
Amato da Montezuma per le piume e la carne, impreziosì i banchetti rinascimentali e sfamò i primi pellegrini giunti in America. Oggi passa sottotraccia, trattato da cibo dietetico, quasi penitenziale. Invece ha mille virtù, come scoprì il cuoco di Pio IV e Pio V.La sua storia è una sorta di ossimoro. A partire dall'aspetto, imponente, con una varietà cromatica del piumaggio che, giustamente, ha attratto l'attenzione degli artisti nei secoli. Le sue carni erano prelibate e ricercate e andavano a impreziosire, con il loro tocco esotico, i banchetti della nobiltà rinascimentale, mentre invece il suo consumo, nell'era moderna, passa spesso sottotraccia, dai contorni quasi più penitenziali che salutistici, considerate le indubbie virtù dietetiche. Eppure il tacchino merita una riscossa perché, andandone a conoscere la storia e l'estrema ecletticità nel sapersi proporre in tavola, le sue carni vanno mangiate con gustosa curiosità. È l'unico prodotto animale giunto in Europa da oltre Atlantico. Veniva già allevato ai tempi del re azteco Montezuma, apprezzato non solo per la carne, ma anche per il piumaggio, quale elemento ornamentale utile anche per la confezione delle frecce. In nord America, nel 1621, venne in soccorso alimentare, segnalato dai nativi wampanoag, ai pellegrini giunti con la Mayflower che inizialmente trovarono grosse difficoltà a replicare coltivazioni e allevamenti importati dall'Europa. Fu così che il tacchino divenne il simbolo della festa del ringraziamento, voluta inizialmente da George Washington nel 1789 e resa poi stabile in calendario da Abramo Lincoln. Con la sua pezzatura media di cinque chilogrammi era capace di soddisfare gli appetiti festivi di un'intera famiglia anche se Benjamin Franklin, tra i padri fondatori degli Usa, gli propose quale antagonista l'aquila, considerandola più yankee (ma sicuramente meno commestibile). In Europa giunse dopo la scoperta delle Americhe con Cristoforo Colombo che, nel 1511, dopo averlo assaggiato quale omaggio dai nativi americani, lo chiamò gallinas de la tierra. Mai pennuto giunse più gradito, tanto che ben presto il vescovo di Valencia ordinò che ogni veliero che tornava dal nuovo mondo imbarcasse un certo numero di tacchini da riproduzione. Il resto fu un crescendo esponenziale. Nel 1520 il vescovo di Hispaniola, nelle Antille, invia al cardinale Lorenzo Pucci, a Roma, una coppia di tacchini. Ben presto diventano un regalo prezioso che i potenti del tempo si scambiavano a vicenda. Un tocco esotico per popolare ville e parchi con questi ambasciatori del nuovo mondo. Prima che sulle tavole dei banchetti regali diventano protagonisti nell'arte. Nel 1522 Giovanni da Udine dipinge un tacchino tra le varie decorazioni di palazzo Madama, allora di proprietà del cardinale Medici. Un altro Medici, Cosimo I, si fa realizzare da Agnolo Bronzino un arazzo con un tacchino protagonista, quale simbolo di abbondanza. L'anno dopo commissiona al Giambologna un altro tacchino, ma stavolta in bronzo, per la sua villa a Firenze. Nel 1570 troviamo il tacchino a Venezia, mentre entra nell'arca di Noè, in un dipinto di Jacopo da Bassano. Lo incrocia pure papa Gregorio XII mentre passeggia in Vaticano, dipinto assieme ad altri volatili. Pochi anni dopo il suo successore, Gregorio XIII, viene omaggiato di dodici tacchini da Carlo IX, re di Francia. Ma oramai i tempi sono maturi per entrare anche nei manuali di cucina. Ne parla il bolognese Vincenzo Tanara, proponendone le interiora lessate e poi passate allo spiedo, come anche al forno, disossato e ripieno con carne piccante, uva passa, pinoli e spezie. Bartolomeo Scappi, maestro delle cucine vaticane con Pio IV e Pio V, lo valorizza allo spiedo, con capperi e zucchero. Al Sud invece troviamo Antonio Corrado che nel suo Cuoco Galante dedica un intero capitolo al gallo d'India. Era il tempo in cui si credeva ancora che Cristoforo Colombo avesse scoperto le Indie Occidentali, tanto che il maestoso pennuto viene chiamato pavones de las Indias dagli spagnoli; coq d'Inde dai francesi, ma turkey invece dagli inglesi, per il semplice fatto che una nave commerciale turca, carica di spezie, fermatasi a fare scalo a Siviglia, ne caricò alcuni esemplari che, nel 1524, giunsero alla corte di re Enrico VII. In Italia passiamo dal pirillo campano al pito piemontese, come il bibbin ligure o il dindio friulano. Il termine tacchino arriverà dopo, una versione onomatopeica del «toc, toc», il verso con cui mamma tacchina richiamava i suoi piccoli, mentre invece i tacchini, tra loro, goglottano. È un animale dotato di una notevole elasticità genetica tanto che, solo in Italia, si erano sviluppate velocemente varie decine di varianti, con i piumaggi dalle tavolozze cromatiche più diverse. Dalle corti patrizie ai cortili rurali il passo fu breve. Già nel 1764, al mercato di Trento, le sue carni costano la metà di quelle del vitello e più o meno come quelle dell'anatra. Nelle aie il suo allevamento si diffonde in fretta. Animale docile, di poche pretese, dal fare gregario che ne facilita l'allevamento. Viene tenuto come varietà di riguardo da riservare per le occasioni speciali rispetto alle più comuni galline. È curioso notare come, con la diffusione dell'allevamento intensivo, le sue carni si siano trasformate da rosse a bianche, con un evidente ritorno delle sue proprietà dietetiche. È a basso contenuto di colesterolo. Ricco di minerali, più facilmente assimilabili rispetto a quelli vegetali. Tra questi il selenio, essenziale per una sana funzione tiroidea e del sistema immunitario. Ha più proteine del pollo ed è più facile da digerire grazie al fatto che le sue carni hanno meno fibre muscolari, e quindi più gradevoli ai bambini «pigri» e agli anziani con qualche problema di masticazione. La grande svolta avviene negli anni trenta quando l'inglese Jesse Throsse, emigrando in Canada, portò con sé alcuni tacchini. Li ibridò con quelli americani e ne venne fuori una discendenza dalla stazza doppia, con i muscoli del petto e delle cosce di grande volume. Con la moderna avicoltura l'allevamento si svolge a ciclo continuo posto che, un tempo, mamma tacchina figliava una quindicina di pulcini una sola volta l'anno. Oramai il nativo tacchino che conobbero i pellegrini della Mayflower, che viveva nei boschi, è diventato una specie protetta, completamento diverso dai suoi attuali eredi. Le carni sono estremamente versatili, tanto che le si può utilizzare in millanta modi. Come cotoletta, ma anche come arrosto, involtini (classicamente ripieni di formaggio e verdure poi arrotolate con la pancetta). A farcire i panini degli sportivi, dieteticamente più leggeri fino a finire insaccati, come ad esempio in versione bresaola. Curiosi gli involtini alla perugina. Rotolini di manzo farciti di tacchino e prosciutto, avvolti nel retino di maiale. Oppure la zuppetta di San Severo, nel foggiano, un piatto natalizio la cui preparazione ricorda quella delle lasagne in cui si alternano strati di pane, tacchino e caciocavallo, il tutto inzuppato nel brodo. Una sorta di pancotto dei ricchi di cui esisteva la variante più semplice, senza passare al forno, con il pane sbriciolato, ovvero la zuppetta sgualarète. E poi ancora bocconcini in salsa sabauda, piatto in voga nelle cucine dei Savoia, con quadratini di tacchino infarinati e fritti, con una salsa di acciuga e aromi vari. Nel Veneto ecco il dindo alla schiavona farcito di sedano, prugne e castagne, rivestito di pancetta e passato al forno oppure il tacchino alla canzanese, nel teramano. Cosce fatte rosolare, disossate, spezzettate e messe a frollare in frigo per una notte. Il tutto poi abbellito con qualche chicco di melograno. Negli anni dell'autarchia ecco il tacchino alla Petronilla, farcito di castagne, prugne e pinoli e le sue frattaglie. Insomma non c'è che l'imbarazzo della scelta, volendo staccarsi dal luogo comune che lo vuole triste ripiego salutista delle più pregiate carni bovine o suine, senza raggiungere l'iperbole golosa con cui lo ha consegnato alla storia un certo Gioacchino Rossini: «Per mangiare un tacchino dobbiamo essere in due. Io e il tacchino».
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Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
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Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.