2020-08-15
In politica estera Trump ha stracciato Obama
La mediazione tra Israele ed Emirati Arabi cade a fagiolo per le presidenziali però è un successo diplomatico incontestabile. Ora possibile effetto calamita su Bahrein e Oman, in chiave anti iraniana. Il Nobel per la pace è andato al presidente sbagliato.Quando nel 2002 Jimmy Carter venne insignito del Nobel per la pace, tra le motivazioni fu citato il fatto che, da presidente, avesse mediato gli accordi di Camp David tra Israele ed Egitto nel 1978. Una situazione in buona parte analoga a quella dello scorso giovedì, quando è stata annunciata un'intesa tra Israele ed Emirati Arabi Uniti per la normalizzazione delle loro relazioni diplomatiche, raggiunta grazie alla mediazione di Donald Trump. Mentre il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha sospeso l'annessione di parti della Cisgiordania, gli Emirati si avviano ad essere il terzo Paese del mondo arabo, dopo Giordania ed Egitto, ad avere rapporti con Israele. L'Autorità nazionale palestinese ha bocciato l'accordo e sono scoppiate proteste a Gaza e a Gerusalemme Est. Tutto questo, mentre l'Italia si è mostrata maggiormente ottimista: la Farnesina ha parlato di «importante passo». Il risultato per la Casa Bianca è di assoluto rilievo. In termini di politica interna, il presidente - che ieri ha dovuto affrontare il ricovero in ospedale del fratello minore Robert, in gravi condizioni - aveva bisogno di un successo diplomatico da presentare come un trofeo in campagna elettorale (anche se il suo rivale, Joe Biden, ha tentato di attribuire i meriti del «passo storico» all'amministrazione Obama). Dall'altra parte, si va delineando una strategia internazionale abbastanza definita: la Casa Bianca spera infatti che, molto presto, altri Paesi arabi possano seguire le orme di Abu Dhabi. Su questo fronte, è possibile che un simile passo venga a breve intrapreso da Bahrein e Oman. Tutto questo, sebbene il vero obiettivo di Trump sia quello di arrivare a una distensione tra Israele ed Arabia Saudita. Un obiettivo difficile da raggiungere, ma non impossibile. Non solo per l'ascendente che il presidente americano ha sul principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman. Ma anche perché il ruolo di campione della causa palestinese è ormai conteso a Riad, oltre che dall'Iran, anche dalla Turchia. Se Teheran ha - guarda caso - definito l'accordo emiratino un «atto di idiozia», Ankara ha minacciato una crisi diplomatica con Abu Dhabi, accusandola di tradimento. La Casa Bianca potrebbe quindi cercare di far leva sulle preesistenti tensioni tra Arabia Saudita e Turchia, arrivando così a un rimescolamento dello scacchiere mediorientale che possa indebolire Erdogan e isolare gli ayatollah. Uno scenario che mostra come - al netto di errori e battute d'arresto - la politica mediorientale di Trump non sia quel guazzabuglio infernale che molti dipingono. Barack Obama fu insignito del Premio Nobel per la Pace nel 2009, appena pochi mesi dopo essere entrato in carica, per «aver creato un nuovo clima nella politica internazionale». Effettivamente, da senatore dell'Illinois, aveva fatto campagna elettorale a favore di un ritiro celere dall'Iraq e contro le costose guerre americane in giro per il mondo. Peccato che, una volta in carica, ritirò le truppe dall'Iraq in base al termine già fissato da George W. Bush e che nel 2011 si lasciò convincere da Hillary Clinton ad approvare - senza alcun voto del Congresso - lo sciagurato intervento bellico in Libia contro Gheddafi: intervento che lui stesso definì anni dopo un errore. Trump, dal canto suo, in questi quattro anni ha innanzitutto mantenuto fede alla promessa di non far impelagare gli Stati Uniti in una nuova «guerra senza fine», scontrandosi per questo spesso con i falchi della sua stessa amministrazione. Ha inferto poi un colpo al terrorismo islamista, uccidendo a ottobre al Baghdadi (notizia che la stampa ha stranamente accolto con meno favore di quanto accadde nel 2011 con l'eliminazione di bin Laden). Senza poi dimenticare la decisa avversione all'islam politico, che l'inquilino della Casa Bianca sta cercando di portare avanti con l'aiuto di Riad e del Cairo: quell'Islam politico che - di contro -Obama aveva spalleggiato ai tempi delle primavere arabe. Con l'uccisione di Soleimani, l'attuale presidente ha inoltre ristabilito la deterrenza verso l'Iran, proteggendo l'ambasciata americana a Baghdad e scongiurando un nuovo «caso Bengasi». In tutto questo, la sua strategia di massima pressione verso Teheran (di cui l'accordo emiratino è parte integrante) prosegue non - come dice qualcuno - per arrivare a un cambio di regime, ma per avviare una radicale rinegoziazione dell'accordo sul nucleare, frettolosamente siglato da Obama nel 2015. Una strategia i cui frutti potrebbero manifestarsi in un eventuale secondo mandato di Trump, visto che l'Iran sta al momento tenendo duro, sperando - come evidenziato dal controspionaggio americano - in una vittoria di Biden. L'attuale presidente quindi non è un guerrafondaio e sta cercando di disinnescare alcune fonti di instabilità, disseminate in Medio Oriente dai suoi predecessori. Ma state tranquilli: a Trump il Nobel per la Pace tanto non lo daranno mai.