2019-01-06
Il sogno della globalizzazione è finito. Acceca soltanto chi ne è già schiavo
L'idea di un mondo piatto e indifferenziato non conquista più a nessuno. I popoli rivogliono la loro identità e non credono alle istituzioni sovranazionali. Mentre le persone scoprono che vivere connessi è una fregatura.Global addio. È quasi certo che il 2019 per la globalizzazione sarà anche peggio degli anni che l'hanno immediatamente preceduto. Non solo e non tanto per il ritorno delle tariffe doganali inaugurato da Donald Trump, che ormai serpeggia in tutto il mondo. Ma per un fenomeno più profondo, che forse all'origine anche di quelle misure economiche. Visto in modo più superficiale, si potrebbe dire che «essere global» non va più. Il fatto è che, già da un po', la gente percepisce che sul piano della qualità della vita c'è ben poco da guadagnarci, mentre sono ormai chiari molti dei problemi legati all'idea e alle pratiche della globalizzazione. La sua propaganda ha il fiato corto e i giorni contati. La gente comune che fino a poco tempo fa sembrava ancora affascinata dalla prospettiva del mondo globalizzato, oggi ha mangiato la foglia, non è più interessata. Tanto che uno dei più affermati protagonisti del mondo global, il supermanager Vittorio Colao, già a capo di Rcs e di grandi imprese multinazionali (ultima Vodafone, da cui se ne è andato da poco), ha dichiarato nell'intervista di fine anno a Paolo Bricco, sul Sole 24 Ore, quotidiano della Confindustria: «La globalizzazione non ha funzionato. Ha reso il mondo piatto e indifferenziato». Creando così gravi «problemi culturali e identitari». Che Colao sia una persona intelligente e molto preparata è noto da sempre; e anche che non abbia peli sulla lingua, a differenza dei molti commentatori tremanti. Tuttavia una dichiarazione così precisa e puntuale sulla globalizzazione ha il valore di un epitaffio. Il problema, infatti, è proprio questo: un mondo piatto e indifferenziato non interessa a nessuno. Non interessa ai popoli, che si sentono privati della propria identità. E non è poco, anche se il gergo politically correct ha addirittura cercato negli ultimi anni di far sparire la parola identità da discorsi, lezioni, corsi universitari e libri. Ma il conformismo globale non interessa neppure alle grandi imprese, che per vivere e prosperare hanno bisogno di nuove idee, per le quali sono indispensabili le differenze: di modi di essere, di sentire, di parlare, di comportarsi. È insomma indispensabile la libertà, non l'uniformità depressa dei pensieri più o meno unici. Come dice Colao spiegando la sua filosofia d'impresa: «valori internazionali», (che ti fanno vendere in tutto il mondo), e «radici locali» senza le quali nessun albero o impresa può crescere e vivere. Altrimenti non c'è sviluppo, ma crisi permanente.Poco prima di quest'intervista erano stati pubblicati ( sul Corriere dell'Alto Adige) dati molto lontani dall'industria e dalla finanza internazionale, ma di una piccola e significativa realtà regionale: il Trentino. Regione italiana nel gruppo di testa quanto a qualità e durata della vita, funzionamento delle istituzioni, livello di soddisfazione. Questa ricerca dell'Istituto di statistica di Trento (Ispat), riguarda «Il senso di appartenenza territoriale»: a quali enti o realtà territoriali i trentini si sentano maggiormente legati tra frazione, valle, Trentino, Italia, Unione europea. Nell'ultimo sondaggio, rispetto ai precedenti (del 2004 e 2012) la popolazione trentina si è dichiarata più vicina alla realtà più piccola: la frazione del paese. Mentre è aumentata la distanza dalla realtà più lontana: l'Unione europea. È cresciuta anche la fiducia verso le altre realtà piccole: la valle, e la Provincia, che arriva al voto medio di 8,5; mentre lo Stato non raggiunge neppure la sufficienza (5,4), come del resto l'Unione europea (5,7). Sono dati locali di una delle realtà più avanzate d'Italia, che confermano puntualmente il «sentiment», l'opinione del resto del mondo sviluppato: i cittadini non si sentono più adeguatamente rappresentati dalle grandi istituzioni sovranazionali, troppo lontane e dominate da interessi diversi. Anche gli Stati, però, se vogliono mantenere il consenso devono avvicinarsi alle realtà locali. È poi questa la principale motivazione della richiesta di autonomia, che deve essere realizzata al più presto nelle tre regioni che l'hanno reclamata, ma anche nelle altre, se non si vuole andare incontro ai gravi problemi che affliggono gli altri Paesi europei ancora centralizzati, dalla Spagna al Belgio, alla Francia. La storia non procede in modo lineare, e ormai da anni siamo nel ciclo in cui il senso di appartenenza è ritornato alla realtà locale, quella che meglio rappresenta le esigenze vitali, affettive e di salute dell'individuo: la sua identità. Del resto già verso la fine del secolo scorso un filosofo della scienza come Paul Feyerabend aveva riconosciuto che «la conoscenza non è universale, è un prodotto locale destinato a soddisfare bisogni locali e risolvere problemi locali». L'apertura internazionale è interessante, ma il dogmatismo globale, ideologico, è solo stupido.Tutto ciò ha molto a che fare con ciò che in questo momento più preoccupa le grandi multinazionali che hanno puntato moltissimo su Internet e la diffusione globale della digitalizzazione e dei prodotti e stili di vita a essa collegati: il forte rallentamento nella diffusione della Rete. Nessuno se lo aspettava, ma il fenomeno sta togliendo il sonno ai giganti globali dell'elettronica (che hanno visto una brusca riduzione degli utili, come Apple, con conseguenti cadute del titolo in borsa). Anche le istituzioni politiche nazionali e internazionali contavano però che già entro il 2017 almeno la metà della popolazione mondiale sarebbe stata connessa. Invece non è ancora avvenuto adesso, e non si è del tutto sicuri che lo sia entro quest'anno. L'incremento nei nuovi abbonamenti è crollato dal 19% del 2007 a -6% dell'anno scorso. Insomma le persone non smaniano più per essere «connessi». Certo, c'è anche un problema di soldi: chi aveva i soldi si è già comprato i suoi smartphone e altri strumenti elettronici, gli altri sono troppo poveri. Inoltre, a non essere ancora connessa è gran parte dell'Africa, dove i diversi strumenti per collegarsi costano molto di più che nel resto del mondo, e la possibilità di entrare nel Web è dunque ristretta alle esigue fasce ricche delle popolazione. Tutto vero, ma sembra che non spieghi l'intero rallentamento. Molti proprio non vogliono, e continuano nelle precedenti comunicazioni «faccia a faccia»: si incontrano e si parlano. In società tradizionali, ma coese e funzionanti, gli incontri collettivi e comunitari continuano ad avvenire e funzionano, mentre tendono a venire svuotati dall'uso di Internet finora fatto in Occidente. C'è insomma anche una crisi dello stile e dei contenuti con cui finora la rete Internet ( e il mondo «global») si è in gran parte identificato e presentato al resto del mondo, che non pare così interessante a molti di quelli che non sono ancora stabilmente «connessi». Secondo un sondaggio di Pew research, ad esempio, il 75% degli intervistati africani ritiene Internet positivo per il livello complessivo di educazione, ma solo il 45% ritiene che Internet abbia un impatto positivo sulla moralità di chi lo frequenta. Le riserve sono molte, e motivate. Questa è del resto la ragione per cui la Cina impedisce di collegarsi ai programmi Internet occidentali, e ne fornisce altri. Ritroviamo qui il problemone: la globalità spersonalizzante non è interessante per tutti, tranne per chi ne è già diventato dipendente. È in fase di declino, non di sviluppo. E le culture locali avanzate, come la piccola realtà trentina lo registrano puntualmente. È per questo che le autonomie non sono uno strumento arretrato o dispersivo, ma la soluzione più avanzata per avvicinare lo Stato alle popolazioni locali e ai loro bisogni e potenziarne le risorse. Alla fine, questo è l'aspetto più interessante della modernità. Il conformista segna qualche punto. Ma la partita la perde sempre, perché il gioco nel frattempo è cambiato.