2018-04-02
Il re dei critici
cattolici: «Trasformano la Chiesa in una Onlus»
Cesare Cavalleri, direttore di Studi cattolici (Ares): «Eugenio Corti è il più grande del Novecento, dopo sono arrivati solo ottimi racconti. Amo Dino Buzzati e Ennio Flaiano: più cristiano lui di David Maria Turoldo. Io stroncatore spietato? Più severo con gli amici che con i nemici». Quando, in fondo a un dedalo di corridoi e salottini stipati di libri, entro nel suo ufficio milanese di direttore della Ares, Cesare Cavalleri, elegantissimo, m'invita a dargli del tu «come si fa tra colleghi». Ma il tentativo naufragherà. Il fatto è che lei è molto più che un giornalista, mi giustifico. Questione di autorità, non di anagrafe, tanto più che Cavalleri si definisce «un cinquantenne indocile, pieno di progetti». Indocile, dunque; e fiero di un'irriducibilità senza vittimismi. Incarnazione «di una marginalità orgogliosa», l'ha ritratto Jacopo Guerriero alla presentazione al Centro culturale di Milano di Per vivere meglio - Cattolicità, cultura, editoria (Els La Scuola), l'intervista biografica che hanno pubblicato insieme ed elogiata anche dal Manifesto. Ragioniere, laureato in statistica ma con tesi molto umanistica (con una ricerca sulla frequenza del fonema doppio «zz» nei pensieri di Giacomo Leopardi, ricorrenti secondo la curva di Poisson che studia gli eventi rari), collaboratore storico di Avvenire come critico televisivo e come critico letterario, dirige il mensile Studi cattolici e con la Ares (Associazione ricerche e studi) ha pubblicato Il Cavallo rosso di Eugenio Corti, L'eskimo in redazione di Michele Brambilla, opere di Vittorio Messori e di Aldo Maria Valli. Non ha la patente, porta la cravatta anche d'estate, guarda poca televisione e possiede l'intera collezione dei cd di Maria Callas. Nativo di Treviglio, non ama L'albero degli zoccoli del bergamasco Ermanno Olmi.Cosa non le piacque?«Un grande e sontuoso film, che meritò la Palma d'oro a Cannes. Ma che già conteneva quel filo marxismo che è scoppiato nell'Olmi degli ultimi tempi. Per il quale Cristo è un uomo e niente più: questo allontanamento mi spiace molto. C'erano anche le tracce dell'odio verso la borghesia e i padroni. Come se i contadini fossero buoni e santi... E poi, per fare un paio di zoccoli bisogna abbattere un albero? Il padrone ha fatto bene a licenziarlo».La sua biografia s'intitola Per vivere meglio, dalla risposta del poeta Saint-John Perse alla domanda sul perché scrive. In che cosa la scrittura migliora la vita?«Si scrive per un'istanza morale. La scrittura deve servire per esprimere la bellezza che è sempre legata alla verità».Da Tommaso d'Aquino.«E Aristotele».Fa propria anche la massima di Rainer Maria Rilke: «Bisogna attenersi al difficile»: è questa propensione a far di lei un sommo stroncatore?«La vita è complessa. Conviene affrontarla con quel senso di mistero, che è ciò che dà senso alla quotidianità».Da qui le stroncature, una certa incontentabilità?«Le stroncature, intese come genere letterario e non come critica alle persone, derivano dall'amore per la verità. Nei giornali ormai si pubblicano le veline degli uffici stampa».Davvero dopo Il mulino del Po e Il cavallo rosso in Italia non ci sono stati veri romanzi?«Solo ottimi racconti. Forse un'eccezione è La storia di Elsa Morante. Un grande libro, sebbene antiumano e anticristiano perché non crede nella libertà».In altre occasioni ha elogiato Dino Buzzati.«Anche Il deserto dei tartari è un grandissimo racconto. Il tentativo di romanzo, Un amore, non è riuscito».Non vanno citati Mario Rigoni Stern, Ferdinando Camon, Susanna Tamaro, Antonio Pennacchi, Luca Doninelli?«Bisogna distinguere. Riescono bene quando si appoggiano alla storia. Ma inventare un romanzo da capo a fondo è impresa di pochi. Il paradigma è Lev Tolstoj, che riesce a trasfigurare la storia».Dice che Ennio Flaiano è più cattolico di David Maria Turoldo.«Le cose che scrive Flaiano sono belle e quindi vicine alla verità. Turoldo è un retore cui piace ascoltarsi, nelle orchestre ci dev'essere anche il trombone».Non è troppo spietato?«Turoldo ha sostenuto il divorzio e quasi anche l'aborto… Cattivo prete e pessimo poeta».Ogni tanto prova ad addolcirsi, ma poi non ce la fa?«“Amico è Platone, ma più amica è la verità". Comunque, sono più severo con gli amici che con i nemici».Come confermano i suoi giudizi su Flaiano e il Gruppo 63?«Flaiano, in fondo, è cristiano».Sebbene arruolato dalla sinistra. «Per citarlo a sproposito. Niente di peggio che sentir storpiare gli aforismi. Quanto al Gruppo 63 bisogna distinguere l'attività ideologica da quella letteraria. Giovanni Raboni si è dato da fare con la sinistra e il Sessantotto, ma è stato un grande poeta. Tuttavia, per me il più grande è Antonio Porta».Cosa intendeva Eugenio Montale quando diceva che «l'arte è la forma di vita di chi propriamente non vive»?«Si definiva come uno che ha vissuto solo per un 5%, però molto ricco: un autore parla sempre di sé stesso, perché è l'uomo che conosce meglio. Il rapporto tra arte, vita e opera è dato dal riconoscimento degli altri. Gli scrittori postumi hanno un triste destino». Nel Canale dei cuori, suo primo libro postumo, per spiegare l'esordio da ultranovantenne, Giuseppe Sgarbi dice che «o scrivi o vivi».«Questo vale per la poesia religiosa. Per i poeti la conversione è un disastro. Lo stesso Thomas Stearns Eliot da convertito non ha più scritto poesie, solo drammi. Il poeta vuole creare la realtà con la parola. Ma questo è possibile solo al prete nella transustanziazione, che però agisce in persona Christi. Al massimo il poeta può fare una parodia di questa azione. O sei Dante oppure meglio lasciar perdere».Però lei si schiera con Petrarca e non con Dante.«Sto con Petrarca perché la vera poesia è lirica. Dante crea una poesia “epica" in cui mette all'inferno chi gli sta antipatico: non è un buon modello. Certo, gli dobbiamo tutto, senza di lui non ci sarebbe la lingua italiana».Quello di Dante era anche un gioco?«Mah… si prendeva molto sul serio».E Giacomo Leopardi dove lo mette?«Grandissimo poeta. Ma la sua filosofia sta in un foglio di carta facilmente appallottolabile».Ambiva a essere filosofo?«No. Eppure ci sono tanti nobili tentativi di cristianizzarlo. Operazione non facile, anche perché, di per sé, è morto cristiano, chiamando il sacerdote. Ma resta forte il senso del nichilismo e dell'“infinita vanità del tutto". Infine, ha scritto poche poesie».Quelle poche bastano. A cominciare da Alla sua donna.«Siamo nel genio assoluto. Scrivere poche poesie è un vantaggio rispetto a chi fa un libro l'anno e annacqua la vena».Lei fu sorprendentemente critico con il libro d'esordio di Alessandro D'Avenia, anche lui numerario dell'Opus Dei, Bianca come il latte rossa come il sangue. «L'ho detto prima: sono più severo con gli amici. Sono contento che D'Avenia scriva sul Corriere della Sera bellissimi interventi pedagogici. È il professore che tutti avremmo voluto avere».Perché secondo lei gli intellettuali che aderirono al nazismo e al fascismo hanno pagato più di quelli che aderirono al comunismo?«La vittoria culturale del marxismo è aver acquisito il diritto di decidere cos'è bene e cos'è male, cos'è giusto e cos'è sbagliato».L'egemonia gramsciana…«Tuttora attiva. Basta vedere i giornali o le classifiche dei libri. A parte che di libri compatibili con la fede se ne pubblicano pochissimi, giusto D'Avenia. Se guardiamo l'elenco del Premio Viareggio troviamo tante meteore».Perché i suoi riferimenti culturali non rientrano nel circuito condiviso?«Non godono certo della gran cassa. Saint-John Perse vinse il Nobel nel 1960, ma la Francia non mandò nessuno alla cerimonia perché durante la guerra non volle schierarsi con Charles De Gaulle ritenendo che i militari non dovessero occuparsi di politica. Credo comunque che si debba avere più fiducia nelle élites: la popolarità non sempre è prova di qualità».Basta non fare come la sinistra attuale che, allontanandosi dalle masse, rischia di autoemarginarsi.«Ma l'autoemarginazione della sinistra è un bene. Per le masse, intendo».I grandi scrittori cristiani del Novecento sono Eugenio Corti, Mario Pomilio e Ferruccio Parazzoli?«Le graduatorie sono imbarazzanti. Di sicuro ce ne sono altri, a me interessano questi».Come valuta l'opera di Elena Bono, l'autrice del folgorante La moglie del procuratore?«Brava scrittrice, ma un certo vittimismo ha nuociuto ai suoi meriti letterari».Lo scrittore contemporaneo che apprezza di più?«Il grande del Novecento è Eugenio Corti».Emarginato e trascurato?«Peggio per chi l'ha trascurato. Il valore di uno scrittore non dipende da una recensione di Repubblica».In anni più recenti?«Mi è piaciuto La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano».Lei è un editore protagonista, secondo la distinzione di Valentino Bompiani?«Come lo stesso Bompiani, ma di altro orientamento. Oppure come Neri Pozza o Roberto Calasso, figure in via di estinzione».Che cosa fa da editore protagonista?«Pubblico i libri che mi piacciono per condividerli con i lettori».Come resiste una piccola editrice nell'era delle fusioni e della vendita online?«Col sangue dell'editore e dei collaboratori».Che riviste legge?«La civiltà cattolica, Poesia di Nicola Crocetti che dà informazioni anche su poeti stranieri, e Paragone, fondata da Roberto Longhi e Anna Banti».Che idea si è fatto della vicenda che ha portato alle dimissioni di monsignor Dario Viganò dalla direzione del dipartimento della comunicazione vaticana?«Una pagina dolente».Pensa che la Chiesa abbia perso di fascino del mistero e di autorevolezza nei confronti del mondo?«Penso che il tentativo di trasformarla in una Onlus serpeggi. Come diceva il cardinal Giacomo Biffi, la vera povertà è non conoscere Cristo. Se non si fa evangelizzazione anche la promozione umana svanisce».Come vive in questa Italia?«Bene, perché non ci verrà chiesto conto delle sorti del mondo, ma del bicchiere d'acqua dato o non dato al povero».Come trascorrerà la Pasqua?«Qui a Milano, in compagnia di qualche buona lettura».
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)