2025-09-15
Ecco le idee per cui hanno ucciso Kirk
Il conservatore americano era aperto al dialogo con i progressisti, anche se sapeva che «per quelli come noi non ci sono spazi sicuri». La sua condanna a morte: si batteva contro ideologia woke, politicamente corretto, aborto e follie del gender.Charlie Kirk era consapevole dei rischi che correva. E questo non significa che se la sia cercata, come suggerisce l’editorialista unico di sinistra nel tentativo di infangarne la memoria. Significa piuttosto che egli ha coraggiosamente affrontato il pericolo ed è morto per le sue idee. Idee che a volte esprimeva in modo molto diretto, talvolta ruvido, e che noi però dovremmo esaminare tenendo conto del contesto statunitense, del livello del dibattito da quelle parti e del tipo di retorica che va per la maggiore da una parte e dall’altra. Ovviamente dalle nostre parti ciò non avviene: si estrapolano parole prive di contesto, senza considerare dove e quando siano state pronunciate, o per rispondere a cosa. Il risultato è che le idee di Charlie Kirk in questi giorni sono state semplificate, mistificate e vilipese sui social e dai media. Illustri intellettuali come Stephen King hanno scritto ad esempio che Kirk si augurava la morte dei gay, e sono stati costretti a smentirsi pubblicamente. Ma se qualche affermazione estrema e falsa è stata rettificata, la gran parte delle bugie continua a circolare, e Charlie è ancora presentato come una sorta di suprematista bianco razzista e intollerante. In realtà, egli rientrava perfettamente nel sentiero culturale dei cristiani evangelici americani. Era un cristiano conservatore, prima cristiano e poi conservatore. Gran parte dei suoi libri, tra cui Time for a turning point e il bestseller The Maga doctrine, sono improntati a una robusta difesa del libero mercato e dello Stato minimo, secondo l’ordine di idee dei libertari americani e del Tea Party. Ma non sono certo gli appassionati sermoni a favore del capitalismo vecchio stile ad avergli guadagnato l’astio di quasi tutti gli attivisti progressisti d’America. Kirk era detestato dai suoi avversari soprattutto per ciò che diceva e scriveva riguardo alla cultura woke, alle pretese delle minoranze, all’aborto e alle battaglie gender. Era un «guerriero culturale» di destra, e questo gli è costato la vita. Sapeva di correre un pericolo e ne aveva ripetutamente parlato, sostenendo che non ci fossero luoghi sicuri per i conservatori, soprattutto nelle università americane. «Che ironia che tutte quelle lezioni sul disperato bisogno di spazi sicuri nei campus e sulla malvagità delle microaggressioni e dei discorsi offensivi provengano dalla sinistra», sosteneva. «È ironico perché i progressisti sono il più delle volte gli aggressori. I conservatori vengono umiliati, evitati, esclusi ed esiliati. Le micro e macro aggressioni contro i conservatori sono tollerate, se non applaudite. Ma non sono i conservatori a chiedere spazi sicuri e gli altri a proteggersi dall’essere feriti nei propri sentimenti. Rispetto ai progressisti, con quale frequenza i conservatori organizzano manifestazioni rumorose per impedire agli oratori progressisti di apparire nei campus? Con quale frequenza i conservatori molestano i progressisti nel tentativo di reclutare studenti per le loro cause? Con quale frequenza i conservatori affermano che la libertà di parola dei progressisti deve essere limitata perché è odiosa e offensiva? Con quale frequenza i conservatori marciano sugli uffici amministrativi per imporre la cancellazione degli oratori progressisti? Quanti conservatori chiedono spazi sicuri che sono essenzialmente camere di risonanza per... l’enfasi liberale? Quanto spesso? Non spesso, addirittura mai. I sedicenti progressisti sono quelli che stanno soffocando la libertà di parola e rendendo l’espressione di idee conservatrici un’impresa rischiosa, tradendo la cultura della libertà di parola che i liberal non molto tempo fa lodavano e difendevano aggressivamente. Quando si tratta di ambienti universitari ostili, è difficile trovarne uno che superi quelli che progressisti, liberali e clan di estrema sinistra stanno creando contro i conservatori». Rivolgendosi ai suoi sostenitori, aggiungeva: «Perché sono sempre gli attivisti di sinistra a lamentarsi, protestare, salire sui palchi e azionare gli allarmi antincendio, mentre noi conservatori restiamo in silenzio quando sentiamo cose con cui non siamo d’accordo?».Per lui, la libertà di parola era un valore assoluto. E detestava che fosse minacciata. Difenderla, spiegava, «non è un compito facile. I nostri Padri Fondatori lo sapevano bene mentre lottavano per trovare un modo migliore di governare rispetto, da un lato, alle monarchie, alle dittature e alle oligarchie europee. O, dall’altro, all’anarchia del sanguinoso Regno del Terrore che attanagliò la Francia dopo il fallimento così misero del suo esperimento con la democrazia. Trovare un equilibrio tra autoritarismo e anarchia è davvero difficile. Quindi, come può questa idea non essere in pericolo quando ai futuri leader americani viene insegnato che il comfort emotivo e fisico è più importante di un dibattito rigoroso, che evitare offese è più importante che proteggere la libertà di espressione, che la libertà di parola può essere messa a tacere perché potrebbe ferire i sentimenti di qualcuno?».A proposito delle minoranze combattive in cerca di risarcimento sociale sfoderava una battuta: «Chiunque venga dichiarato la vittima più grande può diventare il più grande bullo». E se la prendeva con i censori progressisti: «Un tempo i liberali erano convinti difensori della libertà di parola. Oggi, i progressisti dei campus hanno trasformato quell’onorevole eredità capovolgendola, arrogandosi il diritto di sopprimere la libertà di parola, ingannandosi credendo di proteggerla. Sotto le mentite spoglie dell’apprendimento si manifestano opinioni, giudizi o pura propaganda. È incredibile cosa passi per erudizione nelle aule universitarie e persino delle scuole superiori oggigiorno». Per contrastare questo stato di cose aveva fondato nel 2012, giovanissimo, la sua organizzazione Turning Point. «Abbiamo combattuto instancabilmente contro la macchina ben oliata del Team Left e li abbiamo affrontati aggressivamente in ogni occasione» rivendicava. «Li combattiamo con le loro tattiche e li combattiamo con nuove tattiche che non hanno mai visto prima. Principalmente quello che stiamo cercando di fare è prendere le distanze dalle risposte e dai contrattacchi comunemente associati al Team Right e colpire in modo preventivo e duro. [...] Una delle armi più efficaci, se non la più efficace, che l’altra parte abbia schierato è l’uso e il controllo del linguaggio e della parola. Nella storia della guerra, una delle invenzioni più rivoluzionarie è stata quella della balestra. Sebbene sia associata all’Europa medievale, in realtà fu inventata nell’antica Cina, forse già nel 2000 a.C. I cinesi erano così certi del suo grande potere che fecero di tutto per tenerla lontana dai loro nemici, e alcune prove suggeriscono che abbiano persino preso in considerazione il disarmo unilaterale. Sapevano che aveva incredibili capacità distruttive. Il controllo del linguaggio e il politicamente corretto sono diventati la balestra moderna del Team Left, che sta brandendo le sue armi senza coscienza».Già, il politicamente corretto e la cultura woke erano le sue bestie nere. A combatterle dedicava la gran parte dei suoi interventi pubblici. «Voglio definire meglio il fenomeno che chiamiamo politicamente corretto», scriveva. «Il termine è diventato così ampiamente utilizzato che ora è quasi impossibile trascorrere un’intera giornata, a meno che non si sia a casa malati con la tv spenta e lo smartphone in modalità aereo, senza sentirlo usare. Tutti sanno che cosa significhi: che ci sono solo poche cose che si possano dire o fare senza che vengano considerate inappropriate. Ma cosa significa veramente e chi le considera inappropriate? A ben vedere, il politicamente corretto non è altro che autocensura. Costringe le persone a smettere volontariamente di comportarsi o parlare in un certo modo. Il motore di questo processo sono due emozioni di base: il senso di colpa e la paura. Il politicamente corretto induce le persone ad autocensurarsi perché si sentono in colpa per ciò che stanno per dire o fare e hanno paura di perdere qualcosa se lo dicono o lo fanno. Le emozioni di colpa e paura sono motori di comportamento così potenti che le persone si fermano senza nemmeno porsi la domanda: “Chi sto realmente offendendo?”. Quasi senza eccezioni, la risposta alla domanda è che non stai offendendo un numero significativo di persone apparentemente protette dal discorso censurato. Quello che stai realmente facendo è respingere un piccolo gruppo collettivista che cerca una sorta di privilegio o protezione e non vuole una discussione onesta e aperta sulla questione. Non importa quale sia l’argomento, le persone determinate a sostituire le decisioni collettive alla libertà individuale usano la balestra del politicamente corretto per stabilire i termini accettabili del discorso. Lo fanno in modo che persone come me appaiano indifferenti, insensibili e decisamente malvagie. [...] Se discutiamo di controlli ragionevoli sull’immigrazione, siamo xenofobi; se abbiamo successo finanziario siamo “l’uno per cento”; se suggeriamo che le persone debbano pagare per le proprie scelte discrezionali in materia di controllo delle nascite, stiamo conducendo una “guerra alle donne”. È diventato molto scomodo e in alcuni casi pericoloso per le carriere accademiche, aziendali o pubbliche usare un linguaggio diretto per discutere questioni dirette. Il politicamente corretto è un’arma che induce le persone impegnate che sanno come comportarsi ad arrendersi volontariamente. È peggio dell’essere ipnotizzati, perché non puoi ordinare a una persona sotto ipnosi di fare qualcosa di dannoso per sé stessa. In tutta l’America, nei campus e negli uffici, il politicamente corretto sta spingendo i cittadini amanti della libertà a togliersi i vestiti, comportarsi come polli e saltare dalle finestre del dodicesimo piano».Libertà di parola, di pensiero, di espressione, sempre e ovunque. Se è vero che Kirk talvolta risultava urticante, è vero anche che era sempre disposto a dibattere, ad ascoltare gli altri, ad accettare gli attacchi compresi quelli più spietati. Eppure era anche capace di grande empatia. Basti guardare il video di un dialogo con uno studente che si definisce transgender e dichiara di essere intenzionato a cambiare sesso. Charlie ascolta con attenzione e risponde con estrema grazia, con comprensione e gentilezza. Invita il ragazzo a «fare molta attenzione prima di introdurre farmaci nel suo corpo», gli chiede di «aspettare una diagnosi» e di riflettere a lungo. Non giudica, non offende: invita. Certo, nei riguardi degli attivisti Charlie era implacabile, e fu tra coloro che fecero pressione su Donald Trump perché prendesse provvedimenti in difesa dei minori: «Trump ha promesso di firmare una legge che vieta le mutilazioni sessuali sui minori in tutti i 50 Stati», scrisse. «Dovrebbe farsi avanti e organizzare un evento in cui i bambini che hanno abbandonato la strada della conversione raccontino le loro tragiche storie. Passare all’attacco, chiudere le cliniche e proteggere i bambini». Anche quando il presidente decise di ascoltarlo, Charlie non abbassò la guardia: «L’ordine esecutivo per la protezione dei bambini dalle mutilazioni chimiche e chirurgiche», disse, «rappresenta un’inversione di tendenza e una denuncia completa e assoluta del contagio sociale infantile che ha distrutto innumerevoli famiglie e confuso e brutalizzato bambini, lasciando migliaia di persone permanentemente sterili e massacrate» In altre occasioni se la prese con il «culto transgender della sterilizzazione e della mutilazione di massa» e invocò processi in stile Norimberga per gli attivisti che spingono i minori a cambiare sesso. Ma non mancava mai di ripetere: «La mia preghiera per le persone che credono di essere trans è che smettano di fare la guerra al loro corpo e imparino invece ad amare il corpo che Dio ha dato loro». È probabile che proprio la battaglia anti trans abbia innescato l’ira e la follia del suo assassino. Chi ora insulta la memoria di Charlie accusandolo di aver fomentato divisione, dovrebbe ricordare che, negli Usa e altrove, le stesse idee sono condivise a destra e a sinistra, e persino da non pochi scienziati. Charlie, in ogni caso, era disponibile a discutere le sue affermazioni con chiunque, a metterle in dubbio, a spaccare il capello in quattro. A rifiutare la discussione, il più delle volte, erano i suoi avversari. Arroganti come quelli che oggi pretendono di demolire il suo pensiero senza nemmeno conoscerlo.
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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Chi ha inventato il sistema di posizionamento globale GPS? D’accordo la Difesa Usa, ma quanto a persone, chi è stato il genio inventore?