2024-10-18
Ilva, altro sequestro ma almeno non si ferma
Lo stabilimento Ilva di Taranto (Imagoeconomica)
Il gip ha emesso un nuovo decreto per gli impianti dell’area a caldo. Lo stabilimento potrà comunque proseguire le sue attività grazie ai decreti del governo. Intanto continua il processo di privatizzazione: attese per fine novembre le offerte vincolanti.«È una catastrofe giudiziaria senza precedenti». Michelone Emiliano, almeno stavolta, c’ha visto giustissimo. Il governatore pugliese, ex pubblico ministero d’assalto, aveva accolto così la ferale notizia sul processo all’Ilva, spostato da Taranto a Potenza. Insomma, 12 anni dopo i rutilanti arresti si ricomincia. Il tonitruante fascicolo «Ambiente svenduto» finisce in Lucania. Del resto, cosa volete sia? L’acciaieria più grande d’Europa. La magistratura, da un’abbondante decade, ne dispone cervelloticamente. E ora si consuma il primo atto del nuovo procedimento sui presunti disastri ambientali e i danni alla salute causati dalle emissioni, mentre lo stabilimento era della famiglia Riva.Il giudice potentino, Ida Iura, ordina dunque il sequestro dell’impianto, che però rimane operativo. Il decreto segue appunto la trasmissione degli atti dalla Corte d’appello di Taranto, che il 13 settembre scorso ha annullato le condanne di 37 imputati e tre società. Ma la produzione, grazie ai vari decreti Salva Ilva, continuerà. «È evidente», scrive il gip lucano, «che l’utilizzo criminale dello stabilimento a fini di profitto, in spregio persino agli accordi presi per ridurre l’impatto mortale delle lavorazioni, non può che essere arrestato sottraendo la disponibilità delle aree in cui avvengono le lavorazioni che hanno determinato la compromissione dell’ambiente, della salute dei lavoratori e della popolazione residente». Il primo provvedimento fu disposto da un giudice tarantino: vennero sequestrati gli impianti dell’area a caldo e finì ai domiciliari, tra gli altri, anche il patron, Emilio Riva. Era il 26 luglio 2012. Adesso il tribunale pugliese dice però che bisogna ripartire da capo: in quel di Potenza. Certo, tra il lusco e il brusco, c’è voluto un po’ a far chiarezza: appena 12 anni. Intanto, l’acciaieria è stata distrutta. Ma abbiate fiducia. C’è un nuovo inizio. Calma e gesso. Urgono nuove indagini su fatti ormai consunti. Poi, s’attende il primo grado. Che sarà seguito dall’appello. Infine, se si procede come previsto, si giungerà placidamente alla Cassazione. Di questo passo, per arrivare a sentenza definitiva ci vorrà qualche decade. Sempre che non spuntino fuori altri decisivi intoppi. Nel frattempo, ovviamente, sarà tutto prescritto. Che volete farci? La giustizia italiana assomiglia un po’ alla scatola di cioccolatini di Forrest Gump: «Non sai mai quello che ti capita». In primo grado, nel 2021, erano stati condannati proprietari, dirigenti, politici e tecnici dopo centinaia di udienze, deposizioni, documenti, perizie e controperizie. A vario titolo, gli imputati erano accusati dei reati più turpi: dall’associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale fino all’omicidio colposo. Le pene furono esemplari: 22 e 20 anni ai fratelli Fabio e Nicola Riva. Fino ad arrivare ai 3 anni e mezzo inflitti all’ex presidente della Puglia, l’arciambientalista Nichi Vendola. Sentenza annullata, comunque. Tutto da rifare. Il governatore adesso è Michele Emiliano, un ex magistrato. Parla di «catastrofe giudiziaria», appunto. «Un processo durato anni che è stato cancellato da un errore». Questo: tre magistrati, tra cui due giudici onorari, erano stati ammessi come parte civile. Avevano chiesto condanne e indennizzi. Uno dei tre era anche riuscito a ottenere «il diritto al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali e anche la liquidazione di una somma di denaro a titolo di provvisionale». Insomma, non c’è stato il giusto processo. Se tra gli imputati o le parti danneggiate ci sono magistrati, si cambia giudice. Articolo 11 del codice di procedura penale. Elementare, Watson. Si riparte, allora. Tanto per cominciare: udienza preliminare, centinaia di testi, nuove consulenze. Si prospetterebbe persino un robusto danno erariale. Tutti a Potenza, dunque. La giudice dispone ora il sequestro dell’impianto, che però resta operativo. Una decisione che arriva il giorno dopo la visita del ministro delle Imprese, Adolfo Urso, giunto a Taranto per riaccendere, tra le vivaci polemiche degli ambientalisti, l’altoforno 1. Riavviare lo stabilimento, d’altronde, è l’unico modo per cercare di aumentare una produzione ormai ridottissima, dopo la fallimentare gestione dell’indiana ArcelorMittal. Urso annuncia pure che il governo eserciterà il golden power nella nuova privatizzazione dell’ex Ilva. Lo Stato non avrà alcuna partecipazione societaria. Definirà comunque investimenti, livelli occupazionali e sostenibilità ambientale per il futuro compratore. L’acciaio rimane strategico per l’Italia, viste anche infrastrutture e grandi opere previste nei prossimi anni. Al momento, sono 15 le manifestazioni di interesse. Entro la fine di novembre ci saranno poi le offerte vincolanti. E a febbraio del prossimo anno i commissari decideranno chi sarà il nuovo proprietario della storica acciaieria. Certo, resta l’incognita giudiziaria. E il gioco dell’oca, purtroppo, sembra appena ricominciato.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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