
Padrone indiscusso delle spiagge, garanzia di freschezza e alimento dagli utilizzi infiniti. Ingrediente per dolcetti e merendine, base per cocktail come la Piña colada e tanto altro.«Cocco bello, cocco fresco!» gridavano un tempo i venditori ambulanti di pezzi di cocco in acqua e ghiaccio sulle spiagge per offrire rinfresco ai bagnanti: se oggi capita di vederli e sentirli, è davvero un evento eccezionale, come se arrivasse l’arrotino sotto casa gridando, in quel megafono che al venditore di cocco fresco mancava, «è arrivato l’arrotino!». Un tempo, queste figure erano di prassi, oggi sono l’eccezione. Ciò nonostante il cocco, che da noi non è molto usato se non in qualche dolce e dolcetto, continua ad essere associato all’estate come rinfrescante multiforme. C’è il latte di cocco nel bel cocktail Piña colada che, insieme col succo di ananas, crea un connubio tropicale perfetto per abbassare la temperatura e tirare un momento su la glicemia mentre combattiamo l’afa, in primo luogo in versione analcolica, che si chiama Virgin Colada. C’è il Bounty, lo snack refrigerato di farina di cocco e latte di cocco ricoperto di cioccolato che dagli anni Ottanta impazza nei nostri frigoriferi e nei nostri distributori automatici. C’è, e questa per noi italiani è un’acquisizione molto recente, l’acqua di cocco, che in poco tempo è diventata un’acqua «potenziata» da molti preferita all’acqua vera e propria perché, trattandosi del liquido che si trova all’interno della noce di cocco, essa contiene naturalmente dosi più elevate di sali minerali. C’è l’acqua di cocco che troviamo quando comperiamo una noce di cocco, la apriamo e se la noce non è troppo vecchia ce ne troviamo ancora un po’ dentro. Poi c’è l’acqua di cocco prodotta per il mercato prima esotico e ora anche occidentale, prelevata da cocco raccolto appositamente nel momento in cui ne contiene di più e imbottigliata. L’acqua di cocco infatti si preleva dalle noci di cocco giovani, ancora appena acerbe, età ideale sette mesi, di colore verde, colore che invece è sul marrone quando, qualche mese dopo, cadono al suolo. Più il cocco è giovane, più acqua c’è: in una noce secondo l’età e le dimensioni, che dipendono anche dalla varietà, se ne possono trovare dai 200 ai 900 ml, ma di solito siamo sui 300-400 ml. L’acqua di cocco, seppure esaltata poiché di moda, merita, essendo una bevanda isotonica naturale. I cosiddetti sport drink si catalogano in base alla loro tonicità, isotoniche sono le bevande con concentrazione salina e zuccherina simile a quella del sangue; ipotoniche sono le bevande con concentrazione salina e zuccherina minore di quella del sangue; ipertoniche sono le bevande con concentrazione salina e zuccherina maggiore a quella del sangue. Queste bevande sono dette sportive perché atte a reidratare e remineralizzare l’organismo dopo le sudate dell’attività sportiva e per lo stesso motivo sono utili anche in estate. Troverete l’acqua di cocco in confezione, come la spremuta di arancia, brick o bottiglia, oppure nel vero e proprio cocco, bello verde, come abbiamo detto, eventualmente privato della calotta superiore e con tanto di cannuccia pronta all’uso. Si tratta di una bevanda salutare, però non bisogna abusarne se si tende all’obesità, all’ipertrigliceridemia e all’iperglicemia, perché seppur minimo contiene un quantitativo di grassi (sono 0,2 grammi ma non colesterolo), carboidrati (3,7 grammi di carboidrati di cui zuccheri) e calorie, 20 calorie ogni 100 grammi, che nell’acqua normale non ci sono. Anche i livelli di sali minerali, in particolare potassio e sodio in rapporto 2:1 come da norma salutare, calcio e magnesio e vitamine sono minimi. Quindi non liquidiamo quest’acqua come identica a quella normale, ma non consideriamola nemmeno la bibita miracolosa che non è. Il nome botanico della pianta del cocco o meglio palma da cocco è Cocos nucifera. Cocos perché deriva dalla parola portoghese coco che vuol dire testa. La palma da cocco appartiene alla famiglia delle Arecacee, la stessa della palma da dattero e delle palme da cui si ottiene l’olio di palma. La specie nucifera è l’unica specie del suo genere, il Cocos, e in fondo il suo frutto, la noce di cocco, copre così tante forme che la cosa non sorprende (le varietà sono invece circa ottante, suddivise principalmente in nane e alte). Penzolante da tronchi che vanno dai 20 ai 40 metri di altrezza, la noce di cocco è multiforme anche dal punto di vista della sua fisionomia. La noce di cocco è una drupa, come, per esempio, la pesca, che arriva a pesare anche un chilo. Grandi sono anche le foglie, lunghe tra i 4-5 metri, paripennate, che vuol dire che si diramano lungo lo stelo in maniera paritaria da una parte e dall’altra, e i gruppi di fiori: piccoli e giallini, formano però grosse infiorescenze che fioriscono continuamente, ci sono pochi fiori femminili e molti maschili, perché la palma da cocco non è dioica come altre, ma monoica a fiori diclini e l’impollinazione è mista, sia anemofila (il polline è trasportato dal vento), sia entomofila (a fare «da Cupido» sono gli insetti). Avvenuta l’impollinazione, il fiore diventa frutto dopo circa due settimane e cresce per i mesi successivi, massimo 12-13. La drupa di cocco è molto particolare. La parte esterna, l’esocarpo, è praticamente una buccia verdastro-marroncina che copre una parte mediana, il mesocarpo, sorta di strato intermedio fibroso, che a sua volta copre un endocarpo legnoso e molto duro che è diviso in tre parti, il guscio, appunto tipicamente legnoso delle drupe, e poi il seme vero e proprio, composto da due parti, l’endosperma, una polpa bianca, che racchiude il suo nutrimento, l’endosperma liquido, la famosa acqua di cocco. Nel nostro emisfero è difficile trovare cocchi freschi con tutto l’esocarpo, a meno che non siano quelli con un pezzo di calotta staccata e la cannuccia che troviamo al supermercato per berci l’acqua di cocco fresca come la bevono nei paesi tropicali. Mentre è facile, o almeno più facile, trovare la noce di cocco sbucciata, cioè privata di esocarpo e mesocarpo, col guscio duro durissimo dell’endocarpo come prima superficie che vediamo e tocchiamo e che per noi italiani, abituati a vederla sempre così, è il guscio della noce di cocco, non il guscio del suo seme. In Occidente, il cocco è sempre arrivato così, privo di buccia e mesocarpo. Oggi che il mercato dei prodotti del cocco si è espanso e che i trasporti iperveloci e la globalizzazione rendono normalissima la possibilità di esportare un prodotto fresco a decine e finanche centinaia di migliaia di chilometri di distanza poco dopo averlo prelevato dall’albero, ci capita di vedere queste noci di cocco complete concepite come mero «bicchiere naturale» dell’acqua di cocco. Ma se quest’ultima non si fosse procurata la nomea di superfood tropicale, probabilmente non sarebbero mai arrivate. Mentre invece è normale trovarle così laddove crescono. Il mesocarpo fibroso, fatto di fibre legnose però leggere, serve alla noce anche a galleggiare in acqua. Pensate, questa capacità di galleggiamento, finita la noce di cocco per caso nell’acqua del mare e poi trasportata dalle correnti marine, è uno degli elementi che ha permesso l’espansione della palma da cocco da una parte all’altra di un pezzo di mondo: la noce di cocco è stata in grado (ed è in grado) di compiere percorsi lunghi, anche di migliaia e migliaia di chilometri marini, toccando poi terra con un seme ancora intonso e fertile, poiché nutrito dall’acqua interna e in un certo senso «coibentato», quindi protetto dal caldo e dal freddo, da esocarpo e mesocarpo. Queste stesse sue caratteristiche si sfruttano nel commercio contemporaneo e la noce di cocco ha una shelf life molto diversa da quella, per dire, di una fragola. Viaggia in aereo, adesso, ma sempre sfruttando quella naturale resistenza che le ha permesso di espandersi in gran parte dell’Oriente. Anche il mesocarpo del cocco è commercializzato: è la fibra vegetale commercialmente detta fibra di cocco o fibra coir (sigla Cc), che non solo resiste all’acqua, resiste anche all’acqua salata e perciò ci si realizzano dai tappeti ai cappelli. Insomma, il frutto del cocco è una specie di macchina da guerra per la propagazione della sua specie, e il seme riesce a resistere a lungo, una volta caduto dalla pianta, protetto all’esterno dal mesocarpo - e esocarpo - e nutrito all’interno dall’endosperma liquido. La sua funzione, infatti, è proprio quella di mantenere vivo questo grosso seme. Certo, l’acqua del cocco, che resta sterile finché il cocco non si apre, non dura in eterno. Capita, infatti, di trovare la noce di cocco per noi normale, cioè privata di esocarpo e mesocarpo, nei nostri supermercati con poca acqua dentro, certamente meno rispetto a quella che c’è in un bel cocco completo e verde: succede perché, nel frattempo, è stata assorbita dal seme. Sul legno dell’endocarpo ci sono i tre cosiddetti occhi, piccoli avallamenti tondi che si usano per perforare ed estrarre l’acqua, oltre che per intaccare la superficie dell’endocarpo e riuscire a staccarla dall’endosperma solido (per mangiarcelo). La noce di cocco fornisce cinque prodotti alimentari: l’acqua di cocco, che abbiamo già visto, e che a sua volta dà origine a pietanze da noi poco note ma altrove leggendarie, come la nata de coco, una gelatina di acqua di cocco fermentata molto popolare in Giappone, e nelle Filippine dove è nata. Poi, lo zucchero di cocco, che si ricava dalla linfa del fiore della palma da cocco. Poi, la polpa di cocco, dalla quale si ottengono anche gli altri due prodotti più diffusi, che sono il latte di cocco e l’olio di cocco. La polpa del cocco si chiama copra, è come abbiamo detto l’endosperma solido, è di colore bianco e di consistenza carnosa e si può usare sia fresca, sia essiccata. Il latte si ottiene in maniera artigianale frullando la polpa con l’acqua di cocco e altra acqua, se necessario, scaldata, poi lasciando riposare. Poi si mette tutto in un panno e premendo si separa la parte liquida, che avrà colore biancastro, perciò si definisce latte di cocco, dalla parte solida che si potrà sia consumare così, fresca, sia essiccare. Essiccata, è quella che chiamiamo farina di cocco, anche se sarebbe meglio chiamarlo cocco grattugiato o, come dicono alcuni, cocco rapé (cioè grattugiato in francese) perché ormai si trovano farine di cocco in senso letterale, ossia polpa di cocco macinata finissima. Il latte di cocco può avere vari livelli di densità, che dipendono dai grassi contenuti, quando è molto denso è chiamato crema di cocco. In ogni caso, il grasso contenuto dal latte salirà sempre in alto, fateci caso se e quando aprite una confezione o toglierete dal frigo il latte di cocco fatto da voi. Se volete ottenere un burro di cocco artigianale, che chiamiamo anche olio di cocco, vi basterà refrigerare il vostro latte di cocco e, tempo dodici ore, vedrete non solo salire in alto la parte più grassa, ma anche consolidarsi. Anche nella produzione industriale, l’olio di cocco si ottiene consolidando i grassi e degli aromi estratti dal latte di cocco o direttamente dalla copra, a freddo, pressando la polpa. L’olio di cocco non si usa soltanto nell’alimentazione, ma anche nella cosmesi. Non va usato al posto di altri burri od oli in via esclusiva, poiché contiene moltissimi grassi saturi (100 grammi di olio di cocco, 100 grammi di olio di cocco apportano circa 900 calorie e contengono 86,8 grammi di grassi saturi, 6,25 grammi di grassi monoinsaturi sotto forma di acido oleico, 1,6 grammi di grassi polinsaturi sotto forma di acido linoleico). Si chiama indifferentemente burro o olio perché in inverno si solidifica, in estate si liquefà. La polpa di cocco apporta 365 calorie ogni 100 grammi, con poche proteine (3 grammi), molti lipidi per lo più saturi (33,5 grammi), 15 grammi di carboidrati e 9 grammi di fibra e grazie all’acido laurico aiuta la digestione, il metabolismo e la produzione di colesterolo Hdl, cosiddetto «colesterolo buono».
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Oggi, a partire dalle 10.30, l’hotel Gallia di Milano ospiterà l’evento organizzato da La Verità per fare il punto sulle prospettive della transizione energetica. Una giornata di confronto che si potrà seguire anche in diretta streaming sul sito e sui canali social del giornale.
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Evento La Verità Lunedì 15 settembre 2025.pdf
Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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Il conservatore americano era aperto al dialogo con i progressisti, anche se sapeva che «per quelli come noi non ci sono spazi sicuri». La sua condanna a morte: si batteva contro ideologia woke, politicamente corretto, aborto e follie del gender.
Chi ha inventato il sistema di posizionamento globale GPS? D’accordo la Difesa Usa, ma quanto a persone, chi è stato il genio inventore?
Piergiorgio Odifreddi (Getty Images)
Piergiorgio Odifreddi frigna. Su Repubblica, giornale con cui collabora, il matematico e saggista spiega che lui non possiede pistole o fucili ed è contrario all’uso delle armi. Dopo aver detto durante una trasmissione tv che «sparare a Martin Luther King e sparare a un esponente Maga» come Charlie Kirk «non è la stessa cosa», parole che hanno giustamente fatto indignare il premier Giorgia Meloni («Vorrei chiedere a questo illustre professore se intende dire che ci sono persone a cui è legittimo sparare»), Odifreddi prova a metterci una pezza.