2020-10-23
I fondi Ue arrivano alla fine del 2021 (se va bene)
Giuseppe Conte (Dursun Aydemir/Anadolu Agency via Getty Images)
Altro che pioggia di miliardi: nel 2021 rischiamo la siccità. Perché la liquidità che con il Recovery fund doveva annaffiare e far rifiorire il nostro Paese, come nella tradizione delle previsioni meteorologiche, è rinviata a data da destinarsi. Sì, come purtroppo avevamo scritto, i finanziamenti a fondo perduto e i prestiti che avrebbero dovuto arrivare da Bruxelles non sono dietro l'angolo. A differenza di ciò che ci hanno raccontato fino a ieri, sia il governo che i principali commentatori, quella dei soldi Ue non è una partita chiusa, perché in Europa sono ancora molte le perplessità sul meccanismo che dovrebbe aiutare i Paesi in difficoltà. Non parliamo di Spagna e Portogallo, che già hanno fatto sapere di non avere intenzione di usare il denaro messo a disposizione dall'Unione in quanto, visti i tassi d'interesse sul mercato, sia Madrid che Lisbona non ritengono convenienti le condizioni. Ci riferiamo piuttosto a quei Paesi frugali che sembravano essersi accontentati dell'accordo raggiunto in estate dopo una lunga trattativa e invece non si sono accontentati affatto, ma sono riusciti prima a far slittare il piano, ora a bloccare tutto.Che le cose non fossero come venivano descritte da gran parte della stampa, e cioè già decise e senza possibilità alcuna che fossero rimessi in discussione i finanziamenti, si era capito da settimane. Prova ne sia che il 2 ottobre, parlando ai giornalisti dopo il Consiglio europeo, il premier era stato categorico: «L'Italia non permetterà di alterare o procrastinare l'entrata in vigore del Recovery fund. L'intera comunità europea è in sofferenza, le discussioni tecniche non ritardino l'attuazione». Così, quel venerdì, anche i più convinti laudatori di Giuseppe Conte, sempre pronti a bersi qualsiasi frottola esca dalla porta di Palazzo Chigi e dal telefonino di Rocco Casalino, alla fine hanno dovuto rendersi conto che i 209 miliardi in arrivo da Bruxelles forse non erano così scontati come il presidente del Consiglio li descriveva. Perché è vero che a luglio tra i 27 leader della Ue era stata raggiunta un'intesa, ma poi dall'accordo scritto sulla carta si doveva passare a un patto scolpito nella pietra, che consentisse alla Commissione di emettere obbligazioni e reperire i capitali da destinare ai singoli Paesi. E su questo passaggio la soluzione all'inizio di ottobre non c'era. Certo, Giuseppi aveva l'aria di voler alzare la voce per imporsi, ma dietro alle parole forti si capiva che la posizione era debole, al punto che la Germania, cioè l'azionista di maggioranza del Consiglio europeo, già aveva annunciato che «molto probabilmente un ritardo sarebbe stato inevitabile». I tedeschi avevano promesso di mediare fra frugali e meno frugali, cioè tra Olanda e noi, ma se dopo il primo incontro già alzavano le mani in segno di resa non c'era da aspettarsi molto.Che al di là delle dichiarazioni lo stesso premier non fosse convinto di spuntare granché lo dimostra il fatto che al Consiglio europeo successivo, con la scusa fondamentale di dover partecipare a un convegno di Limes, Conte se ne era andato in anticipo, delegando la difesa degli interessi italiani ad Angela Merkel, come se un pastore avesse lasciato in affidamento il gregge al lupo. Risultato, i soldi del Recovery fund si sono allontanati definitivamente. Se va bene, vedremo i primi fondi alla fine del 2021, se va male Bruxelles non aprirà i cordoni della Borsa prima del 2022. La notizia è stata confermata con le stellette delle informazioni importanti dall'Ansa, che ieri ha battuto un take d'agenzia con il seguente titolo: «Fonti Ue, bilancio e Recovery fund saranno ritardati». Sottotitolo: «Impossibili dal primo gennaio, conseguenze anche sugli esborsi». Per chi non lo sapesse, la formula «Fonti Ue» è quella che si usa quando si ha una versione ufficiale, ma non si vuole dare il marchio della comunicazione diretta. Un po' come quando i cronisti al seguito del capo dello Stato scrivono «fonti del Quirinale». In pratica, da Bruxelles mandano a dire che la cassaforte europea non si aprirà tanto presto, perché prima bisognerà cercare l'accordo sul bilancio e poi sul Recovery fund. Quindi, una volta trovata l'intesa nel Consiglio europeo, si dovrà passare alla fase operativa delle procedure di ratifica, che - manco a dirlo - dovranno passare sotto le forche caudine della burocrazia europea e dunque richiederanno mesi. Per farla breve, ammesso che alla fine il patto sia raggiunto, i soldi non potranno che arrivare alla fine dell'anno prossimo, come regalo di Natale. Sempre che non arrivino con la Befana del 2022. E fino ad allora? Niente, tocca arrangiarsi a tirare la cinghia. Come prevedevamo, era meglio fare da soli, emettendo buoni del tesoro, senza aspettare le bufale europee. Certo, per emettere titoli di Stato infischiandosene del Mes e del Recovery fund servirebbe uno statista, la qual cosa ci manca.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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