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2019-05-27
In Ungheria c’è solo Orbán. Fidesz arriva al 56%. «Mi ispiro al modello Italia»
Ansa
Alla chiusura delle urne, gli exit poll cancellano il luogo comune della costante disaffezione per il voto al Parlamento europeo dell'Ungheria. I cittadini che si sono recati alle urne - il 30,52% contro il 19,53% del 2014 - hanno fatto diventare il Paese magiaro una roccaforte sovranista assegnando a Fidesz, il partito nazionalista del premier Viktor Orbàn, ben il 56% dei voti, pari a 14 dei 21 seggi assegnati all'Ungheria nel Parlamento europeo. Le opposizioni restano molto distanziate. Per il secondo posto c'è un testa a testa fra tre partiti: Jobbik, Coalizione democratica (Dk) e Partito socialista (Mszp), che otterrebbero due seggi ciascuno. Jobbik, partito di destra ultranazionalista ma anti Orbán, appare in calo rispetto al 19% ottenuto alle politiche del 2018. Confermano la crisi delle forze progressiste i socialisti e Dk, partito social-liberale nato nel 2010 da una scissione proprio dei socialisti. I liberali di Momentum, lista giovanile nata dalle mobilitazioni contro la candidatura olimpica di Budapest, potrebbero superare la soglia di sbarramento del 5% e ottenere un seggio. Seggio quasi impossibile per gli ambientalisti verdi di Lmp.
Fidesz è un partito conservatore, populista, euroscettico e cristiano. È membro del Partito popolare europeo, che tuttavia dal 2019 lo ha sospeso, dell'Unione democratica internazionale (conservatori) e dell'Internazionale democratica centrista. Dai numeri resi noti da Europe Elects, Fidesz però crescerebbe sia rispetto alle elezioni nazionali del 2018 (49,6%), sia rispetto alle europee del 2014 (51,4%). Insieme, il premier magiaro Orbàn e il leader della Lega Matteo Salvini, sono considerati i due capofila del fronte sovranista che vuole cambiare i rapporti di forza politici a Bruxelles per creare una nuova maggioranza con i Popolari, tagliando fuori i Socialisti con i vari partiti nazionali di centrosinistra in crisi in un po' tutta l'Unione: «Al centro le identità che i nostri governi rappresentano, ognuno con la sua storia», avevano detto Salvini e Orbàn durante l'incontro avvenuto a Milano lo scorso agosto. La sintonia perdura: «Il modello austriaco è finito. Ora siamo passati al modello italiano», ha dichiarato ieri Orbàn recandosi al seggio. Come nelle politiche 2018, anche nella campagna elettorale per Bruxelles il partito del primo ministro ha cavalcato le campagne a favore della natalità e quella anti immigrazione, oltre ad un battage pubblicitario contro Jean Claude Juncker, George Soros e la sospensione dal Ppe. Nel maggio 2018, Juncker partecipò a una celebrazione che commemorava i 200 anni dalla nascita di Marx, dove tenne un discorso in memoria del filosofo. Come risposta, i parlamentari europei provenienti da Fidesz scrissero: «L'ideologia marxista ha portato alla morte di decine di milioni di persone e rovinato le vite di miliardi di individui. La celebrazione del suo fondatore costituisce un insulto alla loro memoria». Per ritorsione contro le sanzioni dell'Ue - che accusa Budapest di non garantire lo Stato di diritto - Orbàn ha ritirato l'appoggio allo «spitzenkandidat» dei popolari di Manfred Weber, elemento di ulteriore avvicinamento al segretario del Carroccio. Malgrado la commissione Ue, Orbàn esce rafforzato da questo voto europeo confermandosi il leader della politica ungherese da oltre 20 anni. Nel 1998, infatti, a soli 35 anni, divenne per la prima volta il premier dell'Ungheria, nazione «con 10 milioni di abitanti, un Prodotto interno lordo di 114 miliardi di euro e solo 20.000 soldati». Nato a Székesfehérvár, la «città dei re» iniziò l'esperienza politica giovanile in una organizzazione comunista cambiando idea subito dopo il diploma, si laureò in Scienze politiche a Oxford grazie a una borsa di studio della fondazione del magnate George Soros con una tesi di laurea su Solidarnosc, il sindacato polacco anticomunista fondato da Lec Walesa. Sposato, grande sostenitore della natalità, ha cinque figli. Durante il suo primo mandato l'Ungheria entrò nella Nato e in campo economico aprì alle liberalizzazioni all'occidentale. Restò 8 anni all'opposizione e nel 2010 prese il 52,73% conquistando i due terzi del Parlamento. Con questi numeri realizzò una riforma costituzionale riducendo da 386 a 199 i seggi all'assemblea nazionale, cambiò il sistema dell'istruzione, dell'informazione e quello giudiziario con il Csm che finì sotto il controllo del governo. Nel terzo mandato, nel 2014, divenne molto critico e intransigente verso l'Ue soprattutto sul tema dei migranti. Confermato nelle elezioni del 2018, sempre contando sulla maggioranza in Parlamento, come primo atto ha emanato la cosiddetta «legge stop Soros», che prevede una tassa del 25% alle donazioni straniere in favore di organizzazioni non governative che supportano i migranti. Molto discussa è stata anche la riforma del lavoro: la possibilità di fare fino a 400 ore di straordinari l'anno, ha fatto scendere in piazza i sindacati. Dal fronte progressista, Viktor Orbàn viene considerato il peggiore dei sovranisti, un fascista che, alla stregua di Vladimir Putin, grazie alle modifiche costituzionali ha controllo assoluto sul Paese, mette la mordacchia ai giornalisti, tiene sotto controllo il potere giudiziario, costruisce muri di filo spinato, almeno prima della chiusura della rotta balcanica, per chiudere l'ingresso degli immigrati. Una posizione di blocco condivisa dai Paesi di Visegrad (Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca) che però si oppongono alla ripartizione e alla revisione del Trattato di Dublino. Ieri come oggi, l'idea di Orbàn è sempre la stessa: «Il pericolo mortale che minaccia gli ungheresi è l'arrivo di migliaia di migranti musulmani, con il ricollocamento obbligatorio voluto dall'Ue. Soltanto oggi, con i risultati definitivi, sapremo se Viktor Orbàn avrà più peso nel Ppe e sarà un alleato più influente per Matteo Salvini e Marine Le Pen.
Vola il Brexit party di Nigel Farage. I gretini trascinano i Verdi tedeschi
Paese europeo che vai, risultato più o meno sorprendente che trovi. Se nella maggior parte dei casi i risultati delle elezioni europee forniscono una fotografia relativamente puntuale delle singole situazioni locali, è pur vero che non mancano situazioni inattese e destinate nel prossimo futuro ad alimentare il dibattito sia a livello nazionale che europeo. Non bisogna dimenticare infatti che l'appuntamento di quest'anno assumeva una rilevanza storica per via del particolare momento economico e geopolitico nel quale ci troviamo immersi.
Rimane sensazionale, per quanto largamente prevista, la vittoria a mani basse del Brexit party nel Regno Unito (73 seggi all'Europarlamento). Nelle ultime settimane, infatti, l'ascesa del partito di Nigel Farage ha assunto le sembianze di una vera e propria cavalcata trionfale. Con due terzi dei collegi scrutinati, il Brexit party viene dato al 31,8%, una cifra largamente superiore alla somma delle preferenze prese dai laburisti (13,9%) e dai conservatori (9,1%). Un risultato storico che suona anche come una risposta molto chiara ai tentennamenti nella trattativa con Bruxelles e, soprattutto, alle voci su un possibile secondo referendum teso a scongiurare l'uscita del Regno Unito dall'Ue. Secondo gradino del podio per i liberaldemocratici (21,1%). Bene anche i Verdi, al quarto posto con il 12,4%, una delle costanti di questa tornata elettorale europea.
Male in Germania (96 seggi, delegazione più numerosa al Parlamento europeo) il partito di Angela Merkel (Cdu-Csu) che pur confermando il primo posto con il 28,4% delle preferenze fa registrare un tonfo notevole. Cinque anni fa, infatti, quando i due partiti si presentavano divisi, la somma delle preferenze era pari al 35,3%. La discesa fatta registrare è dunque di poco inferiore a 7 punti percentuali. Se parliamo in termini di seggi, l'apporto al Ppe fornito da Cdu-Csu è previsto in calo di 5 seggi. Malissimo i socialdemocratici del Spd, crollati al 15,5% rispetto al 27,3% del 2014, con un danno per la corrispondente pattuglia europea pari a 12 seggi. Straordinaria invece l'esplosione dei Verdi, che raggiungono il 20,7% contro il 10,7% del 2014. Scontata l'influenza sul risultato della campagna di sensibilizzazione contro il cambiamento climatico messa in piedi da Greta Thunberg e soci, e che ha portato decine di migliaia di ragazzi in piazza nei venerdì di protesta per l'ambiente. Ma anche un segno di malcontento nei confronti dell'industria automobilistica nazionale che negli ultimi anni, a dispetto dei proclami, ha dimostrato di tenere molto più al profitto che alla sostenibilità. La mente corre subito agli scandali (Dieselgate su tutti) che hanno investito le case produttrici nazionali e capaci di gettare scompiglio nella scena politica. Risultato discreto, infine, per la destra di Afd alleata con Matteo Salvini, che raccoglie il 10,9% in leggera risalita rispetto al 2014 (quando prese il 7%) ma lievemente in calo rispetto alle politiche del 2017 (in quell'occasione i consensi furono pari all'11,5% nel maggioritario e al 12,6% nel proporzionale).
Per quanto riguarda la Spagna (54 seggi), vincono i socialisti di Sanchez (32,8%) con più di dieci punti di vantaggio sui popolari. Ottima performance in Polonia (51 seggi) di Diritto e giustizia (Pis), formazione che aderisce ai conservatori europei ma strizza l'occhio a Matteo Salvini. Il partito del presidente Andrzej Duda e del premier Mateusz Morawiecki supera agevolmente il 42%, facendo registrare un risultato superiore alle europee del 2014 (31,8%) ma anche delle politiche del 2015 (37,6%). Batosta in Grecia (21 seggi totali) per il partito di Alexis Tsipras. Syriza si ferma infatti al 23,8%, surclassata dal partito di opposizione Nuova democrazia (33,3%) il cui leader, Kyriakos Mitsotakis, ha immediatamente chiesto le dimissioni del governo in carica: «La Grecia ha bisogno di un nuovo governo. Il primo ministro si deve assumere la piena responsabilità, rassegnando subito le dimissioni e il Paese deve andare alle urne il prima possibile». Nella tarda serata, il premier Tsipras ha ammesso la sconfitta invocando lo svolgimento di elezioni anticipate già nel prossimo giugno.
E sempre in tema di Paesi nei quali il governo è in bilico, in Austria (18 seggi) si fa sentire fino a un certo punto l'effetto dello scandalo del vicecancelliere Heinz-Christian Strache, dimessosi la scorsa settimana dopo essere stato «beccato» a discutere di affari loschi con una donna che si spacciava per la nipote di un facoltoso oligarca russo. Ebbene, la formazione di cui Strache era leader e che reggeva il governo del cancelliere Sebastian Kurz, il Partito della libertà austriaco (Fpo) è calata (17,5%) ma meno di quanto ci si potesse legittimamente attendere dopo il clamore fatto registrare in patria dalla vicenda. Vince il partito di Kurz (34,5%) che fa capo ai Popolari, seguito dai socialdemocratici. Una situazione a tre poli, oggi potenzialmente incompatibili tra loro, che lancia un segnale di forte instabilità le prossime politiche.
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Il premier magiaro guadagna un altro 4%: è il simbolo del sovranismo continentale. Ha messo al centro famiglia e lotta all'immigrazione. Pronto l'asse con la Lega. Vola il Brexit party di Nigel Farage. I gretini trascinano i Verdi tedeschi. L'euroscettico britannico quasi al 32%. In Germania Angela Merkel giù di 7 punti. A picco l'Spd, in risalita la destra di Afd In Spagna conferma per Pedro Sánchez. In Grecia Alexis Tsipras perde e si dimette. Lo speciale comprende due articoli. Alla chiusura delle urne, gli exit poll cancellano il luogo comune della costante disaffezione per il voto al Parlamento europeo dell'Ungheria. I cittadini che si sono recati alle urne - il 30,52% contro il 19,53% del 2014 - hanno fatto diventare il Paese magiaro una roccaforte sovranista assegnando a Fidesz, il partito nazionalista del premier Viktor Orbàn, ben il 56% dei voti, pari a 14 dei 21 seggi assegnati all'Ungheria nel Parlamento europeo. Le opposizioni restano molto distanziate. Per il secondo posto c'è un testa a testa fra tre partiti: Jobbik, Coalizione democratica (Dk) e Partito socialista (Mszp), che otterrebbero due seggi ciascuno. Jobbik, partito di destra ultranazionalista ma anti Orbán, appare in calo rispetto al 19% ottenuto alle politiche del 2018. Confermano la crisi delle forze progressiste i socialisti e Dk, partito social-liberale nato nel 2010 da una scissione proprio dei socialisti. I liberali di Momentum, lista giovanile nata dalle mobilitazioni contro la candidatura olimpica di Budapest, potrebbero superare la soglia di sbarramento del 5% e ottenere un seggio. Seggio quasi impossibile per gli ambientalisti verdi di Lmp. Fidesz è un partito conservatore, populista, euroscettico e cristiano. È membro del Partito popolare europeo, che tuttavia dal 2019 lo ha sospeso, dell'Unione democratica internazionale (conservatori) e dell'Internazionale democratica centrista. Dai numeri resi noti da Europe Elects, Fidesz però crescerebbe sia rispetto alle elezioni nazionali del 2018 (49,6%), sia rispetto alle europee del 2014 (51,4%). Insieme, il premier magiaro Orbàn e il leader della Lega Matteo Salvini, sono considerati i due capofila del fronte sovranista che vuole cambiare i rapporti di forza politici a Bruxelles per creare una nuova maggioranza con i Popolari, tagliando fuori i Socialisti con i vari partiti nazionali di centrosinistra in crisi in un po' tutta l'Unione: «Al centro le identità che i nostri governi rappresentano, ognuno con la sua storia», avevano detto Salvini e Orbàn durante l'incontro avvenuto a Milano lo scorso agosto. La sintonia perdura: «Il modello austriaco è finito. Ora siamo passati al modello italiano», ha dichiarato ieri Orbàn recandosi al seggio. Come nelle politiche 2018, anche nella campagna elettorale per Bruxelles il partito del primo ministro ha cavalcato le campagne a favore della natalità e quella anti immigrazione, oltre ad un battage pubblicitario contro Jean Claude Juncker, George Soros e la sospensione dal Ppe. Nel maggio 2018, Juncker partecipò a una celebrazione che commemorava i 200 anni dalla nascita di Marx, dove tenne un discorso in memoria del filosofo. Come risposta, i parlamentari europei provenienti da Fidesz scrissero: «L'ideologia marxista ha portato alla morte di decine di milioni di persone e rovinato le vite di miliardi di individui. La celebrazione del suo fondatore costituisce un insulto alla loro memoria». Per ritorsione contro le sanzioni dell'Ue - che accusa Budapest di non garantire lo Stato di diritto - Orbàn ha ritirato l'appoggio allo «spitzenkandidat» dei popolari di Manfred Weber, elemento di ulteriore avvicinamento al segretario del Carroccio. Malgrado la commissione Ue, Orbàn esce rafforzato da questo voto europeo confermandosi il leader della politica ungherese da oltre 20 anni. Nel 1998, infatti, a soli 35 anni, divenne per la prima volta il premier dell'Ungheria, nazione «con 10 milioni di abitanti, un Prodotto interno lordo di 114 miliardi di euro e solo 20.000 soldati». Nato a Székesfehérvár, la «città dei re» iniziò l'esperienza politica giovanile in una organizzazione comunista cambiando idea subito dopo il diploma, si laureò in Scienze politiche a Oxford grazie a una borsa di studio della fondazione del magnate George Soros con una tesi di laurea su Solidarnosc, il sindacato polacco anticomunista fondato da Lec Walesa. Sposato, grande sostenitore della natalità, ha cinque figli. Durante il suo primo mandato l'Ungheria entrò nella Nato e in campo economico aprì alle liberalizzazioni all'occidentale. Restò 8 anni all'opposizione e nel 2010 prese il 52,73% conquistando i due terzi del Parlamento. Con questi numeri realizzò una riforma costituzionale riducendo da 386 a 199 i seggi all'assemblea nazionale, cambiò il sistema dell'istruzione, dell'informazione e quello giudiziario con il Csm che finì sotto il controllo del governo. Nel terzo mandato, nel 2014, divenne molto critico e intransigente verso l'Ue soprattutto sul tema dei migranti. Confermato nelle elezioni del 2018, sempre contando sulla maggioranza in Parlamento, come primo atto ha emanato la cosiddetta «legge stop Soros», che prevede una tassa del 25% alle donazioni straniere in favore di organizzazioni non governative che supportano i migranti. Molto discussa è stata anche la riforma del lavoro: la possibilità di fare fino a 400 ore di straordinari l'anno, ha fatto scendere in piazza i sindacati. Dal fronte progressista, Viktor Orbàn viene considerato il peggiore dei sovranisti, un fascista che, alla stregua di Vladimir Putin, grazie alle modifiche costituzionali ha controllo assoluto sul Paese, mette la mordacchia ai giornalisti, tiene sotto controllo il potere giudiziario, costruisce muri di filo spinato, almeno prima della chiusura della rotta balcanica, per chiudere l'ingresso degli immigrati. Una posizione di blocco condivisa dai Paesi di Visegrad (Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca) che però si oppongono alla ripartizione e alla revisione del Trattato di Dublino. Ieri come oggi, l'idea di Orbàn è sempre la stessa: «Il pericolo mortale che minaccia gli ungheresi è l'arrivo di migliaia di migranti musulmani, con il ricollocamento obbligatorio voluto dall'Ue. Soltanto oggi, con i risultati definitivi, sapremo se Viktor Orbàn avrà più peso nel Ppe e sarà un alleato più influente per Matteo Salvini e Marine Le Pen. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/in-ungheria-ce-solo-orban-fidesz-arriva-al-56-mi-ispiro-al-modello-italia-2638206825.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="vola-il-brexit-party-di-nigel-farage-i-gretini-trascinano-i-verdi-tedeschi" data-post-id="2638206825" data-published-at="1764990786" data-use-pagination="False"> Vola il Brexit party di Nigel Farage. I gretini trascinano i Verdi tedeschi Paese europeo che vai, risultato più o meno sorprendente che trovi. Se nella maggior parte dei casi i risultati delle elezioni europee forniscono una fotografia relativamente puntuale delle singole situazioni locali, è pur vero che non mancano situazioni inattese e destinate nel prossimo futuro ad alimentare il dibattito sia a livello nazionale che europeo. Non bisogna dimenticare infatti che l'appuntamento di quest'anno assumeva una rilevanza storica per via del particolare momento economico e geopolitico nel quale ci troviamo immersi. Rimane sensazionale, per quanto largamente prevista, la vittoria a mani basse del Brexit party nel Regno Unito (73 seggi all'Europarlamento). Nelle ultime settimane, infatti, l'ascesa del partito di Nigel Farage ha assunto le sembianze di una vera e propria cavalcata trionfale. Con due terzi dei collegi scrutinati, il Brexit party viene dato al 31,8%, una cifra largamente superiore alla somma delle preferenze prese dai laburisti (13,9%) e dai conservatori (9,1%). Un risultato storico che suona anche come una risposta molto chiara ai tentennamenti nella trattativa con Bruxelles e, soprattutto, alle voci su un possibile secondo referendum teso a scongiurare l'uscita del Regno Unito dall'Ue. Secondo gradino del podio per i liberaldemocratici (21,1%). Bene anche i Verdi, al quarto posto con il 12,4%, una delle costanti di questa tornata elettorale europea. Male in Germania (96 seggi, delegazione più numerosa al Parlamento europeo) il partito di Angela Merkel (Cdu-Csu) che pur confermando il primo posto con il 28,4% delle preferenze fa registrare un tonfo notevole. Cinque anni fa, infatti, quando i due partiti si presentavano divisi, la somma delle preferenze era pari al 35,3%. La discesa fatta registrare è dunque di poco inferiore a 7 punti percentuali. Se parliamo in termini di seggi, l'apporto al Ppe fornito da Cdu-Csu è previsto in calo di 5 seggi. Malissimo i socialdemocratici del Spd, crollati al 15,5% rispetto al 27,3% del 2014, con un danno per la corrispondente pattuglia europea pari a 12 seggi. Straordinaria invece l'esplosione dei Verdi, che raggiungono il 20,7% contro il 10,7% del 2014. Scontata l'influenza sul risultato della campagna di sensibilizzazione contro il cambiamento climatico messa in piedi da Greta Thunberg e soci, e che ha portato decine di migliaia di ragazzi in piazza nei venerdì di protesta per l'ambiente. Ma anche un segno di malcontento nei confronti dell'industria automobilistica nazionale che negli ultimi anni, a dispetto dei proclami, ha dimostrato di tenere molto più al profitto che alla sostenibilità. La mente corre subito agli scandali (Dieselgate su tutti) che hanno investito le case produttrici nazionali e capaci di gettare scompiglio nella scena politica. Risultato discreto, infine, per la destra di Afd alleata con Matteo Salvini, che raccoglie il 10,9% in leggera risalita rispetto al 2014 (quando prese il 7%) ma lievemente in calo rispetto alle politiche del 2017 (in quell'occasione i consensi furono pari all'11,5% nel maggioritario e al 12,6% nel proporzionale). Per quanto riguarda la Spagna (54 seggi), vincono i socialisti di Sanchez (32,8%) con più di dieci punti di vantaggio sui popolari. Ottima performance in Polonia (51 seggi) di Diritto e giustizia (Pis), formazione che aderisce ai conservatori europei ma strizza l'occhio a Matteo Salvini. Il partito del presidente Andrzej Duda e del premier Mateusz Morawiecki supera agevolmente il 42%, facendo registrare un risultato superiore alle europee del 2014 (31,8%) ma anche delle politiche del 2015 (37,6%). Batosta in Grecia (21 seggi totali) per il partito di Alexis Tsipras. Syriza si ferma infatti al 23,8%, surclassata dal partito di opposizione Nuova democrazia (33,3%) il cui leader, Kyriakos Mitsotakis, ha immediatamente chiesto le dimissioni del governo in carica: «La Grecia ha bisogno di un nuovo governo. Il primo ministro si deve assumere la piena responsabilità, rassegnando subito le dimissioni e il Paese deve andare alle urne il prima possibile». Nella tarda serata, il premier Tsipras ha ammesso la sconfitta invocando lo svolgimento di elezioni anticipate già nel prossimo giugno. E sempre in tema di Paesi nei quali il governo è in bilico, in Austria (18 seggi) si fa sentire fino a un certo punto l'effetto dello scandalo del vicecancelliere Heinz-Christian Strache, dimessosi la scorsa settimana dopo essere stato «beccato» a discutere di affari loschi con una donna che si spacciava per la nipote di un facoltoso oligarca russo. Ebbene, la formazione di cui Strache era leader e che reggeva il governo del cancelliere Sebastian Kurz, il Partito della libertà austriaco (Fpo) è calata (17,5%) ma meno di quanto ci si potesse legittimamente attendere dopo il clamore fatto registrare in patria dalla vicenda. Vince il partito di Kurz (34,5%) che fa capo ai Popolari, seguito dai socialdemocratici. Una situazione a tre poli, oggi potenzialmente incompatibili tra loro, che lancia un segnale di forte instabilità le prossime politiche.
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Di fronte a questa ondata di insicurezza, i labour propongono più telecamere nelle città più importanti del Paese, applicando così, in modo massiccio, il riconoscimento facciale dei criminali. Oltre 45 milioni di cittadini verranno riconosciuti attraverso la videosorveglianza. Secondo la proposta avanzata dai labour, la polizia potrà infatti utilizzare ogni tipo di videocamera. Non solo quelle pubbliche, ma anche quelle presenti sulle auto, le cosiddette dashcam, e pure quelle dei campanelli dei privati cittadini. Come riporta il Telegraph, «le proposte sono accompagnate da un’iniziativa volta a far sì che la polizia installi telecamere di riconoscimento facciale “live” che scansionino i sospetti ricercati nei punti caldi della criminalità in Inghilterra e in Galles. Anche altri enti pubblici, oltre alla polizia, e aziende private, come i rivenditori, potrebbero essere autorizzati a utilizzare la tecnologia di riconoscimento facciale nell’ambito del nuovo quadro giuridico».
Il motivo, almeno nelle intenzioni, è certamente nobile, come sempre in questi casi. E la paura è tanta. Eppure questa soluzione pone importanti interrogativi legati alla libertà della persone e, soprattutto, alla loro privacy. C’è infatti già un modello simile ed è quello applicato in Cina. Da tempo infatti Pechino utilizza le videocamere per controllare la popolazione in ogni suo minimo gesto. Dagli attraversamenti pedonali ai comportamenti più privati. E premia (oppure punisce) il singolo cittadino in base ad ogni sua singola azione. Si tratta del cosiddetto credito sociale, che non ha a che fare unicamente con la liquidità dei cittadini, ma anche con i loro comportamenti, le loro condanne giudiziarie, le violazioni amministrative gravi e i loro comportamenti più o meno affidabili.
Quella che sembrava una distopia lì è diventata una realtà. Del resto anche in Italia, durante il Covid, è stato applicato qualcosa di simile con il Green Pass. Eri un bravo cittadino - e quindi potevi accedere a tutti i servizi - solamente se ti vaccinavi, altrimenti venivi punito: non potevi mangiare al chiuso, anche se era inverno, oppure prendere i mezzi pubblici.
Per l’avvocato Silkie Carlo, a capo dell’organizzazione non governativa per i diritti civili Big Brother, «ogni ricerca in questa raccolta di nostre foto personali sottopone milioni di cittadini innocenti a un controllo di polizia senza la nostra conoscenza o il nostro consenso. Il governo di Sir Keir Starmer si sta impegnando in violazioni storiche della privacy dei britannici, che ci si aspetterebbe di vedere in Cina, ma non in una democrazia». Ed è proprio quello che sta accadendo nel Regno Unito e che può accadere anche da noi. Il sistema cinese, poi, sta potenziando ulteriormente le proprie capacità. Secondo uno studio pubblicato dall’Australian strategic policy institute, Pechino sta potenziando ulteriormente la sua rete di controllo sulla cittadinanza sfruttando l’intelligenza artificiale, soprattutto per quanto riguarda la censura online. Un pericolo non solo per i cinesi, ma anche per i Paesi occidentali visto che Pechino «è già il maggiore esportatore mondiale di tecnologie di sorveglianza basate sull’intelligenza artificiale». Come a dire: ciò che stanno sviluppando lì, arriverà anche da noi. E allora non saranno solamente i nostri Paesi a controllare le nostre azioni ma, in modo indiretto, anche Pechino.
C’è una frase di Benjamin Franklin che viene ripresa in Captain America e che racconta bene quest’ansia da controllo. Un’ansia che nasce dalla paura, spesso provocata da politiche fallaci. «Baratteranno la loro libertà per un po’ di sicurezza». Come sta succedendo nel Regno Unito, dopo anni di accoglienza indiscriminata. O come è successo anhe in Italia durante il Covid. Per anni, ci siamo lasciati intimorire, cedendo libertà e vita. Oggi lo scenario è peggiore, visto l’uso massiccio della tecnologia, che rende i Paesi occidentali sempre più simili alla Cina. E non è una bella notizia.
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Il ministro ha ricordato che il concorrente europeo Fcas (Future combat aircraft system) avanza a ritmo troppo lento per disaccordi tra Airbus (Francia-Germania) e Dassault (Francia) riguardanti i diritti e la titolarità delle tecnologie. «È fallito il programma franco-tedesco […], probabilmente la Germania potrebbe entrare a far parte in futuro di questo progetto [...]. Abbiamo avuto richieste da Canada, Arabia Saudita, e penso che l’Australia possa essere interessata. Più nazioni salgono più aumenta la massa critica che puoi investire e meno costerà ogni esemplare». Tutto vero, rimangono però perplessità su un possibile coinvolgimento dei sauditi per due ragioni. La prima: l’Arabia sta incrementando i rapporti industriali militari con la Cina, che così avrebbe accesso ai segreti del nuovo caccia. La seconda: l’Arabia Saudita aveva finanziato anche altri progetti e tra questi persino uno con la Turchia, nazione che, dopo essere stata espulsa dal programma F-35 durante il primo mandato presidenziale di Trump a causa dell’acquisto dei missili russi S-400, ora sta cercando di rientrarci trovando aperture dalla Casa Bianca. Anche perché lo stesso Trump ha risposto in modo possibilista alla richiesta di Riad di poter acquisire lo stesso caccia nonostante gli avvertimenti del Pentagono sulla presenza cinese.
Per l’Italia, sede della fabbrica Faco di Cameri (Novara) che gli F-35 li assembla, con la previsione di costruire parti del Gcap a Torino Caselle (dove oggi si fanno quelle degli Eurofighter Typhoon), significherebbe creare una ricaduta industriale per qualche decennio. Ma dall’altra parte delle Alpi la situazione Fcas è complicata: un incontro sul futuro caccia che si sarebbe dovuto tenere in ottobre è stato rinviato per i troppi ostacoli insorti nella proprietà intellettuale del progetto. Se dovesse fallire, Berlino potrebbe essere colpita molto più duramente di Parigi. Questo perché la Francia, con Dassault, avrebbe la capacità tecnica di portare avanti da sola il programma, come del resto ha fatto 30 anni fa abbandonando l’Eurofighter per fare il Rafale. Ma l’impegno finanziario sarebbe enorme. Non a caso il Ceo di Dassault, Eric Trappier, ha insistito sul fatto che, se l’azienda non verrà nominata «leader indiscusso» del programma, lo Fcas potrebbe fallire. Il vantaggio su Airbus è evidente: Dassault potrebbe aggiornare ancora i Rafale passando dalla versione F5 a una possibile F6 e farli durare fino al 2060, ovvero due decenni dalla prevista entrata in servizio del nostro Gcap. Ma se Berlino dovesse abbandonare il progetto, non è scontata l’adesione al Gcap come partner industriale, mentre resterebbe un possibile cliente. Non a caso i tedeschi avrebbero già chiesto di poter assumere lo status di osservatori del programma. Senza Fcas anche la Spagna si troverebbe davanti decisioni difficili: in agosto Madrid aveva dichiarato che non avrebbe acquistato gli F-35 ma gli Eurofighter Typhoon e poi i caccia Fcas. Un mese dopo il primo ministro Pedro Sánchez espresse solidarietà alla Germania in relazione alla controversia tra Airbus e Dassault. Dove però hanno le idee chiare: sarebbe un suicidio industriale condividere la tecnologia e l’esperienza maturata con i Rafale, creata da zero con soldi francesi, impiegata con l’aviazione francese e già esportata con successo in India, Grecia ed Emirati arabi.
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Guido Crosetto (Ansa)
Tornando alla leva, «mi consente», aggiunge Crosetto, «di avere un bacino formato che, in caso di crisi o anche calamità naturali, sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari. Non c’è una sola soluzione, vanno cambiati anche i requisiti: per la parte combat, ad esempio, servono requisiti fisici diversi rispetto alla parte cyber. Si tratta di un cambio di regole epocale, che dobbiamo condividere con il Parlamento». Crosetto immagina in sostanza un bacino di «riservisti» pronti a intervenire in caso ovviamente di un conflitto, ma anche di catastrofi naturali o comunque situazioni di emergenza. Va precisato che, per procedere con questo disegno, occorre prima di tutto superare la legge 244 del 2012, che ha ridotto il personale militare delle forze armate da 190.000 a 150.000 unità e il personale civile da 30.000 a 20.000. «La 244 va buttata via», sottolinea per l’appunto Crosetto, «perché costruita in tempi diversi e vanno aumentate le forze armate, la qualità, utilizzando professionalità che si trovano nel mercato».
Il progetto di Crosetto sembra in contrasto con quanto proposto pochi giorni fa dal leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini: «Sulla leva», ha detto Salvini, «ci sono proposte della Lega ferme da anni, non per fare il militare come me nel '95. Io dico sei mesi per tutti, ragazzi e ragazze, non per imparare a sparare ma per il pronto soccorso, la protezione civile, il salvataggio in mare, lo spegnimento degli incendi, il volontariato e la donazione del sangue. Sei mesi dedicati alla comunità per tutte le ragazze e i ragazzi che siano una grande forma di educazione civica. Non lo farei volontario ma per tutti». Intanto, Crosetto lancia sul tavolo un altro tema: «Serve aumentare le forze armate professionali», dice il ministro della Difesa, «e in questo senso ho detto più volte che l’operazione Strade sicure andava lentamente riaffidata alle forze di polizia». Su questo punto è prevedibile un attrito con Salvini, considerato che la Lega ha più volte sottolineato di immaginare che le spese militari vadano anche in direzione della sicurezza interna. L’operazione Strade sicure è il più chiaro esempio dell’utilizzo delle forze armate per la sicurezza interna. Condotta dall’Esercito italiano ininterrottamente dal 4 agosto 2008, l’operazione Strade sicure viene messa in campo attraverso l’impiego di un contingente di personale militare delle Forze armate che agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza a difesa della collettività, in concorso alle Forze di Polizia, per il presidio del territorio e delle principali aree metropolitane e la vigilanza dei punti sensibili. Tale operazione, che coinvolge circa 6.600 militari, è, a tutt'oggi, l’impegno più oneroso della Forza armata in termini di uomini, mezzi e materiali.
Alle parole, come sempre, seguiranno i fatti: vedremo quale sarà il punto di equilibrio che verrà raggiunto nel centrodestra su questi aspetti. Sul versante delle opposizioni, il M5s chiede maggiore trasparenza: «Abbiamo sottoposto al ministro Crosetto un problema di democrazia e trasparenza», scrivono in una nota i capigruppo pentastellati nelle commissioni Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti e Bruno Marton, «il problema della segretezza dei target capacitivi concordati con la Nato sulla base dei quali la Difesa porta avanti la sua corsa al riarmo. Non è corretto che la Nato chieda al nostro Paese di spendere cifre folli senza che il Parlamento, che dovrebbe controllare queste spese, conosca quali siano le esigenze che motivano e guidano queste richieste. Il ministro ha risposto, in buona sostanza, che l’accesso a queste informazioni è impossibile e che quelle date dalla Difesa sono più che sufficienti. Non per noi».
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