza chiedere un parere al primo violino o al primo flauto. Anche perché i professori d’orchestra pretendono una direzione - parola che infatti torna - attendono che gli venga indicata una via, che non può essere il compromesso tra le varie opinioni sul tavolo. Altrimenti si finisce come quella statua della famosa leggenda che viene continuamente modificata in base ai consigli dei passanti e, a poco a poco, da una splendida figura si trasforma in un mostro. Sa qual è il segreto?».Me lo dica lei.«Bisogna cercare di condurre l’orchestra verso la realizzazione della propria idea, che ovviamente deve nascere da anni di studio e di riflessione. In questo percorso però non bisogna distruggere la personalità dei singoli. È lì che si gioca tutta la differenza del mondo tra una guida e un despota. Vede, chi ha in mano una bacchetta non ha a che fare con un violino o con un clarinetto, ma con strumenti dotati di anima. Bisogna lasciare ai professori d’orchestra libertà di movimento all’interno di una visione chiara perché con le catene non è possibile raggiungere alcun risultato artistico. Ovviamente senza scadere nel libertinaggio. Io dai musicisti mi aspetto sempre un trasporto, anche da chi non è d’accordo con la mia proposta».Su Youtube impazzano i video con alcuni sfoghi terribili di un gigante come Arturo Toscanini, uno dei suoi più grandi riferimenti. In quei casi i componenti dell’orchestra ne escono con le ossa rotte. «Sua figlia Wally mi raccontò che il primo a rammaricarsene era proprio il Maestro. Si trattava di violente esplosioni di rabbia innanzitutto verso sé stesso, di cui poi si dispiaceva tantissimo. Stiamo parlando di un genio che, anche a fine carriera, durante le prove dell’ennesima Traviata, compulsava le partiture mentre la moglie gli preparava il risotto. Voleva verificare ciò che non aveva funzionato e, soprattutto, rendersi conto dei propri errori. Le sto parlando di confidenze personali che Wally Toscanini mi fece nel mio camerino alla Scala, negli anni Ottanta».Prima di salutarci, vorrei chiederle un ricordo di due grandi pianisti: Alfred Brendel, che ci ha lasciato in queste settimane in una sorta di silenzio generale, e Arturo Benedetti Michelangeli, di cui quest’anno ricorre il trentennale della scomparsa. «Brendel aveva un’immensa moralità artistica, che certo non si sposa con gli show che vanno di moda oggi. Fu uno dei miei primi pianisti. Non posso dimenticare infatti il Primo concerto per pianoforte e orchestra di Brahms, a Praga, all’inizio della mia carriera. Con Benedetti Michelangeli non ho mai collaborato, ma parlando di lui tocchiamo vette probabilmente irraggiungibili del pianismo. Se percepiva di non poter offrire il massimo del suo talento cancellava i concerti. Un rigore che oggi può sembrare eccessivo, ma che ci ricorda chi era».Un’ultima cosa, questa sera affronterà ancora una volta il «destino che bussa alla porta» della Quinta di Beethoven. Il suo amico Vittorio Sgarbi ha confessato di vivere un momento molto difficile mentre attende il proprio destino. «Abbiamo parlato di bellezza e di armonia ed è giusto citare Vittorio, visto che ha speso la sua vita per affermare l’importanza della cultura, della musica e dell’arte. Ha detto bene, è un mio caro amico. Gli mando un saluto affettuoso e spero di incontrarlo presto».
Pedro Sánchez (Getty Images)
Alpini e Legionari francesi si addestrano all'uso di un drone (Esercito Italiano)
Oltre 100 militari si sono addestrati per 72 ore continuative nell'area montana compresa tra Artesina, Prato Nevoso e Frabosa, nel Cuneese.
Obiettivo dell'esercitazione l'accrescimento della capacità di operare congiuntamente e di svolgere attività tattiche specifiche dell'arma Genio in ambiente montano e in contesto di combattimento.
In particolare, i guastatori alpini del 32° e i genieri della Legione hanno operato per tre giorni in quota, sul filo dei 2000 metri, a temperature sotto lo zero termico, mettendo alla prova le proprie capacità di vivere, muoversi e combattere in montagna.
La «Joint Sapper» ha dato la possibilità ai militari italiani e francesi di condividere tecniche, tattiche e procedure, incrementando il livello di interoperabilità nel quadro della cooperazione internazionale, nella quale si inserisce la brigata da montagna italo-francese designata con l'acronimo inglese NSBNBC (Not Standing Bi-National Brigade Command).
La NSBNBC è un'unità multinazionale, non permanente ma subito impiegabile, basata sulla Brigata alpina Taurinense e sulla 27^ Brigata di fanteria da montagna francese, le cui componenti dell'arma Genio sono rispettivamente costituite dal 32° Reggimento di Fossano e dal 2° Régiment étranger du Génie.
È uno strumento flessibile, mobile, modulare ed espandibile, che può svolgere missioni in ambito Nazioni Unite, NATO e Unione Europea, potendo costituire anche la forza di schieramento iniziale di un contingente più ampio.
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