2020-09-08
Il Pd è così malmesso che basta Zingaretti a fargli ingoiare il Sì
Sofferenza, mal di pancia e difficoltà. Ma i dem sono imbrigliati dal patto di governo e la direzione si adegua. Con poche eccezioni.Nicola Zingaretti alla fine schiera il suo partito per il sì al referendum, e ottiene un voto quasi bulgaro: 188 sì, 13 no. Ma è un consenso sotto cui si nasconde un escamotage tecnico (chi non votava dava silenzio-assenso) e un sentimento più profondo. È stata una giornata lunga e incerta - malgrado le apparenze - quella in cui il Pd ha bevuto l'amaro calice, con un voto di disciplina che potrebbe lasciare alle sue spalle strascichi. A 13 giorni dal referendum, Nicola Zingaretti cerca di raccogliere tutte le anime del suo partito a favore del quesito sul taglio dei parlamentari: trova sofferenza, mal di pancia, e difficoltà. Alcuni, tra i dissidenti sfumano la loro posizione nel corso del dibattito: è il caso di Matteo Orfini, ex presidente del partito. E di Dario Franceschini, capo delegazione al governo, che si esercita in uno dei suoi equilibrismi dialettici: un intervento problematico, ma un voto di lealtà al leader. Il punto, che stava dietro questo sentimento è che diversi sondaggi - nelle ultime ore - dicono che il fronte del No è in crescita, e che tenta un elettorato trasversale, stanco dell'antipolitica, e desideroso di smarcarsi dalla più classica battaglia di bandiera grillina.Nel Pd questo stato d'animo sarebbe condiviso addirittura da un elettore su due. Il che per il governo è una bella grana. Perché se i dem avessero scelto di dare indicazione esplicita di voto per il No, l'alleanza giallorossa sarebbe stata automaticamente a rischio. Anche perché in queste ultime ore dal M5s - a sua volta preoccupato per la tenuta dell'alleato - erano arrivati segnali espliciti di fastidio, come quello di Paola Taverna: «Dal Pd ci aspettiamo un Sì netto, altrimenti dovremmo pensare che sia stato tradito il patto fondante del governo Conte». Facile a dirsi, difficile a farsi. Contrari apertamente - e da giorni - sono rimasti, anche nel dibattito di ieri, uomini come Gianni Cuperlo, leader della sinistra interna, e Luigi Zanda (l'ex tesoriere) o Rosy Bindi (forse la figura più forte tra gli ex popolari). Come fare per salvare capre e cavoli? «Propongo il Sì», aveva detto il segretario durante la relazione di apertura della Direzione, ieri mattina. Zingaretti aveva spiegato che in caso di vittoria del No il governo «non cadrebbe», ma aveva anche marcato le differenze sulle ragioni del voto del partito rispetto a quelle portate avanti dal Movimento 5 stelle per vincere la sua battaglia. Un tentativo di trovare un equilibrio, anche ricorrendo all'escamotage di un voto separato (uno sulla relazione, e l'altro sul referendum) in modo da consentire a quelli del No di approvare la linea smarcandosi sul taglio. Secondo Zingaretti, per il Pd il Sì non sarebbe quindi una questione di risparmio di costi («motivazioni banali»), quanto un modo per arginare «l'inarrestabile vento del populismo» e, soprattutto, far seguire «altre riforme compensative» alla riduzione delle poltrone. Per questo il segretario aveva anche lanciato la «raccolta firme per il bicameralismo differenziato», ipotesi messa in campo da Luciano Violante (altro «malpancista» redento) in accoppiata al via libera per una proposta di legge di iniziativa popolare. «La faccio mia», ha aggiunto Zingaretti: «Sarà un modo, pur con scelte diverse che ci saranno, di unire il partito». Al termine della direzione del Pd viene posto ai voti per via telematica il testo, e la relazione del segretario. La linea passa, con un voto misto in presenza e da remoto. Ma oltre ai nomi già citati si registrano le dissociazioni di dirigenti come Sesa Amici, l'ex ministro Barbara Pollastrini, Tommaso Nannicini, il capo delegazione del Pd a Strasburgo Brando Benifei. Dice l'orfiniano Francesco Verdicci: «Si affronta questo taglio con un tatticismo esasperato pur di blindare l'alleanza strategica coi 5 stelle, mentre invece questo voto è uno spartiacque che riguarda la nostra identità e cultura politica». L'ordine del giorno approvato ha un tono solenne che cerca di mascherare ogni dissidio: «Il Partito democratico condivise, nel programma posto alla base del secondo governo Conte, la proposta di riduzione del numero dei parlamentari, ponendo come condizioni essenziali l'adeguamento dei regolamenti parlamentari e delle norme costituzionali e la necessaria riforma del sistema elettorale». E aggiunge: «La discussione tra le forze politiche che compongono la maggioranza ha solo ora, dopo i mesi di lockdown, prodotto un testo base unitario per la Legge elettorale che, grazie al lavoro ed all'iniziativa del segretario e dei presidenti dei gruppi parlamentari, sarà in discussione, insieme alle modifiche costituzionali nelle prossime settimane». Ma soprattutto: «La nostra iniziativa ha, dunque, prodotto i risultati tangibili necessari ad accompagnare la riforma costituzionale proposta, anche se purtroppo non nei tempi auspicati così come l'accordo di programma della maggioranza prevedeva con chiarezza». Il testo conteneva anche una mano tesa ai riottosi: «Si comprendono alcuni rilievi di chi ha maturato una posizione contraria al taglio dei parlamentari. Va ricordato che l'obiettivo della riduzione del numero dei parlamentari, nel quadro di un ammodernamento organico e coerente degli assetti istituzionali, è da tempo questione posta dal Pd e dal centrosinistra. Oggi riteniamo si siano chiariti i dubbi relativi alla volontà delle forze politiche di maggioranza di rispettare gli impegni». Alla fine l'area Orfini non partecipa al voto, i perplessi si mettono in riga. Il Pd dice sì, e attende il voto delle urne sperando di riuscire a recuperare il suo popolo con le stesse argomentazioni con cui ha convinto quasi tutti i suoi dirigenti. Sarà meno facile.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)