2020-01-04
Il raid Usa su Soleimani decapita i Pasdaran e frena l’espansionismo iraniano
Il capo delle forze d'élite era la mente delle operazioni degli sciiti in Medio Oriente. Mike Pompeo: «Il generale preparava un attacco, abbiamo salvato vite americane».In migliaia protestano a Teheran, l'esercito giura vendetta. Washington annuncia l'invio di altri 3.500 soldati. Israele approva il blitz: «Autodifesa». Critiche dalla Russia, Emmanuel Macron incontrerà i rappresentanti dell'area.All'Italia serve una diplomazia, ma Luigi Di Maio, anziché agli Esteri, pensa a Gian Luigi Paragone e al M5s, che gli si sta sbriciolando tra le mani.Lo speciale contiene tre articoli.Non era in missione. Era la missione, Qassem Soleimani, capo della divisione Qods dei Guardiani della rivoluzione iraniani, ucciso ieri dagli Stati Uniti in Iraq.A tracciarne questo ritratto è Kim Ghattas, in una biografia di prossima pubblicazione. Era il signore dell'unità d'élite dei Pasdaran, l'uomo incaricato di alimentare ed espandere la rivoluzione islamica per conto dell'ayatollah Ali Khamenei, a cui rispondeva direttamente. Siria, Libano, Yemen e Iraq, i Paesi in cui il suo ruolo é stato cruciale per il regime di Teheran negli ultimi 20 anni. Soleimani, che il quotidiano britannico Times aveva inserito tra i venti volti del 2020 assieme a Giorgia Meloni, definendolo il «Machiavelli del Medio Oriente», è sempre rimasto nell'ombra, avvolto dal mistero e dall'oscurità dalla quale tesseva le sue trame e operava. Di nascosto, come nel caso della Siria, dove ha organizzato operazioni clandestine per reprimere il dissenso e salvare il regime di Bashar Al Assad. Era ritenuto, e probabilmente si riteneva anche lui stesso, un intoccabile. Pare che sia gli ex presidenti statunitensi George W. Bush e Barack Obama, sia il Mossad, abbiano in passato escluso il suo assassinio, temendo la reazione iraniana e riconoscendo a Soleimani un ruolo nella lotta allo Stato islamico e ad Al Qaeda.Ma quell'immunità è saltata negli ultimi mesi. Proprio da quando alla Casa Bianca c'è stato un cambio a livello di consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Donald Trump: fuori il falco John Bolton, dentro Robert O'Brien, esperto in crisi di ostaggi. Si pensava che l'intesa tra Washington e Teheran fosse quindi più vicina. Anche perché il presidente Trump, a giugno, aveva bloccato una rappresaglia missilistica, dopo che l'Iran aveva abbattuto un drone. E in più occasioni aveva offerto un vertice al leader iraniano Hassan Rouhani. Ma lo spazio per la diplomazia si è chiuso in fretta. La comunità internazionale, in primis l'Europa, ha ignorato gli appelli giunti dal dipartimento di Stato sulla corsa iraniana alla bomba atomica. E a quel punto è stato impossibile per la Casa Bianca e per Foggy Bottom frenare la frangia più dura del Partito repubblicano, forte delle informazioni dell'intelligence che hanno dimostrato il ruolo di Soleimani nella distruzione delle raffinerie saudite, negli attacchi alle petroliere nello Stretto di Hormuz e perfino nell'assedio del 31 dicembre scorso all'ambasciata statunitense a Baghdad, in Iraq. A cui il presidente Trump aveva risposto puntando il dito l'Iran: «Difenderemo i nostri cittadini. Questo non è un avvertimento, è una minaccia». Così, non appena il generale ha tentato di uscire dall'ombra, Washington ha colpito. Il generale aveva ceduto perfino ai social network. Nel novembre del 2018 il presidente Trump aveva pubblicato su Twitter il messaggio «Le sanzioni stanno arrivando» con un'immagine sullo stile dei poster della serie tv Il trono di spade. E via Instagram Soleimani rispose, replicando la scelta grafica, «Mi ergerò contro di te».Ha provato a godersi i successi, ma Trump l'ha abbattuto colpendo con l'arma più amata dagli Stati Uniti dopo Obama: il drone. I cui missili ieri notte hanno colpito i due veicoli su cui si stava muovendo, nei pressi dell'aeroporto di Baghdad. Un convoglio davvero ridotto, che conferma la sensazione che Soleimani si sentisse al sicuro in Iraq, da cui era arrivato attorno alla mezzanotte in aereo dalla Siria o dal Libano. Assieme a lui è stato ucciso anche Abu Mahdi Al Mohandes, vicecomandante delle milizie irachene filoiraniane Pmu. Una morte che secondo l'esperto Ranj Alaaldin, della Brookings institution, avrà effetti nella regione maggiori di quella di Osama Bin Laden.La spiegazione dal raid è in un tweet del segretario di Stato americano Mike Pompeo: «Gli Stati Uniti restano impegnati nella de-escalation». Il che per Washington significa contenere l'influenza dell'Iran all'estero. Soleimani, secondo Pompeo, che ha citato fonti di intelligence, preparava un attacco contro gli interessi Usa. Il radi, dunque, «ha salvato vite americane».Sembra quindi suonata l'ora dei falchi a Washington, ma anche a Teheran. I primi avranno a che fare con i dubbi sul piano del diritto internazionale dell'uccisione di Soleimani e la polemica innescata dalla sinistra. Contro Trump si sono schierati il candidato democratico Joe Biden, già vice di Obama, e la speaker della Camera, Nancy Pelosi. Quest'ultima ha dichiarato: «Non possiamo mettere a rischio le vite dei nostri funzionari, dei nostri diplomatici, con queste provocazioni sproporzionate». Intanto, Washington ha invitato i suoi cittadini a lasciare l'Iraq.Ma è proprio la reazione che la Casa Bianca dovrà fronteggiare la prima preoccupazione dei secondi. Javad Zarif, ministro degli Esteri del governo «riformista» di Rouhani, ha parlato di «atto di terrorismo internazionale». La Guida suprema Khamenei ha indetto tre giorni di lutto nazionale e giurato vendetta contro gli Stati Uniti e Israele. Il presidente Rouhani, che ha nominato Esmail Qaani nuovo capo della divisione Qods, ha definito gli Stati Uniti un «regime aggressivo». E un alto ufficiale dell'élite dei Pasdaran, Mohammad Reza Naghdi, ha giurato che la vendetta sarà sanguinosissima: ha detto che gli Stati Uniti «devono ritirare le loro forze o cominciare a comprare bare per i loro soldati» e ha puntato il dito, anche lui, contro il «regime sionista», cioè Israele. Il presidente Trump ha dalla sua parte, per evitare l'escalation, alcuni elementi: il regime schiacciato dalle proteste e l'agenda elettorale iraniana. A febbraio si vota e se i «riformisti» di Rouhani non riusciranno a riprendere la via diplomatica per l'accordo nucleare, sarà facile che gli eredi di Mahmud Ahmadinejad riconquistare il potere sulla scia dell'uccisione di Soleimani, riportando le lancette delle relazioni tra Teheran e Washington al pre Obama.Forse, più che della rappresaglia di un Paese in crisi, ridimensionato dalla perdita del suo numero due e con più da perdere che da guadagnare da una guerra, gli Stati Uniti dovrebbero preoccuparsi delle mire cinesi. Infatti, dopo il raid Pechino ha puntato il dito contro Washington e, dicendosi «fortemente preoccupata», appare pronta a soccorrere Teheran.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-raid-usa-su-soleimani-decapita-i-pasdaran-e-frena-lespansionismo-iraniano-2643800915.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="leuropa-e-divisa-e-senza-strategia-intanto-berlino-da-ragione-a-trump" data-post-id="2643800915" data-published-at="1758062431" data-use-pagination="False"> L’Europa è divisa e senza strategia. Intanto Berlino dà ragione a Trump L'uccisione in un raid Usa a Baghdad di Qassem Soleimani, capo delle forze speciali iraniane, ha innescato una catena di prevedibili reazioni. Decine di migliaia di manifestanti si sono radunate in piazza a Teheran, bruciando bandiere americane ed esibendo immagini del generale. I Pasdaran hanno minacciato i militari statunitensi: «Preparate le bare». L'esecutivo ha parlato di un «atto terroristico», di cui gli Usa dovranno «assumersi la responsabilità». La guida spirituale, Ali Khamenei, ha indetto tre giorni di lutto nazionale, promettendo ritorsioni contro Israele e Washington, che ha disposto l'invio di altri 3.500 soldati in Medio Oriente. Stizzito per il bombardamento il primo ministro iracheno, Adel Abdul Mahdi, che ha denunciato una «palese violazione della sovranità» del suo Paese. L'esecutivo siriano - Bashar Al Assad aveva trovato nelle milizie Qods di Soleimani un prezioso alleato contro i ribelli sunniti - ha criticato Washington, che cercherebbe di alimentare i conflitti nella regione. Le milizie di Hezbollah hanno promesso una «punizione appropriata» dei «criminali assassini» americani, mentre Hamas ha condannato «questi continui crimini americani che alimentano tensioni nella regione». Surreale la condanna turca. Ankara ha assicurato che «è sempre stata contraria a interventi all'estero» (ne sta avviando uno in Libia), «alle uccisioni e ai conflitti settari». Irritazione pure dalla Russia: il ministero degli Esteri ha definito il raid «un passo avventuristico». Tutt'altra musica da Israele. Il premier, Benjamin Netanyahu, rientrato d'urgenza dalla Grecia, ha dichiarato che gli Stati Uniti hanno il diritto di difendersi. Intanto, il Paese ha innalzato il livello di allerta, temendo rappresaglie. Le stesse che hanno indotto le compagnie petrolifere a evacuare il personale e il dipartimento di Stato americano a invitare i cittadini Usa a lasciare l'area, in aereo o via terra. Il bombardamento deciso da Donald Trump contro Soleimani ha colto totalmente di sorpresa il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, distratto dallo sgretolamento dei 5 stelle. La Farnesina si è limitata a diffondere una nota scialba, che lamenta «sviluppi molto preoccupanti» e chiede che si mantengano «aperti canali di dialogo». Matteo Salvini è praticamente l'unico esponente politico a schierarsi entusiasticamente con Trump (che, ha twittato, «donne e uomini liberi» dovrebbero ringraziare, perché ha «eliminato uno degli uomini più pericolosi e spietati al mondo, un terrorista islamico»). Di segno opposto i commenti di casa dem. Nicola Zingaretti ha espresso «grande preoccupazione per l'altissimo livello di tensione in Iraq», mentre il commissario Ue per l'Economia, Paolo Gentiloni, ha dichiarato che l'uccisione di Soleimani «può avere conseguenze molto serie» sulla stabilità della regione. Sarà memore dei successi del suo partito, lacchè dell'amministrazione Obama e della Francia, che hanno infiammato la polveriera libica. Matteo Renzi ha invocato un «cambio di passo» della politica estera italiana. Conoscendolo, bisogna intendere «cambio di ministro»? Quel che è certo, è che l'ennesimo sbriciolamento dell'unità europea mette una pietra tombale sul mandato della sua Federica Mogherini quale Alto rappresentante dell'Europa. Come al solito, gli Stati membri si sono divisi sull'uccisione del capo delle forze d'élite iraniane. Amèlie de Montchalin, ministro francese per gli Affari europei, ha deplorato: «Ci siamo svegliati in un mondo più pericoloso». E ha annunciato che Emmanuel Macron incontrerà «gli attori della regione». Marcon, appunto; perché la politica estera è questione nazionale, mica europea. Tant'è che la Germania, al contrario di Parigi e dei balbettii dell'Italia, ha sostanzialmente preso le parti di Trump. La portavoce del governo tedesco, Ulrike Demmer, pur manifestando «preoccupazione per il pericoloso momento di escalation», ha riconosciuto che gli Usa hanno reagito «a tutta una serie di provocazioni militari di cui l'Iran ha responsabilità». In effetti, Soleimani era tra gli «agitatori» che hanno fomentato l'assalto di fine anno all'ambasciata americana a Baghdad. La sinistra italiana, insomma, dovrà cercarsi con il lanternino una strategia europea, invocata dallo stesso Gentiloni, che faccia seguito all'operazione di Washington. La verità è che sia Bruxelles sia Roma sono ormai condannate alla totale ininfluenza sul Medio Oriente. Tant'è che né la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, né Josep Borrell, successore della Mogherini, hanno rilasciato dichiarazioni. Ha parlato solo il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel: «Il ciclo di violenza, provocazioni e ritorsioni, deve finire». Ma Mike Pompeo, segretario di Stato americano, ha dichiarato di aver sentito separatamente Francia, Regno Unito e Germania. Mica con l'Europa. A questo punto, ogni ipotesi di accordo sul nucleare va in fumo. E Teheran ha la tecnologia per dotarsi, entro pochi mesi, di un ordigno atomico. Gli osservatori ritengono però che le vendette iraniane assumeranno la forma di assassinii mirati e attacchi asimmetrici. Tipo quelli con cui il regime sciita aveva colpito alcune piattaforme petrolifere saudite. Non a caso l'Arabia, insieme alle truppe americane e a Israele, è tra i Paesi più a rischio di rappresaglie. Il resto del mondo, al netto della preoccupazione espressa dal segretario generale dell'Onu e dal nunzio vaticano a Teheran, Leo Boccardi, starà a guardare. Cina inclusa: Pechino ha sì invitato «soprattutto gli Stati Uniti» alla moderazione, ma non vuole rovinare le trattative per arrivare alla sospirata tregua sui dazi. Per ora, il punto lo porta a casa Trump. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-raid-usa-su-soleimani-decapita-i-pasdaran-e-frena-lespansionismo-iraniano-2643800915.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="roma-ha-un-ministro-fantasma" data-post-id="2643800915" data-published-at="1758062431" data-use-pagination="False"> Roma ha un ministro fantasma «Non può esserci una crisi la settimana prossima, ho già l'agenda piena». In queste ore servirebbe un ministro degli Esteri, anche non necessariamente l'hollywoodiano Henry Kissinger della frase o l'Eduard Shevardnadze che per primo introdusse il monosillabo sì nella politica internazionale dell'Unione sovietica. Non è necessario un gigante, basterebbe un grigio professionista del ramo, anche un raffinato doppiogiochista della diplomazia (secondo uno stile più andreottiano) in grado di difendere gli interessi italiani dentro il grande incendio attorno a noi. Servirebbe qualcuno che non fosse Luigi Di Maio. E non certo per l'età da Erasmus o il partito della decrescita infelice che guida, ma per la mancanza di tre requisiti determinanti nei minuetti internazionali quando il vento si trasforma in uragano: l'esperienza, le conoscenze e i numeri di telefono. L'esperienza che ti aiuta a capire fin dove può arrivare una provocazione, le conoscenze che danno il perimetro alle alleanze e i numeri da chiamare per sapere strategie e mosse. C'è un quarto motivo, il più importante di tutti: stare sul pezzo. Esserci 24 ore su 24, motivare i grand commis della Farnesina, interloquire con le cancellerie e non esserne tagliati fuori. Cosa che Di Maio non fa e non sa fare, concentrato com'è sulla faida interna dopo l'espulsione di Gianluigi Paragone. Preoccupato (da capo politico del movimento) non dalle mosse di Donald Trump e dalla reazione dell'ayatollah Khamenei ma dalla fuga dei parlamentari a 5 stelle. Ieri chi si aspettava una presa di posizione sulla crisi iraniana si è ritrovato fra le mani la dichiarazione: «Farò pulizia, nessuno può credere di fare come gli pare». Il ministro pensava ai transfughi, non ai droni americani. Più che dagli effetti della morte di Qassem Soleimani era allarmato dallo sgambetto di Alessandro Di Battista, secondo il motto: 5.000 morti in India sono una notizia, un fienile che brucia dietro casa è una tragedia. È vero che dopo Federica Mogherini ed Elisabetta Trenta possiamo metabolizzare ogni fantasma, ma lo scenario di oggi è leggermente diverso. E «il Bel Paese proteso nel Mediterraneo, punto di incontro di civiltà» esiste solo nella narrazione favolistica del presidente Sergio Mattarella l'ultimo dell'anno. Risvegliato anche lui dagli hunter killer del Pentagono. La realtà ci dice qualcosa di molto diverso: l'Iran è uno dei partner commerciali italiani strategici nell'area per la costruzione di infrastrutture e impianti e in Iraq operano anche 700 soldati italiani agli ordini degli americani. Washington ha consigliato ai suoi addetti civili in Iraq di «lasciare il Paese possibilmente in aereo» per non rischiare. Di Maio ha la responsabilità di gestire quegli ingegneri, quei militari e presto dovrà andare oltre il temino con il quale ha fissato la posizione del nostro Paese: «L'Italia lancia un forte appello perché si agisca con moderazione e responsabilità, mantenendo aperti canali di dialogo, evitando atti che possano avere gravi conseguenze sull'intera regione». Acqua fresca che testimonia solo la nostra irrilevanza. Oltre allo showdown in Medio Oriente c'è il caos libico, da dove parte il 90% dei migranti usati come arma per destabilizzare l'Europa. Una terra che brucia anche per colpa dell'inettitudine della politica estera italiana. E se Fayez Al Serraj ha scelto di farsi aiutare dal sultano Recep Erdogan (campione nel ricattare gli pseudoalleati con i barconi dei disperati) è proprio perché l'Italia gli aveva negato assistenza e armi, abdicando all'ultimo ruolo strategico che la storia ci aveva assegnato. In diplomazia le agende vuote sono più pericolose di quelle piene.