- Inflazione al galoppo e stipendi a rischio. Si sono già visti i primi scaffali vuoti. E si va verso i razionamenti di energia minacciati da Mario Draghi. Sembra di essere tornati agli anni Settanta.
- «L’Europa miope parla solo di debiti ma dovrebbe aiutarci a investire». Il docente di economia politica Gustavo Piga: «Gli Stati Uniti applicano politiche espansive per favorire l’occupazione. Qui invece si puniscono le aziende aumentando il disagio sociale che 50 anni fa riuscimmo a evitare».
- «Adesso il nodo è capire che cosa succederà alle paghe dei lavoratori». L’economista Leonardo Becchetti: «Se non aumentano vengono colpite le famiglie, se aumentano parte una spirale pericolosa».
- «È inutile il ritorno all’austerity». Il professore della Cattolica Luigi Campiglio: «Le domeniche a piedi e i tagli all’illuminazione varate dal governo Rumor nel 1973 non servirono a nulla. Decisivi furono Bundesbank e Fmi».
Inflazione al galoppo e stipendi a rischio. Si sono già visti i primi scaffali vuoti. E si va verso i razionamenti di energia minacciati da Mario Draghi. Sembra di essere tornati agli anni Settanta.«L’Europa miope parla solo di debiti ma dovrebbe aiutarci a investire». Il docente di economia politica Gustavo Piga: «Gli Stati Uniti applicano politiche espansive per favorire l’occupazione. Qui invece si puniscono le aziende aumentando il disagio sociale che 50 anni fa riuscimmo a evitare».«Adesso il nodo è capire che cosa succederà alle paghe dei lavoratori». L’economista Leonardo Becchetti: «Se non aumentano vengono colpite le famiglie, se aumentano parte una spirale pericolosa». «È inutile il ritorno all’austerity». Il professore della Cattolica Luigi Campiglio: «Le domeniche a piedi e i tagli all’illuminazione varate dal governo Rumor nel 1973 non servirono a nulla. Decisivi furono Bundesbank e Fmi».Lo speciale comprende quattro articoli. Chi ha qualche anno di più sulle spalle ricorda di sicuro le domeniche a piedi, l’inflazione a due cifre, i mutui onerosi per acquistare casa, gli stipendi che crollavano. Allora come oggi a fare da detonatore della crisi è stato un riassetto degli equilibri geopolitici. Nel 1973 la guerra del Kippur contrappose Egitto e Siria a Israele. Gli Stati arabi membri dell’Opec aumentarono i costi del petrolio e avviarono un embargo nei confronti dei Paesi vicini a Israele. L’impatto economico fu immediato e si tradusse in Italia in una frenata alle importazioni e un’impennata generalizzata dei prezzi di prima necessità analoga a quella che ci colpisce ora: non solo la benzina, ma anche bollette, pane, farina e molto altro. Un vero incubo. A ciò si aggiunse una serie di misure restrittive: il blocco della circolazione nei giorni festivi, chiusure anticipate di cinema e teatri e di molti esercizi commerciali, limiti al riscaldamento domestico e dei luoghi pubblici. La tv anticipò alle 20 il tg e chiuse le trasmissioni dopo le 24. Lo spettro degli anni Settanta è tornato ad aleggiare in queste settimane perché da quegli anni, in cui emerse con evidenza la pressoché totale dipendenza energetica dell’Italia dall’approvvigionamento estero, poco è stato fatto per conquistare più autonomia. La burocrazia e i veti ambientalisti hanno ostacolato lo sfruttamento dei giacimenti nazionali e lo sviluppo di fonti energetiche. La crescita tecnologica ha reso il nostro Paese dipendente anche per le materie prime necessarie alla transizione energetica. L’uscita dalla fase acuta della pandemia, l’accelerazione della produzione e quindi della domanda di materie prime hanno mostrato ancora una volta la fragilità energetica del sistema Europa di cui l’Italia è l’anello più debole. E il presidente del Consiglio Mario Draghi ormai parla apertamente di «economia di guerra» con razionamento dell’elettricità per famiglie e imprese.L’aumento dell’inflazione, già manifestatosi alla fine dell’anno, è esploso con il conflitto ucraino e le successive sanzioni applicate alla Russia. Si è scatenata la speculazione, anche questo un meccanismo prevedibile. E ora rischiamo di tornare agli anni Settanta con il razionamento dell’elettricità, i blocchi della circolazione, i prezzi in corsa incontrollata. Tornano d’attualità parole che credevamo dimenticate, come la spirale prezzi/salari e la perdita del potere d’acquisto. Manca solo la scala mobile, cancellata dal referendum del 1985, e poi il salto all’indietro di un quarantennio è completo.Secondo una elaborazione della Coldiretti su dati Istat di febbraio, nell’ultimo anno il prezzo del pane è aumentato del 4,9%, la farina del 9%, la pasta dell’11,7% mentre per carne, pesce fresco e burro si sono avuti rincari rispettivamente di +3,3%, 6,1% e 11,2%. Per frutta e verdura fresca il maggior esborso è stato rispettivamente del 6,8% e del 16,8%. L’olio di girasole, di cui Russia e Ucraina sono i maggiori produttori al mondo, è schizzato addirittura del 18,9%. In media gli aumenti vanno dal 15 al 30%.Ci sono state segnalazioni di supermercati presi d’assalto che in breve tempo hanno finito i generi di prima necessità e di altri centri commerciali che, per evitare speculazioni, hanno esposto cartelli con l’indicazione del limite massimo di confezioni acquistabili. C’è già chi pensa a fare le scorte per paura di una crisi alimentare provocata sia dalla guerra sia dal rincaro del carburante che ha causato scioperi, proteste e fermi degli autotrasportatori. Il freddo contribuisce a rendere sempre più difficile reperire ortaggi e frutta. L’insalata ora costa 1,50 euro il chilo invece di 1 euro, le melanzane sono balzate da 1,20 euro al chilo a 2,50, le mele da 1,40 euro a 1,60. Il Codacons prevede che per pasta, pane, biscotti, dolci e derivati dal grano potrebbero esserci ulteriori rincari tra il 15% e il 30%. A Roma la pasta è passata da 1,69 euro di novembre 2021 a 1,84 euro oggi, la carne da 18,16 euro il chilo a 18,85 e il merluzzo da 19,16 euro a 20,68 euro, sempre nello stesso arco di tempo. Le carni sono a rischio di maggiori rincari. Senza il mais esportato da Ucraina e Ungheria, i principali fornitori dell’Italia, le aziende che producono mangimi hanno scorte solo per 8 settimane. Il presidente del Codacons, Carlo Rienzi, sottolinea che un pieno di benzina ora costa in media 32,5 euro in più rispetto allo scorso anno, +39,3 euro un pieno di gasolio. «Questo significa che ai livelli attuali dei prezzi una famiglia va incontro a una stangata pari a +780 euro annui per un’auto a benzina e addirittura +943 annui se il veicolo è a gasolio», osserva Rienzi. E come negli anni Settanta, la speculazione si è scatenata. Nemmeno per questa abbiamo sviluppato gli anticorpi.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/incubo-prezzi-2656996873.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="leuropa-miope-parla-solo-di-debiti-ma-dovrebbe-aiutarci-a-investire" data-post-id="2656996873" data-published-at="1647809679" data-use-pagination="False"> «L’Europa miope parla solo di debiti ma dovrebbe aiutarci a investire» La spirale dei prezzi continuerà o è una situazione transitoria e tutto tornerà come prima? Gustavo Piga, economista, professore di economia politica all’Università di Roma Tor Vergata sostiene che forse la prospettiva potrebbe essere peggiore di quella degli anni Settanta. «Se continuerà a lungo questa situazione? È una domanda da un milione di dollari. Se prendiamo le cause dell’aumento dell’inflazione, che sono il contesto pandemico e quello bellico con le ricadute sulle forniture di materie prime e le difficoltà ad approvvigionarsi di energia, la risposta è nel vento. Dipenderà quando queste due situazioni cesseranno di esercitare la loro influenza». Cosa c’è di simile a quello che accadde negli anni Settanta? «Anche allora non era chiaro quando sarebbe finito lo shock petrolifero. Ma mentre allora era una situazione eccezionale, di cui non avevamo esperienza, ora dovremmo esserci vaccinati. Invece in tutti questi anni non abbiamo fatto nulla per ridurre le dipendenze dall’estero nelle materie prime o per creare un esercito europeo a difesa dei nostri valori. I due shock pandemici e bellici hanno aggiunto problematiche che ci trasciniamo da tempo e che non sono state affrontate per mancanza di leadership consapevole e di visione di lungo termine. Le economie occidentali non sono in salute». È possibile fare una politica comune europea di contenimento dei prezzi? «Questa impostazione è sbagliata. Non abbiamo bisogno di politiche di contenimento dell’inflazione ma di una maggiore attenzione alla variabile dell’occupazione». Quali le differenze con gli anni Settanta? «Negli anni Settanta i governi scelsero di fare più inflazione per avere più occupazione Dedicarono la politica monetaria e fiscale a sostegno dell’obiettivo primario dell’occupazione anche a costo di maggiore inflazione e lo fecero con grande successo. La disoccupazione italiana durante lo shock petrolifero non aumentò tanto, non perché la crisi energetica non ebbe un impatto ma perché si compensò con politiche monetarie e fiscali espansive della Banca d’Italia e del governo». Però poi la situazione collassò con l’inflazione arrivata a due cifre. «Negli Ottanta si cominciò a combattere l’inflazione perché era sfuggita di mano. Era arrivata al 20%, non certo paragonabile a quella ridicola di ora del 4%. Una delle ragioni per cui era arrivata a quei livelli era l’alto potere dei sindacati che spinsero per l’adeguamento automatico delle buste paga. Si determinò una ricorsa prezzi-salari e una spirale rialzista incontrollabile, un circolo vizioso. Questa problematica potrebbe entrare nel futuro in gioco ma con meno incidenza di allora, perché ora i sindacati sono più deboli e la resistenza a fenomeni come la scala mobile è maggiore. Questo dà più spazio a politiche economiche a favore dell’occupazione sia fiscali sia monetarie». Ma l’Europa e l’Italia stanno facendo queste politiche a favore dell’occupazione? «Negli Stati Uniti stanno facendo politiche monetarie e fiscali molto più espansive che in Europa tant’è che la loro inflazione è più alta. Purtroppo dobbiamo prendere atto che una Ue miope sta invece già parlando, in un contesto così drammatico come quello attuale, di combattere l’inflazione piuttosto che la disoccupazione e ci chiedono di rientrare dal debito. Ma è una politica folle perché concentrandoci sui prezzi facciamo esplodere la disoccupazione e il disagio sociale che negli anni Settanta parzialmente evitammo. È come mettere benzina sul fuoco di un contesto europeo molto debole». C’è quindi un’aggravante rispetto agli anni Settanta? «La politica economica in Europa è diventata stupida. Mentre negli anni Settanta seguivamo le politiche americane di espansione, oggi ci differenziamo dagli Stati Uniti sulle strategie di sviluppo e facciamo errori gravissimi. Chiedere al governo italiano di ridurre il debito invece di fare investimenti pubblici o sentire la Lagarde che parla di terminare i programmi di acquisti di titoli per immettere liquidità nel sistema sono follie che solo l’Europa si sa inventare. Il problema non è l’inflazione ma l’occupazione». Vuol dire che l’Europa si mostra incapace di affrontare questo momento di crisi? «Non solo è incapace, ma aggrava la direzione della crisi. E purtroppo l’Italia non è leader in Europa e non riesce a far capire ciò di cui c’è bisogno». Ci sono anche responsabilità nostre? «In parte: dovremmo rassicurare l’Europa che quando spendiamo lo facciamo bene. Ma in un momento così grave questo mi sembra un peccato veniale rispetto a quello di Bruxelles che raccomanda politiche assurde. Alla mancata indipendenza energetica degli anni Settanta si reagì aiutando l’economia, ciò che ora non si sta facendo. L’inflazione negli anni Ottanta si cominciò a combattere quando aveva raggiunto il 20%, oggi ci spaventiamo perché è al 4-5%». Quale sarà l’esito di questa politica europea? «C’è il rischio di una implosione. Abbiamo già perso la Gran Bretagna e abbiamo eccitato i sovranismi. Mi pare che stiamo solo ripetendo in un contesto più grave gli errori che hanno generato tutto ciò». Quindi l’idea che la guerra in Ucraina abbia compatto l’Europa è un’illusione? «C’è un’Europa più coesa nella sua stupidità. Vedo che anche il governo italiano sembra essere favorevole agli annunci dell’eurogruppo sul rientro del debito. Più masochisti di così si muore!». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/incubo-prezzi-2656996873.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="adesso-il-nodo-e-capire-che-cosa-succedera-alle-paghe-dei-lavoratori" data-post-id="2656996873" data-published-at="1647809679" data-use-pagination="False"> «Adesso il nodo è capire che cosa succederà alle paghe dei lavoratori» «Il nobel Krugman ha usato un’espressione efficace dicendo che si è inceppato il nastro trasportatore delle merci nel commercio globale. Questo di fatto è equivalso a una restrizione dell’offerta di prodotti che ha aumentato i prezzi. La Russia continua a fornire gas e petrolio, nonostante la guerra ma si sono scatenate le dinamiche speculative che hanno approfittato delle tensioni e della paura di un’interruzione o di una riduzione delle forniture». L’economista Leonardo Becchetti, ordinario di economia politica all’Università Tor Vergata di Roma, spiega quali sono le dinamiche dell’inflazione. Quali settori subiranno di più l’aumento dei prezzi? «L’inflazione arriva soprattutto dal costo dell’energia e dunque si riflette maggiormente sui prezzi dei beni per la cui produzione il costo dell’energia è maggiore. Si farà sentire anche sui beni alimentari, poiché Russia e Ucraina assieme producono il 30% del grano mondiale. Questa comunque è inflazione da energia». Situazione transitoria o destinata a durare? «Dipenderà dalla durata dei due fattori scatenanti, cioè guerra e pandemia. E dall’atteggiamento delle banche centrali che avevano previsto una graduale riduzione degli interventi prima che scoppiasse la guerra. Adesso questa strategia è stata in parte rivista ma non completamente perché l’inflazione spaventa e va affrontata senza inondare il mercato di liquidità». Quale impatto subiranno gli stipendi? «Questo è il punto più delicato. Negli Stati Uniti l’inflazione si è abbinata a una revisione al rialzo dei prezzi dettata anche dal fatto che il Paese è vicino alla piena occupazione, è più difficile trovare forza lavoro e dunque i datori di lavoro offrono salari più elevati. L’inflazione diventa permanente se si avvia una spirale prezzi-salari per la quale i nuovi contratti incorporano aumenti salariali per evitare il calo del potere d’acquisto degli stipendi causato dall’inflazione. Quindi in un certo senso dobbiamo scegliere uno dei due mali: o facciamo il sacrificio di non correggere verso l’alto gli stipendi riducendo il potere d’acquisto delle famiglie, frenando in questo caso la dinamica dell’inflazione, o facciamo partire meccanismi al rialzo degli stipendi che riducono effetti negativi sul potere d’acquisto ma alimentano l’inflazione». Quale sarà l’impatto sulla crescita economica? «Negli anni Settanta accadde proprio quella spirale prezzi-salari che oggi dovremmo evitare. Lo shock petrolifero generato dalla decisione dell’Opec di ridurre la produzione di greggio e dalla conseguente quadruplicazione del prezzo fu incorporato nei salari e si avviò una spirale inflazionistica a due cifre. Per il momento questo in Europa non è ancora accaduto». Sono possibili interventi per frenare l’inflazione senza bloccare la ripresa? «La transizione ecologica è una contromisura. Se il problema nasce dall’aumento del prezzo di gas e petrolio, meno dipendiamo da queste due fonti di energia e meglio è. Le imprese che hanno avuto la lungimiranza di avviare processi di miglioramento energetico con impianti di cogenerazione e di trigenerazione che risparmiano energia, o di creare impianti da fonti rinnovabili (per esempio, pannelli solari sui tetti dei capannoni), possono ridurre il fabbisogno di gas e fare risparmi importanti. L’Italia è l’Arabia Saudita del sole e deve smettere di comprare energia dall’Opec o dalla Russia». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/incubo-prezzi-2656996873.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="e-inutile-il-ritorno-allausterity" data-post-id="2656996873" data-published-at="1647809679" data-use-pagination="False"> «È inutile il ritorno all’austerity» «La Banca d’Italia, già nel 1973, aveva messo in guardia dalla dipendenza energetica del nostro Paese dall’estero. Ma in quegli anni dello shock petrolifero, con l’esplosione dei prezzi e l’inflazione a due cifre, si pensava che fosse una situazione episodica». Quello che stiamo vivendo in questi ultimi mesi, tra crisi delle materie prime e impatto del conflitto ucraino, secondo Luigi Campiglio - economista, ordinario di politica economica all’università Cattolica di Milano -, è il frutto di politiche economiche sbagliate che risalgono a 50 anni fa e che si sono trascinate nel tempo. «Nessun governo ha voluto affrontare di petto la dipendenza energetica accelerando il passaggio a fonti alternative o superando i veti per incrementare le estrazioni nei giacimenti nazionali». Regge il parallelo tra la crisi attuale e quella petrolifera degli anni Settanta? «Allora l’aumento dei prezzi era dovuto fondamentalmente a uno squilibrio economico e politico, al conflitto arabo israeliano. Sono andato a rileggermi un intervento della Banca d’Italia del 1973 in cui, con un tono quasi profetico, si delineava quello che sarebbe successo negli anni a venire». Che cosa diceva? «Metteva in evidenza le carenze del Paese. Nel 1973 si chiudeva il trentennio glorioso del miracolo economico in cui lo sviluppo così esplosivo era stato favorito essenzialmente dai bassi livelli salariali e da un altrettanto basso prezzo del petrolio. C’erano quindi tutte le condizioni perché il Paese fosse esposto a shock improvvisi dei prezzi petroliferi e come conseguenza a una brusca frenata della crescita». Bankitalia indicò allora la strada da seguire? «Sì, ma rimase inascoltata. L’istituto suggeriva di investire in fonti energetiche alternative e di ridurre la dipendenza dal petrolio che era valutata intorno al 60%. La crisi inflazionistica degli anni Settanta costrinse le imprese a ridimensionare l’attività produttiva in modo che fosse compatibile con quel tipo di forniture energetiche. In altri Paesi invece si avviò la diversificazione energetica che li ha resi meno esposti alla dinamica volatile del prezzo del petrolio. Noi invece siamo rimasti molto dipendenti dalle importazioni. La lezione dello choc petrolifero degli anni Settanta non ci è servita». L’avvertimento della Banca d’Italia e di alcuni analisti è caduto nel vuoto. «Era evidente che la ristrettezza delle materie prime si sarebbe fatta sentire ancora e in modo più profondo, ma tutti chiusero occhi e orecchie. La questione energetica fu sottovalutata mentre si puntò a una crescita legata più all’innovazione tecnologica. Sono mancate scelte radicali sull’energia: se fossero state realizzate avrebbero consentito al Paese di irrobustirsi». Come ricorda quegli anni? «Nel ’73 l’Italia era in ginocchio. Da un lato c’era il cospicuo deficit della bilancia commerciale agricola, dovuto anche al fatto che la politica comunitaria di sostegno ai prezzi avvantaggiava i prodotti continentali rispetto a quelli mediterranei; dall’altro, il peggioramento delle ragioni di scambio provocato dall’aumento dei prezzi del petrolio e delle materie prime unito a una massiccia fuga di capitali concorsero a rendere più pesante il disavanzo strutturale dei nostri conti con l’estero. Le misure di emergenza varate dal governo Rumor di centrosinistra, come il blocco della circolazione delle auto alla domenica e la riduzione del 40% dell’illuminazione pubblica, non ebbero alcun effetto reale sul contenimento dei consumi. Nell’aprile 1974 si negoziò con il Fondo monetario internazionale una linea di credito fino a 1 miliardo di diritti di prelievo. Inoltre la Bundesbank concesse un prestito di 2 miliardi di dollari contro il deposito di un quinto delle riserve in oro di Bankitalia». Gli errori sono continuati negli anni Ottanta con la politica del debito. «La crescita è stata finanziata con il debito pubblico e ha prodotto i risultati che ancora oggi abbiamo sotto gli occhi». C’è il rischio di tornare agli anni Settanta? «Il rischio esiste e sarebbe fuori luogo nasconderlo. Essendo l’inflazione in Europa ancora a una cifra, alcuni provvedimenti che sgonfino le bolle dei prezzi e la speculazione è possibile farli e auguriamoci che questo avvenga. Ci vorrà però tempo per tornare alla situazione pre inflazionistica. Si potrebbe intervenire con misure volte ad accelerare questo rientro ma ci sarebbe un alto prezzo da pagare come rallentamento dell’economia e questo nessuno lo vuole. Possiamo immaginare quindi un percorso più lungo, con aggiustamenti progressivi».
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Il testo del prof Raoul Pupo, storico italiano già professore di Storia contemporanea all'Università di Trieste, è stato scritto per il Circolo della Storia, la nuova comunità nazionale che si è costituita un mese fa per la direzione scientifica dello storico Tommaso Piffer, e raggruppa circa duemila appassionati di tutta Italia. I contenuti sono aperti alla libera fruizione, info e adesioni circolodellastoria.it
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Il 10 novembre 1975: ad Osimo venne firmato il Trattato italo-jugoslavo che definiva il confine tra i due Stati ed offriva nuovi spunti per la già buona collaborazione economica fra i due Paesi. Nel 1977 l’entrata in vigore del Trattato fu comunicata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ne prese atto e depose la pietra tombale su ogni ipotesi di costituzione del Territorio Libero di Trieste, così come previsto dal Trattato di pace del 1947.
Ce n’era bisogno, dal momento che il Memorandum di Londra del 1954 aveva già di fatto realizzato la spartizione del mai costituito TLT? Certo che no, secondo i rappresentanti dei profughi italiani dalla zona B, cui la simulazione di provvisorietà contenuta nel Memorandum aveva alimentato l’illusione di poter, prima o poi, chissà in quale modo, recuperare la propria terra. Altroché, era invece il giudizio comune delle cancellerie occidentali, perché la provvisorietà formale del Memorandum era stata concepita soltanto per acquietare le rispettive opinioni pubbliche ed ormai, trascorsi vent’anni, l’effetto era stato raggiunto. Gli sloveni si erano rassegnati alla perdita di Trieste, divenuta nel frattempo un ottimo mercato per tutti gli acquirenti jugoslavi, mentre a diventare la tanto desiderata Novi Trst era stata Capodistria. In Italia molti pensavano che Trieste si trovasse dall’altra parte del ponte rispetto a Trento e la zona B non avevano proprio idea di che cosa fosse.
I rapporti bilaterali negli anni Sessanta nel complesso erano buoni. L’interscambio economico era ottimo, anche perché la Germania federale aveva interrotto i rapporti commerciali con la Jugoslavia dopo che il governo di Belgrado aveva riconosciuto la repubblica democratica tedesca. Fatto ancor più importante, la Jugoslavia costituiva un ottimo cuscinetto strategico per l’Italia che aveva così visto allontanarsi il fronte caldo della guerra fredda, mentre l’Italia e per suo tramite la NATO coprivano le spalle alla Jugoslavia.
Le incognite riguardavano il futuro e cioè il “dopo Tito”, perché erano in molti a chiedersi se la Repubblica Federativa sarebbe sopravvissuta alla morte del suo carismatico fondatore e leader. Alcuni scenari possibili erano davvero molto allarmanti.
Uno di questi era il riallineamento della Jugoslavia all’Unione Sovietica, paventato sia da una parte della stessa dirigenza politica jugoslava che dalla NATO ed in particolare dall’Italia, che si sarebbe ritrovata l’armata rossa alle porte di Monfalcone. Un altro ed ancor più inquietante scenario prevedeva il collasso della compagine federale, con la secessione delle repubbliche del nord ed il successivo intervento militare sovietico in difesa del socialismo ed occidentale a tutela dell’indipedenza slovena e croata: una situazione questa ad altissimo rischio, perché avrebbe potuto innescare un conflitto europeo. Ma anche se non si fosse arrivati alle armi, la frammentazione jugoslava avrebbe danneggiato gli interessi italiani, perché Slovenia e Croazia sarebbero state troppo deboli per fungere da efficace barriera contro le forze del patto di Varsavia.
In ogni caso, se la crisi fosse esplosa con un confine italo-jugoslavo ancora giuridicamente incerto, questo avrebbe concesso una formidabile leva al Cremlino nei confronti dell’Italia. Infatti, se la condizione della zona B era incerta, allora lo era anche quella della zona A e sul destino di Trieste i russi avrebbero avuto probabilmente non poco da dire.
Insomma, tutto consigliava di chiudere anche formalmente la partita, sia per contribuire alla stabilizzazione della Jugoslavia, sia per mettere definitivamente in sicurezza il confine orientale italiano. La spinta decisiva venne nel 1968 dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia, che suscitò grandissimo allarme anche in Jugoslava e venne seguita dalla proclamazione della “dottrina Breznev, che gettava ombre lunghe sul futuro dello Stato balcanico. In quella circostanza il ministro degli esteri italiano, Medici, oltre a rassicurare il governo di Belgrado che quello italiano non intendeva sollevare rivendicazioni territoriali approfittando della necessità di quello jugoslavo di concentrare le sue forze ai confini con i Paesi del Patto di Varsavia, prese l’iniziativa di proporre colloqui esplorativi sulla possibilità di superare il Memorandum. Partì così un negoziato, affidato all’ambasciatore Milesi Ferretti ed al plenipotenziario Perišić: nonostante il comune intento delle parti a giungere ad una soluzione formale che riproducesse sostanzialmente quella di fatto, l’iter negoziale si rivelò lungo e complesso fino a generare momenti di acuta tensione.
Le questioni da risolvere erano in effetti parecchie, dalle sacche territoriali occupate dagli jugoslavi lungo il confine dell’Isonzo, ai problemi delle viabilità nell’Isontino, alla delimitazione delle acque territoriali nel golfo di Trieste. I nodi politici fondamentali però due.
L’Italia riteneva di detenere ancora formalmente la sovranità su tutti territori che avrebbero dovuto dar vita al mai costituto Territorio Libero di Trieste in nome della “dottrina Cammarata”, in applicazione della quale, dopo l’estensione dell’amministrazione italiana alla zona A , aveva fatto di Trieste il capoluogo della regione autonoma Friuli -Venezia Giulia. Pertanto, intendeva ottenere quale contropartita alla sua rinuncia formale alla zona B la concessione da parte jugoslava di una piccola striscia della zona B medesima. Si trattava di una compensazione prevalentemente simbolica, dal momento che l’area era deserta, ma tornava utile per ampliare l’asfittico distretto industriale di Trieste. Per contro, gli jugoslavi non solo negavano la sussistenza della sovranità italiana sulla zona B in linea con la maggior parte della giurisprudenza internazionale, ma si consideravano essi stessi detentori della sovranità sulla zona fin dal 1954 e di conseguenza non erano affatto disposti a concessioni seppur solo simboliche.
Invece, il governo di Belgrado desiderava estendere le norme di tutela della minoranza slovena previste dall’Allegato al Memorandum anche alle altre province italiane, compresa quella di Udine in riferimento alla ex “Slavia veneta” e chiedeva gli venisse riconosciuto un droit de regard sull’applicazione di tale normativa. Roma invece non ne voleva sentir parlare, vuoi perché secondo il governo italiano in provincia di Udine di sloveni non ce n’erano proprio, neanche nelle valli del Natisone, del Torre e Resia, vuoi perché il “droit de regard” a favore dell’Austria stava procurando infiniti problemi all’Italia nella questione dell’Alto Adige.
Inoltre Aldo Moro, vero protagonista dell’interlocuzione con il governo jugoslavo, amava notoriamente le pazienti tessiture, capaci di assorbire senza troppe scosse novità altrimenti difficili da far accettare sia alle forze politiche che al corpo elettorale. Viceversa Belgrado aveva fretta di concludere, anche perché pressata dagli ambienti sloveni, mentre i ritmi blandi imposti dall’Italia venivano interpretati come sintomi di scarsa convinzione o, peggio, come segnali di una volontà di elusione – in linea con il tradizionale machiavellismo italico – celante il segreto desiderio di non condurre in porto le trattative
Ne seguirono alcuni tentativi di forzatura da parte jugoslava. Il primo avvenne alla fine del 1970, nell’imminenza della visita di Tito in Italia. Al rifiuto italiano di mettere ufficialmente in agenda la questione dei confini, che provocò il malumore jugoslavo, seguì un’indiscrezione stampa, d’incerta provenienza, che rendeva nota l’esistenza dei colloqui riservati. Ne venne un polverone politico-mediatico, che il governo italiano concluse con una dichiarazione ufficiale di Moro nella sua qualità di Ministro degli esteri, secondo la quale l’Italia non era disponibile a rinunciare ai “propri legittimi interessi nazionali”, intendendo la zona B; tale espressione dal governo di Belgrado venne considerata “a carattere specificatamente irredentista” e la visita di Tito fu rimandata di alcuni mesi.
La seconda e ben più grave forzatura arrivò nel 1974, quando il governo jugoslavo fece apporre lungo la linea di demarcazione fra le zone A e B alcuni cartelli stradali con la scritta “confine di stato” a sottolineare la piena sovranità jugoslava sulla zona B. Il governo italiano reagì con una nota durissima che evocava la perdurante sovranità italiana sulla zona B e ne nacque un putiferio, perché il governo di Belgrado decise di alzare l’asticella della crisi, passando dal livello diplomatico a quello delle campagne di stampa e, addirittura, delle dimostrazioni militari simboliche.
A quel punto, divenne evidente che il negoziato andava concluso per evitare un collasso generale dei rapporti italo-jugoslavi che nessuno voleva. Di fronte ai tradizionali incagli, la soluzione sul piano del metodo venne dall’attivazione di un canale negoziale alternativo, che era già stato preparato segretamente nel 1973 dai ministri degli esteri Medici e Minić, affidandolo al Direttore Generale del Ministero dell’industria Italiano, Eugenio Carbone, ed al Sottosegretario presso il Ministero del Commercio Jugoslavo, lo Sloveno Boris Šnuderl. Una scelta del genere già lasciava intuire la preferenza dei due governi per uno spostamento dell’asse del negoziato verso il terreno delle intese economiche, decisamente più praticabile rispetto ai vicoli ciechi dei contenziosi politico-territoriali, anche se ovviamente i due negoziatori vennero assistiti da rappresentanti dei rispettivi Ministeri degli esteri.
Il canale in effetti funzionò, anche perché i due grandi nodi vennero rimossi con una scelta politica dall’alto. In coerenza con l’opinione prevalente all’interno della carriera diplomatica, il governo italiano decise di rinunciare alla compensazione simbolica in zona B, puntando invece a più concrete compensazioni di natura politica – ad esempio, sulla questione delle minoranze – ed economica. A quest’ultimo riguardo, il negoziatore italiano riprese la richiesta di ampliamento della zona industriale di Trieste in territorio jugoslavo, spostando però la ricerca dei terreni necessari dalla zona B al Carso triestino, dove il confine era già definito e dove le aree disponibili erano assai più vaste. Prese corpo in tal modo, su richiesta italiana, l’ipotesi di creare un nuovo distretto industriale alle spalle della città, destinato a risolvere il problema del mancato sviluppo di Trieste vuoi in maniera diretta – generando cioè occupazione – vuoi indiretta, mediante l’incremento dei traffici portuali. A cavaliere del confine quindi sarebbe stata ricavata una zona franca, capace di attrarre investimenti per prodotti diretti all’esportazione facendo convergere le energie imprenditoriali delle aree più dinamiche dei due Paesi, il nord Italia e quella Slovenia che non vedeva l’ora di evadere dalle gabbie del sistema comunista. Da parte sua il governo di Belgrado rinunciò sia all’estensione delle norme di tutela della minoranza slovena alla provincia di Udine, sia al droit de regard, accontentandosi di due dichiarazioni d’intenti unilaterali simmetriche.
Alla fine del 1974 l’accordo era quindi raggiunto, ma dapprima la caduta del quinto governo Rumor e poi la richiesta italiana di attendere le elezioni amministrative del giugno1975, fecero slittare la ratifica parlamentare appena all’autunno. Di conseguenza, la firma giunse il 10 novembre in quel di Osimo.
Le cancellerie occidentali applaudirono, i due governi s’industriarono a presentare l’accordo come il primo raggiunto nello “spirito di Helsinki”, anche se un legame diretto fra il negoziato italo-jugoslavo e quello per la CSCE non c’era mai stato; l’URSS abbozzò; l’opinione pubblica italiana quasi non si accorse dell’accaduto, mentre quella locale triestina protestò, com’era largamente previsto, ma in una misura ed in forme che sorpresero un po’ tutti.
Piero Amara (Ansa)
L’ex avvocato svela l’ascesa del manager di Gioia Tauro già accusato in Iran e imputato a Roma «Diventò fornitore di Eni grazie a me, ma si tenne le quote. In Calabria aveva relazioni pericolose».
The italian job è diventato un intrigo internazionale. L’agenzia di stampa Bloomberg, da alcune settimane, si sta dedicando agli affari petroliferi del manager calabrese Francesco Mazzagatti, il più pagato in Gran Bretagna (oltre 30 milioni di euro di stipendio nel 2024). Il suo tentativo di acquisire da Shell ed Exxon mobile, con la sua società Viaro Energy Ltd (controllata da Viaro investment Ltd), l’impianto di gas di Bacton, a nord-est di Londra, considerato la «spina dorsale» della struttura energetica inglese, ha attirato l’attenzione dell’agenzia governativa britannica Nsta (l’Autorità di transizione del Mare del Nord che regola l’attività delle industrie di petrolio e gas offshore). Ma anche l’acquisto della Rockerose energy ha portato all’apertura un’inchiesta.
Johann Chapoutot (Wikimedia)
Col saggio «Gli irresponsabili», Johann Chapoutot rilegge l’ascesa del nazismo senza gli occhiali dell’ideologia. E mostra tra l’altro come socialdemocratici e comunisti appoggiarono il futuro Führer per mettere in crisi la Repubblica di Weimar.
«Quella di Weimar è una storia così viva che resuscita i morti e continua a porre interrogativi alla Germania e, al di là della Germania, a tutte le democrazie che, di fronte al periodo 1932-1933, a von Papen e Hitler, ma anche a Schleicher, Hindenburg, Hugenberg e Thyssen, si sono trovate a misurare la propria finitudine. Se la Grande Guerra ha insegnato alle civiltà che sono mortali, la fine della Repubblica di Weimar ha dimostrato che la democrazia è caduca».
(Guardia di Finanza)
I finanzieri del Comando Provinciale di Palermo, grazie a una capillare attività investigativa nel settore della lotta alla contraffazione hanno sequestrato oltre 10.000 peluches (di cui 3.000 presso un negozio di giocattoli all’interno di un noto centro commerciale palermitano).
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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