2024-12-09
«Amo Djokovic nonostante il tennis»
Lo scrittore Aurelio Picca torna con un libro sulla gloria sportiva. «La forza di Nole: si è fatto il segno della croce in ginocchio mettendosi tutti contro. Alimentare il sacro è alimentare la speranza. Meglio le catacombe della Chiesa laica».Aurelio Picca è un antieroe della letteratura italiana: i suoi libri sanno di sangue, passione, plebe. Non di salotti chic. Ne ha appena scritto uno per Baldini+Castoldi, La gloria. È dedicato ai grandi del calcio, della boxe, del ciclismo, dell’atletica, dell’automobilismo, delle moto. Grandi campioni e grandi sconfitti. Lui compreso: una promessa mancata dello sport.Alla trattoria vicino l’ippodromo Capannelle di Roma, un signore le dice: Picca, lei è uno scrittore però ha la faccia da criminale. «È la mia maschera. Sono un austero, un solitario. Ma dentro di me c’è un bambino scavezzacollo spaventato dal mondo».Segue molto lo sport?«Lo seguo distrattamente. Non più fisicamente e forse neanche emotivamente. Mi piace l’automobilismo: primo, perché sono un appassionato di macchine e velocità; secondo, perché ci vedo un duellare pericoloso. E il pericolo riporta al senso della sfida, nella quale è contemplata la morte. La leggo molto nella boxe di un tempo, uno dei due poli fondamentali del mio libro, insieme al calcio».Il calcio cos’ha di speciale?«In 90 minuti, ripropone le fasi di una vita: il dolore, il sacrificio, la gioia, la vittoria o la sconfitta. Nel pugilato, invece, si cerca di evitare il ko, che è il colpo della morte - morte simulata - e si cerca di infliggerlo. La dimensione della morte è presente, sì: molti di quelli che hanno raggiunto la gloria sono morti nel pieno della loro potenza».La gloria è politicamente scorretta?«È stata sempre concepita come un elemento di retorica, individualista, borghese - casomai, è aristocratica. Ma se la gloria spetta ai vincitori, come agli sconfitti, che si sono battuti con onore e lealtà, allora sì, la gloria diventa “scorretta”».Di personaggi «scorretti», lei ne cita diversi. Il laziale Giorgio Chinaglia: segna e punta il dito contro la curva della Roma, simpatizza per Giorgio Almirante e il Movimento sociale.«Chinaglia nacque a Carrara, una città dove se chiami uno “Cittadino!”, quello si gira. È nato geneticamente ribelle. Ha avuto una vita difficile. E l’ha spesa per combattere, per uscire dall’inadeguatezza, per vincere, per segnare. Quel dito che Chinaglia punta in avanti, Pietro Mennea lo punta verso l’alto. È per dire: “Sono io che mi sono massacrato, sono io che ho vinto, mentre voi mi davate del gobbo, mi dicevate che non ce l’avrei fatta, che sono piccolo. Io vi punisco. Io contro tutti”. Roba da Iliade».E Novak Djokovic?«L’ho amato molto, pur detestando il tennis: mi sembra diventato uno sport onanista. Ma Djokovic non ha avuto paura di mettersi tutti contro».Rifiutando il vaccino?«Anche. Soprattutto, ha avuto il coraggio di mettersi in ginocchio e farsi il segno della croce».La gloria passa per l’affermazione di sé. Che il pensiero dominante scoraggia. È un male?«Sì: si eliminano la fisicità e lo scontro. Non si forma il carattere. Si asseconda la cultura “fluida”».La commissione Infanzia del Parlamento certifica che, dopo il Covid, tra i giovani sono aumentati reati, uso di droghe e persino atti di autolesionismo. Reprimiamo l’energia feroce dei ragazzi e poi la vediamo riesplodere in forme deteriori?«È così. Lo sport è scontro quotidiano, ma dentro le regole. Ecco perché è la condizione per sciogliere l’aggressività, la forza del corpo, la forza che va mutando dall’adolescenza alla prima giovinezza. Quelle sfide erano un regolatore della crescita e dei rapporti. Ora, questa energia va a slatentizzarsi senza regole, in maniera irrazionale. Magari, nel virtuale».Lei di sé ha detto: sono un patriarca senza patriarcato. A proposito di politicamente scorretto…«Era una battuta: significa che, per una cultura avversa e altre vicende della mia vita, avrei potuto avere molti figli e invece non ne ho avuti. Ma i miei spermatozoi sono ancora combattivi al 70%; non è detto che non diventi padre…».Il patriarcato esiste?«È come una boa a cui tutti girano intorno, ma che nessuno aggancia. Io ho vissuto in una famiglia in cui c’era un patriarca, ma che era anche matriarcale. Bisogna sottrarsi all’equivoco per cui il patriarcato sarebbe il rimasuglio dell’antico patriarca biblico e del mondo ebraico, dove il patriarca era colui che custodisce la famiglia e gli averi. Lì, la visione sottostante era quella della costruzione. Con l’abbattimento della fiducia nel cristianesimo, abbiamo abbattuto anche la figura del patriarca».Una figura positiva?«Era la figura dei saggi, non vecchi ma antichi, degenerata per colpa di una modernità fatta di deragliamenti psicologici, di sottocultura, di malessere sociale, di psicosi, di pornografia, di perversione, di frustrazione, di mancanza di rapporti. Ciò ha generato un maschio insicuro e perciò violento. Che però non c’entra nulla col patriarca: i patriarchi lo avrebbero ghigliottinato».Lei è religioso?«Sono un cristiano, credente, anche se non sono costante. E mi piacerebbe che la Chiesa, anziché andare incontro alla laicità, tornasse indietro. Se le chiese non hanno i preti, è bene che chiudano. È bene che restino pochi cristiani e che vadano di nuovo a pregare nelle catacombe».Somiglia alla «profezia» di Joseph Ratzinger sul futuro della Chiesa. Un ritorno alle origini.«In pochi si genera una forza propulsiva che dà nuovo vigore. È inutile che apriamo alla modernità distruggendo i nostri simboli. Desacralizzando».Chi ci vuol togliere i simboli?«Il mondo globale. La grande finanza. Non vogliono l’emancipazione dei popoli; vogliono una moltitudine che segue il principio di un finto progresso. Io arrivo a pensare: se l’Italia non fosse mai stata unita, saremmo stati più protetti».Lei è un populista?«La mia vis antropologica, genetica, è quella della rivolta per il popolo. Io sono un repubblicano anarchico, un rivoluzionario, anti-ideologico. Anche se ho avuto un patrigno togliattiano e ho respirato la disciplina dei comunisti, mentre mia madre era cristiana e levantina. Fosse per me, sarei rimasto alle corporazioni delle arti e dei mestieri, la grande invenzione italiana. E poi c’è il sacro».Che valore ha?«Tentare ancora di alimentare il sacro vuol dire alimentare una speranza, alimentare una visione. Chi tiene le fila del mondo vuole che noi siamo divisi e soli. Perché divisi e soli siamo controllabili».Come ci controllano?«Ci danno 50 metri quadrati di casa - green! - con videocitofono, con wifi incorporato, posto macchina, e noi siamo lì che paghiamo il mutuo per tutta la vita. Parlano di figli, ma non li vogliono. Ormai si fa sesso virtuale. E con il sesso virtuale non si possono fare figli».Pensa a Onlyfans? La piattaforma online dove le sex worker offrono i loro servizi?«Li hanno offerti pure a me. Mi mandavano i nudi e mi dicevano: “Vieni a sfondarmi”».E lei ci è andato?«Sono inorridito, perché non conosco la pornografia: sono un antico contadino che conosce la vitalità della natura».Conosce la fluidità di genere?«Ho notato che esiste quel mondo. Non ho nulla contro queste persone, che spesso sono in conflitto con sé stesse, non trovano equilibrio, sono insicure, hanno paura di costruire. Forse ci scriverò un breve romanzo. Ma il mio non è un problema moralistico».No?«È che questa continua frammentazione impoverisce pure la sessualità. Perché per fare l’amore ci vuole tempo. E a noi, il tempo, ce lo ruba ogni cosa. Quando abbiamo rapporti, sono per lo più estemporanei, legati all’ultimo tratto dell’ultimo momento della giornata».Lei lo ha fatto «strano»: in mezzo ai cavalli, scrive nel libro.«Nella natura, tra gli animali, specie tra i cavalli, l’energia raddoppia. Io da ragazzo andavo a leggere nei boschi o al mare e mi eccitavo. Se stavo con la mia fidanzata, saliva una tensione pazzesca. Però avevamo ore e ore a disposizione. Non le passavamo a messaggiare per “organizzarci”».È l’era del sesso burocratico.«Se non lo tieni in palla con la fisicità, con l’attrazione, con i rapporti, con la natura, con il cercare il tuo stato di leggerezza e di grazia, il testosterone si abbassa. E diventi triste. Ti rinchiudi».Le piace indossare abiti cuciti dai sarti?«Molto. Sa che toccare i tessuti, stirare le camicie, è una forma di preghiera, di concentrazione? Il mio sembra l’atteggiamento di un uomo - certo dandy, non lo nascondo - sofisticato e snob».Non lo è?«Si tratta solo di avere l’abito che è cucito sul tuo corpo; e se il tuo corpo ha dei difetti, pure l’abito deve avere i tuoi difetti. Anche da qui passa l’affermazione dell’individualità. Anche qui c’è una sfida al mondo conformistico, che distrugge il nostro gioco, il nostro divertimento».E la sfida più estrema qual è?«Quella della morte».La morte?«Mi voglio far seppellire in una chiesa e non in un cimitero».Perché?«Mi fa sentire protetto. Non mi butterebbero via. I camposanti sono devastati. Fanno le estumulazioni quando gli pare a loro. Rischierei di andare a finire in un cacatoio».Picca, lei merita la gloria?«Certo che la merito. Per tutta la vita mi sono battuto e ho accettato le sfide del mondo. Ho anche perso. Ma mi sono rialzato. E mi sono reso conto che il mio antico disprezzo del mondo è ben corrisposto». Cosa intende?«Più passa il tempo e più il mondo ci disprezza. In ballo non c’è più la nostra a sfida a lui, che è fermo. È il mondo che ci sta sfidando, inesorabilmente. Sta sfidando la nostra umanità. E ci disprezza come individui».
Il primo ministro del Pakistan Shehbaz Sharif e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Getty Images)
Riyadh e Islamabad hanno firmato un patto di difesa reciproca, che include anche la deterrenza nucleare pakistana. L’intesa rafforza la cooperazione militare e ridefinisce gli equilibri regionali dopo l’attacco israeliano a Doha.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco