
L'assassino della coppia di Lecce percepiva la loro felicità come «disponibile» perché condivisa. Il delitto nasce dalla frustrazione.Bravi ragazzi. Così sociali e delicati da uccidere chi non li guarda, non li vede, non li ama. Antonio, che a Lecce ha ammazzato a coltellate Eleonora e Daniele, è uno di loro. Sono ragazzi anche bene educati, giusto un filo ossessivi (come mostrano i bigliettini su quanto tempo lasciare alle torture, e quanto alle pulizie del sangue), che però a volte uccidono proprio perché a loro gli altri stanno a cuore moltissimo, troppo. Magari non lo danno troppo a vedere perché spesso sono timidi, a volte introversi; ma gli altri per loro sono tutto: ed è proprio questo il guaio. Perché senza lo sguardo di approvazione dell'altro si sentono meno di niente. Questi ragazzi sono i perfetti esecutori di ciò che il modello educativo dominante continuamente raccomanda e chiede: condivisione, comunione, scambio, partecipazione. L'ormai obbligatorio sharing, il condividere del politically correct anglosassone. Non anche: ascolto interiore, valorizzazione di sé, impegno personale, ricerca della propria strada e del proprio stile. No: empatia con il collettivo, condivisione. E se magari a un piccolo Io in crescita viene voglia di fare a modo suo, provare forse anche la solitudine, il desiderio di mettersi alla prova, viene messo subito a tacere: «non vorrai mica pensare con la tua testa, fare da solo!» E loro abbozzano, obbediscono alla norma consociativa. Continuano a cercare lo sguardo di approvazione degli altri, e se non arriva si deprimono e si arrabbiano. «Mi è montata la rabbia», come ha spiegato Antonio al pubblico ministero. Sintesi piuttosto sincera del processo di intossicazione che si sviluppa nel brodo di condivisione sociale e dipendenza che nella modernità sviluppata ha sostituito l'educazione. È qui che nasce l'invidia, da questo obbligo di guardare all'altro, e volere essere con lui e come lui. Di avere ciò che lui ha senza prenderti la responsabilità di guardare a te stesso, e chiederti cosa invece tu vorresti e potresti avere, e poi cercare di procurartelo. È questa la vera peste contemporanea; ben più pericolosa del Covid 19, anche se nessun governo se ne occupa. Anzi il «tenere il passo con gli altri», imitarli, viene promosso a regola di sviluppo e progresso. È essa, l'invidia, la protagonista (come ha detto lo psichiatra Claudio Mencacci) di questa e di tante altre vicende, ma anche del clima sociale intossicato in cui questi delitti si sviluppano. La nostra è una società dell'invidia, oggi promossa da sentimento scadente a motore dello sviluppo economico. In essa, come ha spiegato l'antropologo René Girard nei suoi lavori, si desidera (sotto la guida degli influencer) ciò che gli altri hanno: è la società del «desiderio mimetico», copiato dagli altri. Si va in analisi proprio per quello, quando il paziente, assediato dal malessere, scopre di non conoscere né i propri desideri né sé stesso, perché in fondo ha sempre copiato gli altri. L'invidia (fin dall'etimologia dell'originaria parola latina) è un guardare costantemente verso l'altro e desiderare ciò che lui ha. Però vivere le vite degli altri non è possibile. E così l'Io (la coscienza individuale) si svuota in questo sguardo desiderante ma alienato, e perde ogni energia positiva mentre la frustrazione rende ora la persona aggressiva, verso di sé e/o verso gli altri. Antonio, l'assassino dei due fidanzati di Lecce ha guardato così intensamente la «coppia felice» di Eleonora e Daniele, coi loro istanti smaglianti condivisi all'istante su Facebook (come ogni coppia felice e felicemente socializzata deve fare), che ha finito col credere di essere loro. Vivendo quell'«identificazione proiettiva» così ben descritta da Melanie Klein nelle sue famose Lezioni sulla tecnica, (finalmente tradotte in italiano e ora pubblicate dall'editore Cortina). Per qualche istante Antonio ha visto realizzato in quella coppia il suo ideale mai realizzato di felicità. Ma Daniele non era il suo analista e, siccome aveva una sua personale relazione con i propri desideri, ha messo fuori Antonio e si è tenuto la casa e Eleonora tutti per sé. Non pensava minimamente di firmare in quel momento la sua condanna a morte. Ma sbagliava, Daniele, anche lui figlio di questo nostro tempo malato e delle sue stereotipie e superficialità.Perché la condivisione in realtà ha molti più rischi di quanto la sua retorica tenda a far credere. Fra i giovani, oggi, raramente l'«altro» è una persona davvero libera e dotata di propri scopi e obiettivi, ma è quasi sempre qualcuno in cerca ancora delle identificazioni primarie (il papà, la mamma, la terra natale), senza le quali non si va da nessuna parte. Le cerca perché non le ha mai pienamente vissute, rare come sono e derise nei cartelli issati nelle piazze da senatori con trecce ossigenate. Aprire a questi smarriti la porta del tuo spazio, la casa o il lavoro, gli affetti, spalanca dunque loro speranze totalizzanti di casa, affetto, felicità. Che poi, se non confermate (perché in realtà quella è la tua donna, e casa tua) diventano disperazioni definitive. Come è accaduto a Antonio, che ha ucciso perché, espellendolo dalla loro «felicità», Daniele aveva decretato la sua disperazione. Per un ventunenne solo e preso nelle sue private ossessioni, una coppia più grande di te, uomo e donna ma (cosa rarissima) insieme, che si amano, si baciano, e mettono il loro stare insieme e i loro sorrisi e la loro bellezza su Facebook tra le congratulazioni degli amici sono, oggi, l'immagine della felicità. E quando tu poi lo metti fuori di casa, magari anche con gentilezza, lui è disperato e ti odia. E può ucciderti. Bisognerà allora che legislatori e educatori (non solo italiani), si facciano un ripassino sull'odio, altrimenti qui fra poco danno tutti di matto. Perché l'odio non è una manifestazione di perversione ma l'altra faccia di un amore, anche molto forte, che non trova la strada giusta per manifestarsi. Odio e amo, come cantava Catullo nelle sue odi: così è l'uomo. Se togliamo «e amo», e facciamo solo commissioni parlamentari sull'odio, criminalizziamo un sacco di amanti inquieti, e mettiamo le premesse per un guaio davvero grosso, tra poco.Occorre invece una riflessione e un lavoro serio per ritrovare gli oggetti d'amore autentici, da sempre presenti nell'anima e psiche umana, e pubblicamente onorarli e presentarli ai giovani perché riescano a trovarli e conquistarli dentro di sé e nella propria vita, senza copiarli dagli altri identificandosi con loro. Non è così complicato, sono i bisogni umani di sempre: l'amore, la conquista dell'altro, la terra natale, il Signore. E nell'inconscio sono ancora lì: tutti, e fortissimi. Senza di loro, nessuna Comunità può durare. E allora finisce a coltellate.
Mattia Furlani (Ansa)
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