2023-06-08
Il Pd prima espugna la Corte costituzionale poi attacca la Meloni per tenersi le poltrone
Incarichi in scadenza: la sinistra vuole scegliere due nomi. Ma quando era in maggioranza lasciò all’opposizione solo un candidato.Il contenuto della nuova narrazione antigovernativa - veicolata intercambiabilmente dal Pd e dai quotidiani del gruppo Gedi, Stampa e Repubblica - è ormai noto e perfino stantio: la presunta torsione autoritaria in atto, la svolta orbaniana in corso, e via fascistizzando. Quanto alla forma di quella narrazione, colpisce anche un linguaggio estremo e scarsamente sorvegliato: pare che ogni giorno si sia alla vigilia dell’Apocalisse, che ogni mattina debba essere rinnovato un allarme permanente, in un trionfo (nei titoli) di «sfide», «schiaffi», «attacchi», «bunker», «Italia isolata». Se non parlassimo di cose serie, l’effetto involontario di questi articoli sarebbe - va detto - irresistibilmente comico. Dopo di che, il pretesto quotidiano varia, di volta in volta indicando un bersaglio delle presunte (e inesistenti) aggressioni governative: per giorni è stata in prima pagina la Corte dei Conti, poi la Procura nazionale antimafia, poi l’Autorità anticorruzione, poi l’Anm. Ieri invece era il giorno della Corte costituzionale guidata dal presidente Silvana Sciarra.E come mai? Perché La Stampa di Torino si è accorta del fatto che nei prossimi mesi andranno a scadenza alcuni membri della Consulta (il cui mandato dura nove anni). Questi giudici dovranno essere sostituiti, essendo noto che i 15 componenti dell’organo sono nominati (cinque) dal presidente della Repubblica, dalle alte magistrature (altri cinque) e dal Parlamento (e altri cinque) . Ecco, secondo La Stampa (con l’autorevole firma di Francesco Grignetti e sotto il titolo fiammeggiante «Le mani sulla Consulta»), in questa partita «sarà messa alla prova la vera natura della premier. Se vorrà rispettare la Costituzione materiale, che ha sempre rispettato la terzietà e l’equilibrio di una istituzione così importante, o se sarà assalto alla diligenza». Ah sì? E allora vediamo quali sono i criteri per finire in Paradiso o all’Inferno. Scrive il quotidiano torinese riferendosi ai cinque membri di nomina parlamentare: «Sono sempre stati spartiti 3 a 2. Cioè 3 erano quelli scelti dalla maggioranza pro tempore, e 2 dall’opposizione».Occhio perché poco dopo arriva la sorpresa, cioè una palese ammissione di come la sinistra si sia regolata in questi anni: «Chi conosce le cose segrete spiega che al momento i cinque giudici scelti dal Parlamento non rispettano affatto la regola aurea della Costituzione materiale perché 4 sono considerati di centrosinistra e solo 1 è un giurista di centrodestra. E qui si pone il problema di Giorgia Meloni. Lei avrebbe i numeri per ribaltare le proporzioni e nel giro di quindici mesi potrebbe portare alla Corte costituzionale ben quattro giudici della sua area. Ma lo farà? E soprattutto: le converrebbe?».E qui il lettore si stropiccerà gli occhi, seguendo il curioso modo di ragionare della Stampa: se a prendere tutto (4 a 1) è la sinistra, il vulnus non c’è (o comunque dev’essere stato rapidamente metabolizzato). Se invece la Meloni facesse pari pari la stessa cosa, svelerebbe la sua «vera natura» (immaginiamo autoritaria). A seguire l’avvertimento, affidato a un anonimo giurista citato da Grignetti: «La scelta per i giudici costituzionali, prima ancora che sulle persone, sarà un banco di prova nei rapporti con le opposizioni e con le istituzioni di garanzia». Chiaro, no?Ma non basta ancora. È sufficiente girare qualche pagina, sempre sulla Stampa, per trovare una filippica di Donatella Stasio (fino a qualche tempo fa, responsabile della comunicazione della Corte costituzionale) che - allarmatissima - descrive «l’ostruzionismo della maggioranza che viola i diritti della Costituzione». I toni sono da vigilia della Marcia su Roma («Non si può avere sempre uno sguardo indulgente»), e la lamentazione più grande riguarda il ricorso ai decreti legge (e, in questo ambito, a provvedimenti omnibus, cioè di contenuto eterogeneo). E deve trattarsi di una preoccupazione grossa, evocata anche, insieme con un lungo elenco di doglianze, dal professor Michele Ainis su Repubblica (sotto il titolo «Segnali di autoritarismo») e l’altro ieri, di nuovo sulla Stampa, da Vladimiro Zagrebelsky, pure lui sulle barricate («Così si stravolge la democrazia»). Il tema, com’è noto, era stato recentemente sollevato dal capo dello Stato, e indubbiamente il problema - in astratto - esiste. Esistono però almeno tre argomenti che - in concreto - rendono per lo meno sospetta la campagna di stampa scatenata verso il governo Meloni. Primo. Il governo attuale ha varato - se abbiamo fatto bene i conti - 25 decreti legge, un numero in linea, considerando la durata dei vari governi, con gli esecutivi che l’hanno preceduto: il governo Draghi ne varò 62 (in 17 mesi), il Conte bis 54, il Conte uno 30. Dunque, di che parliamo? Secondo. Se vogliamo criticare l’uso eccessivo dei decreti legge, dovremmo ricordare la lentezza dell’iter di approvazione di un disegno di legge: sfido chiunque a governare un Paese dell’Occidente avanzato ricorrendo alla sola legislazione ordinaria. Per questa ragione, da sempre i governi prendono la scorciatoia del decreto legge. E lo fanno da decenni, non da sei o sette mesi. Terzo. Proprio questi sono i motivi che dovrebbero indurre tutte le persone ragionevoli a spingere per una riforma istituzionale che snellisca l’iter di approvazione delle norme, che ponga fine allo stato di cose per cui Camera e Senato fanno esattamente lo stesso mestiere, e che rafforzi la capacità di iniziativa normativa del governo. Peccato che in genere proprio tra coloro che hanno sollevato la polemica di questi giorni si trovino molti tra i più arcigni difensori dello status quo costituzionale.
L’ex viceministro e sottosegretario della Salute Pierpaolo Sileri (Ansa). Nel riquadro Marco Florio
Andrea Sempio, nel riquadro il padre Giuseppe (Ansa)