2020-01-24
Il Salone del libro ipocrita censura due volte. Manda l’invito ad Altaforte poi lo ritira: «Un errore»
Farsa a Torino: l'editore bandito nel 2019 per «fascismo» riceve una chiamata ufficiale per la nuova edizione. Retromarcia sul bavaglio? Macché: «È stata inviata per sbaglio».Lezione (di sinistra) ai progressisti. Insistere sull'odio produce più odio. Il saggio di Valentina Pisanty già scuote le anime belle: perché il razzismo aumenta nonostante le tante leggi e politiche antirazziste? La risposta è facile: l'ossessione per la xenofobia non fa che alimentare l'intolleranza.Lo speciale comprende due articoli. Per un paio d'ore è stato quasi piacevole crederci. Sembrava che i vertici del Salone del libro di Torino ci avessero pensato su, e si fossero resi conto del loro grottesco errore, e che dunque fossero intenzionati a porre rimedio. E invece no: si trattava soltanto di una farsa nella farsa, di una reiterazione della censura con tanto di beffa. Uno spettacolo triste che getta ulteriore discredito su una manifestazione (sedicente) culturale già abbastanza screditata dagli attuali gestori. Come sia andata nel maggio 2019 è abbastanza noto, ma vale la pena di ricordarlo. Tutto è cominciato con la lista di proscrizione pubblicata da Christian Raimo, scrittore e membro del comitato editoriale del Salone del libro. Costui, su Facebook, ha stilato l'elenco degli autori da mettere al rogo. Fra questi «Alessandro Giuli, Adriano Scianca, Francesco Giubilei», il sottoscritto e Pietrangelo Buttafuoco. La colpa? «Tutti i giorni in tv, sui giornali, con i loro libri sostengono un razzismo esplicito». Raimo si è poi dimesso, ma ha ottenuto almeno in parte quel che voleva. Nel senso che dalla kermesse torinese - con il languido benestare del direttore Nicola Lagioia - è stata bandita una casa editrice, Altaforte, colpevole di essere «vicina a Casapound», quindi razzista e fascista. Per la prima volta nella storia del Salone del libro, un editore è stato censurato in virtù delle sue (presunte) idee politiche, dopo che nei capannoni torinesi avevano trovato spazio estremisti di ogni ordine e grado, stalinisti, negazionisti, odiatori di Israele, fanatici islamici che invocavano la morte di Salman Rushdie e chi più ne ha più ne metta. Con l'eccezione di un libro intervista a Matteo Salvini, di cui si è parlato per dileggiarlo, nessuno dei volumi pubblicati da Altaforte è stato discusso. L'accusa di fascismo e la condanna al silenzio sono state interamente basate sulle posizioni politiche del proprietario del marchio (Francesco Polacchi) e sulle illazioni di qualche intellettuale di seconda categoria. Ieri, tuttavia, per qualche momento è sembrato che un barlume di sanità mentale fosse apparso in quel di Torino. L'editore Altaforte ha ricevuto una email con il seguente testo: «Caro editore, al Salone internazionale del libro ti abbiamo riservato uno spazio speciale: SalTo nuovi editori. [...] Ogni editore per noi è importante perché con il proprio appassionato lavoro arricchisce la varietà di titoli garantendo la bibliodiversità, essenziale per preservare e arricchire la pluralità e la diffusione delle idee. Ogni libro contiene storie e pensieri diversi, custodisce punti di vista, e ne abbiamo bisogno: ci servono chiavi per leggere la realtà e trovare le coordinate per muoverci nel presente. Nel 2020 lo spazio a te riservato non sarà solo una vetrina per far conoscere il tuo catalogo. Desideriamo che i lettori di oggi scoprano le tue proposte, perché crediamo che sarai tu tra i protagonisti di domani». Sulla letterina in questione, oltre al logo dell'Aie (Associazione italiana editori), c'era pure quello del Salone del libro. La missiva si concludeva così: «Ti aspettiamo al prossimo Salone, dal 14 al 18 maggio 2020». Un invito ufficiale insomma, con tanto di numero di telefono della Salone Libro Srl da contattare. Altaforte è ancora in causa con il Salone per via dell'indebita esclusione del 2019 (l'editore affittò regolarmente uno spazio che poi gli fu negato). Tuttavia, vista la gentilezza della missiva, ha pensato di rispondere positivamente: ha accettato l'invito per iscritto specificando che avrebbe comunque proseguito con l'azione legale. Non appena la notizia è apparsa sui siti, però, a Torino è dilagato il panico. I vertici del Salone hanno subito prodotto un comunicato stampa per negare tutto: «Il Salone Internazionale del libro apprende dai mezzi stampa che la casa editrice Altaforte avrebbe ricevuto un invito alla prossima edizione della Fiera», si legge nel testo. «In realtà si tratta di una comunicazione commerciale automatizzata, partita dall'Aie, Associazione italiana editori, per un'iniziativa congiunta, destinata a un database contenente i contatti di tutti coloro che hanno richiesto un codice Isbn negli ultimi due anni».Altro che ravvedimento, altro che riflessione sulla libertà di pensiero. I capoccia del Salone fanno sapere che non c'è stato alcun invito, e scaricano la colpa sull'Aie. L'Associazione editori, dal canto suo, conferma di aver mandato a tutte le nuove case editrici una mail di invito, ma precisa: «Non sta a noi decidere se Altaforte debba o meno esserci». Tradotto: l'invito ufficiale è partito eccome. Lo ha mandato l'Aie, e il Salone del libro ha approvato l'iniziativa. Chi doveva spedire le mail, tuttavia, non ha avuto la prontezza di ricordarsi della censura. Già: Torino è aperta a tutti, salvo che ai perfidi fascisti di Altaforte. Nel corso dei mesi, la mordacchia si è rafforzata, e viene ribadita con arroganza. L'unico risultato concreto, in ogni caso, è la tremenda figuraccia rimediata da chi guida il Salone: da un gruppo di burocrati delle lettere, di impiegati del catasto culturale che si credono in diritto di concedere patenti di presentabilità. Scrive l'Associazione editori: «Ogni libro contiene storie e pensieri diversi, custodisce punti di vista, e ne abbiamo bisogno». Certo: ogni libro tranne quelli di Altaforte, che i solerti censori del Salone manco hanno letto. Poveretti, che pena.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-salone-del-libro-ipocrita-censura-due-volte-manda-linvito-ad-altaforte-poi-lo-ritira-un-errore-2644899721.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lezione-di-sinistra-ai-progressisti-insistere-sullodio-produce-piu-odio" data-post-id="2644899721" data-published-at="1757319651" data-use-pagination="False"> Lezione (di sinistra) ai progressisti. Insistere sull’odio produce più odio Che il libro di Valentina Pisanty intitolato I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe (Bompiani) sia esplosivo lo conferma il vago imbarazzo con cui lo ha trattato ieri Repubblica, che ne ha affidato la recensione a Gad Lerner. L'articolo di presentazione aveva un titolo interlocutorio («Non basta la memoria. L'impegno per ricordare la Shoah non ha fermato la nuova xenofobia. I testimoni hanno fallito?»), e lo stesso Lerner è sembrato camminare sulle uova, non sapendo se prendere le distanze dal volume, stroncarlo, lodarlo o chissà che altro. La tesi del saggio, tuttavia, è chiarissima. «Due fatti sono sotto gli occhi di tutti», scrive la Pisanty. «1) Negli ultimi vent'anni la Shoah è stata oggetto di capillari attività commemorative in tutto il mondo occidentale. 2) Negli ultimi vent'anni il razzismo e l'intolleranza sono aumentati a dismisura proprio nei Paesi in cui le politiche della memoria sono state implementate con maggior vigore». La Pisanty avanza una domanda rovente: può darsi che le due cose siano collegate? Può darsi che i «guardiani della memoria», in questi anni, abbiano sbagliato atteggiamento? A porre tali questioni, per altro, è una studiosa (semiologa dell'Università di Bergamo) che non può in alcun modo essere sospettata di simpatie destrorse. È progressista, da anni si occupa di razzismo con una impronta ideologica che è ben evidente anche nel testo in discussione. Ed è proprio lei a chiedersi se le politiche contro il razzismo e a tutela delle memoria non abbiano prodotto più razzismo e più negazionismo. Alcuni passaggi del libro sono piuttosto ruvidi. La Pisanty definisce «guardiani della memoria» coloro che «rivendicano il diritto/ dovere di parlare a nome dei defunti; sulla scorta di tale diritto hanno anche facoltà di stabilire chi può invocarne la memoria a supporto della propria causa». Sono parole non leggerissime. La studiosa parla di «concorrenza delle vittime» (dei vari genocidi); di standardizzazione dei prodotti culturali sull'Olocausto; arriva addirittura a sostenere che le leggi contro il negazionismo abbiano giovato ai negazionisti: «Una società che pone a proprio fondamento non negoziabile una narrazione particolare presentata come paradigma universale non può che contribuire alla deriva antidemocratica di cui oggi molti lamentano gli effetti», scrive. Insomma, da sinistra la Pisanty rifila parecchie staffilate alla sinistra. Benché per molti versi estremamente coraggioso, però, il suo libro dà in parte ragione a Lerner: si limita a fornire spunti di discussione (ed è già molto), ma non offre grandi soluzioni. E qui ci permettiamo di intervenire, con qualche riflessione che probabilmente non sarà gradita alla Pisanty. La sua impostazione ideologica, infatti, è il grande limite del suo saggio. Pur dicendo molte cose sacrosante, parte da presupposto sbagliati o, meglio, troppo parziali, che inevitabilmente offuscano la visuale. Per prima cosa, la Pisanty sovrappone «razzismo» e «negazionismo» dell'Olocausto, che invece sono due temi distinti. Ci sono tantissimi negazionisti - come abbiamo scritto più volte - anche nel fronte cosiddetto «antirazzista». Gente favorevole all'immigrazione di massa che però odia gli ebrei, per farla breve. Secondo punto, e più importante: non è vero che il razzismo sia in aumento. È vero che è molto facile, oggi, imbattersi in tesi negazioniste, e il motivo è semplice: Internet ha fatto emergere posizioni che prima non godevano di tanta visibilità; ha contribuito alla diffusione dei cosiddetti «complottismi»; ha fatto aumentare la violenza verbale. Ma che il razzismo sia più diffuso è falso, e banalmente lo dimostrano i dati sui crimini d'odio, in calo dal 2017. Il grande problema è proprio questo. È vero, come suggerisce la Pisanty, che le leggi «antinegazioniste» sono un clamoroso esempio di eterogenesi dei fini: i risultati che ottengono sono il contrario di quelli che vorrebbero raggiungere. Ma ancora peggiore è l'effetto di tutte le norme «anti odio», delle commissioni, dei regolamenti comunali, delle campagne stampa. Continuare a dire che l'odio e il razzismo sono in aumento e sostenere che servano strumenti (magari politici) per combatterli non fa che esasperare il clima. È evidente - perché gli esempi sono plurimi - che le varie norme bavaglio servono più a colpire le opinioni «non corrette» che a impedire la diffusione della xenofobia. Il rischio di questa insistenza - come ha notato il grande saggista Douglas Murray - è che alla lunga produca un contraccolpo. La paranoia odierna porta ad accusare di razzismo e nazismo chiunque critichi l'immigrazione di massa, di omofobia chiunque contesti le posizioni degli attivisti Lgbt. E se tutti sono nazisti, allora nessuno lo è. Se le false accuse di razzismo colpiscono nel mucchio, allora anche l'odiatore vero e il razzista vero si sentiranno autorizzati a fare le vittime. Il grande torto alla memoria lo fa chi paragona i decreti sicurezza alle deportazioni di massa, i centri di accoglienza ai lager e ai treni piombati, il pensiero critico al totalitarismo. Per questo, ogni tanto, basterebbe fare più storia e meno memoria.
L'infettivologa Chiara Valeriana
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