2020-09-19
Il nuovo trattato di Dublino di Ursula è una fregatura come quello vecchio
Ursula Von der Leyen (Ansa)
Emergono indiscrezioni sulla riforma del patto europeo. E, sorpresa, a farsi carico dei nuovi arrivati dovrà essere sempre il Paese di primo approdo. Proprio la norma che ci ha reso il campo profughi dell'Unione.Ieri altri 48 ospiti della nave delle Ong si sono gettati in acqua per forzare la mano. Alla fine il trasbordo è stato autorizzatoLa Corte ha dato ragione alla Spagna, accusata di aver operato respingimenti «I clandestini potevano chiedere asilo nei consolati iberici dei loro Paesi» Un modello che andrebbe imitatoLo speciale contiene tre articoliQuando si tratta dell'Ue, essere buoni profeti è facile: basta prevedere il peggio, e si hanno ottime possibilità di azzeccare. Appena due giorni fa, commentando la sortita all'Europarlamento di Ursula von der Leyen («Aboliremo il regolamento di Dublino. Lo rimpiazzeremo con un nuovo sistema europeo di governance delle migrazioni. Avrà strutture comuni per l'asilo e i rimpatri», insieme a «un forte meccanismo di solidarietà»), La Verità chiosava: «La tedesca è rimasta nel vago, né si vede come potrà superare quel regime di volontarietà che, fino a oggi, ha consentito a molti Paesi di disimpegnarsi, lasciando il fardello sulle spalle dell'Italia».È stato sufficiente attendere un paio di giorni per avere conferma dell'ennesima fregatura. Ufficialmente il pacchetto sarà svelato il 23 settembre, ma già le prime anticipazioni (ieri qualcosa è trapelato sul Corriere della Sera) fanno capire che aria tira. Non sarà toccato il caposaldo dello status quo, e cioè il punto più sgradevole per l'Italia, ovvero la responsabilità unica a carico del Paese di primo ingresso sulle domande di asilo. Né si farà alcun passo sostanziale verso il ricollocamento obbligatorio in altri paesi. Il massimo che si prevede è un aiuto (anzi, un aiutino) economico, e cioè il fatto che i costi di gestione e rimpatrio (in caso di reiezione della domanda) potrebbero finire a carico di un altro Paese, che però si guarderebbe bene dall'aprire i suoi confini per accogliere il richiedente asilo. Come dire: cara Italia, ti paghiamo qualche spicciolo, ma continua tu a fare il campo profughi per tutti noi. Quanto poi ai migranti economici (e quindi alla grande maggioranza di coloro che sbarcano, che non hanno diritto allo status di rifugiato), le bozze sono fumose: parlano di «rimpatri europei» e di accordi con i paesi terzi, legando gli aiuti economici Ue alla disponibilità a riprendersi i connazionali. Esattamente ciò che non si è riusciti a fare da anni e anni. Quanto all'iter del pacchetto, si tratta come sempre di un cammino tortuoso e farraginoso. Il 23 viene presentata la bozza. Ma poi occorrerà trovare un'intesa in Consiglio: una vera e propria impresa, visto che nessuno vuole farsi carico del fardello dei ricollocamenti, meno che mai in forma obbligatoria. A chiacchiere, trattandosi del suo semestre di presidenza, la Germania spingerà per un qualche accordo, ma, su una materia elettoralmente tanto delicata, nessun governo sarà disposto a suicidarsi davanti alla propria opinione pubblica per fare un favore all'Italia. Siamo insomma agli stessi nodi di sempre. A gennaio scorso, si era esibito sul tema Margaritis Schinas, il greco già portavoce della Commissione Juncker e protagonista di comunicati irridenti verso l'Italia quando il duo Moscovici-Dombrovskis imperversava contro l'allora governo gialloblù, e che ora vive una nuova vita nella Commissione guidata da Ursula von der Leyen. È infatti uno degli otto vicepresidenti del nuovo esecutivo Ue, e coordina proprio il lavoro sul pacchetto immigrazione. A gennaio, intervistato da Repubblica, recitò la consueta giaculatoria («L'Europa non può permettersi di fallire una seconda volta sui migranti») e proseguì con il preannuncio di un fantomatico «patto», cioè esattamente quello che ha impiegato ben nove mesi a partorire (una gravidanza politica, è il caso di dire).Il guaio è che anche ora, come nove mesi fa, i contenuti del patto appaiono fumosi o addirittura surreali. Il primo esempio l'abbiamo fatto prima, e riguarda i paesi africani, a cui l'Ue proporrà dei «comprehensive partnership agreements» che dovrebbero includere «soldi, investimenti, scambi commerciali, visti, sanità e programmi Erasmus». A gennaio Schinas si guardò bene dal dire quanti soldi l'Ue intendesse stanziare: unico argomento convincente per gli interlocutori africani. A meno di bersi la favoletta secondo cui questi paesi frenerebbero le partenze e si riprenderebbero chi non ha diritto d'asilo. Senza dire che parlare di Erasmus ad esempio in Nord Africa, in situazioni disordinate, insicure, di conflitti latenti o addirittura in corso, appare ai confini della realtà.Secondo esempio. Per «disincagliare la riforma del diritto d'asilo» Schinas preannunciò il lancio di «una serie di panieri ai quali tutti i governi dovranno contribuire scegliendone almeno uno». E quali sarebbero questi panieri? «Ricollocamenti, oppure soldi, mezzi, personale, o partecipazione attiva a singole missioni». Morale della favola: è scontato che la maggior parte dei paesi non opterà per i ricollocamenti, e l'Italia rimarrà con il suo problema. Terzo e ultimo esempio. Schinas elogiò l'accordo di Malta («sta funzionando benissimo»). Ma dimenticò di dire alcune cose: che l'accordo era temporaneo («temporary arrangement»); che era su base volontaria, e non c'era modo di forzare i paesi Ue ad aderirvi; che riguardava i migranti presi in carico dalle navi Ong (il 9% circa di quelli arrivati l'anno scorso in Italia); che la sperimentazione durava sei mesi, ma se i numeri fossero cresciuti troppo («substantially rise»), l'intero meccanismo sarebbe stato di fatto sospeso. E' la ragione per cui - senza pietà verso i nostri governanti che ancora brindavano - la stampa francese (Le Figaro in testa) fin dal primo giorno definiva l'accordo «revocable». Morale: a numeri bassi, come è accaduto l'inverno scorso, anche gli altri paesi hanno avuto tutto l'interesse a collaborare, a far bella figura a costo irrisorio. Ma con il ritorno dell'estate e dei numeri elevati, l'Italia si è ritrovata con i problemi di sempre. A settembre del 2020, siamo ancora a questo nodo irrisolto. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-nuovo-trattato-di-dublino-di-ursula-e-una-fregatura-come-quello-vecchio-2647713222.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-ricatto-dei-tuffi-ha-funzionato-open-arms-sbarca-tutti-gli-immigrati" data-post-id="2647713222" data-published-at="1600465836" data-use-pagination="False"> Il ricatto dei tuffi ha funzionato Open Arms sbarca tutti gli immigrati Benché cosmopolite per vocazione, le Ong devono avere imparato in fretta un tradizionale detto italico: fatta la legge, trovato l'inganno. Che, nel loro caso, diventa: fatti i decreti, trovato il modo di aggirarli. L'ultima usanza in voga sui barconi degli attivisti, per esempio, è quella di fare pressione sulle autorità italiane tramite tuffi di massa degli immigrati. La nuova, allarmante tendenza è stata sperimentata dalla nave Open Arms, da due giorni in rada davanti al porto di Palermo: giovedì era accaduto con 76 migranti buttatisi in mare, ieri mattina il copione si è ripetuto con altri 48. E alla fine l'Italia ha ceduto, autorizzando lo sbarco anche dei 140 che restavano a bordo, trasferiti sulla Gnv Allegra in porto a Palermo per la quarantena. «Finalmente sono stati fatti scendere», ha commentato Riccardo Gatti, capo missione e direttore italiano di Open Arms, «non sappiamo perché abbiano perso tutto questo tempo. Immaginiamo per svuotare la nave quarantena. Ma questi ritardi e le chiusure dei porti, creano un'emergenza sull'emergenza. A bordo non avevamo più cibo e la situazione era critica. Per fortuna questa attesa è finita». L'atmosfera da «fate presto» (uno slogan buone per tutte le occasioni e sempre prodromico delle peggiori fregature) era del resto stata creata già dalle ore precedenti. A cominciare dai social: «Un'altra mattina senza sbarco per i disperati della Open Arms. Altre 48 persone si tuffano in mare. Un'altra richiesta di assistenza dall'equipaggio di Sea Watch 4. Per quanto tempo giocheremo a questo gioco vergognoso e pericoloso, Europa?», twittava l'account di Sea-Watch International. E Open Arms It rilanciava: «Siamo ancora di fronte a Palermo senza poter sbarcare né avere alcuna indicazione. A bordo la sofferenza aumenta, degli ospiti e dell'equipaggio. Altre 48 persone si sono gettate in acqua. #Unportosicurosubito». Il fondatore dell'Ong, lo spagnolo Oscar Camps, diffondeva anche un video con i migranti che dalla nave si tuffavano in acqua. Tutti dotati di giubbotto salvagente. Ed è una fortuna, ovviamente. Ma è anche una circostanza che forse merita qualche attenzione: a meno che i giubbotti di salvataggio non siano stati saccheggiati con la forza, infatti, c'è da pensare che a fornirli siano stati i volontari della Ong. Il tuffo in acqua era forse programmato a mo' di cinico strumento di pressione? Non lo sappiamo, anche se, come ha riportato ieri La Verità, il sospetto serpeggiante fra le autorità italiane parrebbe essere proprio questo. Lo stesso iter seguito dalla Open Arms sembrerebbe indicarlo, a cominciare da quanto visto a largo delle acque maltesi: dopo il solito diniego dalle autorità della Valletta allo sbarco, alcuni immigrati si sono buttati giù dalla nave. Ed è proprio a quel punto che Roma ha concesso alla nave spagnola di dirigersi verso Palermo, con l'ordine di tenersi ad almeno cinque miglia dalla costa, in attesa di successive indicazioni. Una volta che la Open Arms è giunta di fronte al porto siciliano, il copione si è ripetuto, stavolta in grande stile: 76 tuffi. Persone che ovviamente le autorità sono tenute a salvare, come è giusto che sia. A meno che, tuttavia, il gesto di apparente disperazione non sia un'arma di ricatto politico nei confronti di uno Stato sovrano che protegge, peraltro in maniera assai platonica, i propri confini. Sta di fatto che ieri, come detto, altri 48 migranti, perfettamente equipaggiati, hanno tentato la «mossa della disperazione». Avendo, alla fine, ragione delle leggi italiane. E i social di Open Arms hanno festeggiato: «10 giorni dopo aver soccorso 276 persone in acque internazionali e dopo aver raggiunto una situazione limite a bordo, l'Italia autorizza sbarco dei 140 naufraghi, che trascorreranno la quarantena su nave Allegra». Una chiosa quasi stizzita, a dirla tutta. Resta comunque da capire se ora la prassi del tuffo ricattatorio sia diventata la normalità con cui dovremo fare i conti da qui in avanti. E se i sospetti su di un'azione pianificata con qualcuno per forzare i confini italiani troveranno conferma. Nel frattempo, per non farci mancare nulla, una settantina di clandestini sono stati rintracciati sul Carso triestino. Si tratta di migranti che hanno viaggiato lungo la cosiddetta «rotta balcanica». Tutte le persone rintracciate sono maschi, in parte di nazionalità afghana, in parte provenienti dal Bangladesh. I migranti irregolari sono stati portati in commissariato a Fernetti (vicino al confine con la Slovenia) dove sono in corso le procedure per l'identificazione. E senza neanche bisogno di un tuffo. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-nuovo-trattato-di-dublino-di-ursula-e-una-fregatura-come-quello-vecchio-2647713222.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="una-sentenza-di-strasburgo-ci-indica-la-strada-per-proteggere-i-confini" data-post-id="2647713222" data-published-at="1600465836" data-use-pagination="False"> Una sentenza di Strasburgo ci indica la strada per proteggere i confini Un qualsiasi governo italiano il quale concepisse l'idea di risolvere il problema dell'immigrazione irregolare mediante accordi con i Paesi di provenienza che consentissero il respingimento in massa di quanti tentassero di raggiungere, senza averne titolo, il territorio dello Stato (così come si era fatto a suo tempo con la Libia di Gheddafi), si troverebbe a fare i conti (oltre che con la prevedibile sollevazione di tutto il gallinaio, nazionale ed estero, degli invasati dal furore immigrazionista), anche con l'arcigna giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, quale rappresentata, in particolare, dalla nota sentenza Hirsi Jamaa c. Italia del 23 febbraio 2012. Con questa sentenza, infatti, la Corte di Strasburgo ritenne l'Italia responsabile di violazione del divieto, previsto da una specifica norma internazionale, delle «espulsioni collettive», equiparando ad esse i «respingimenti collettivi», tra i quali veniva fatto rientrare quello costituito, nel caso specifico, dal riaccompagnamento coattivo sulle coste della Libia, dalle quali erano partiti, di un gruppo di «migranti» raccolti in acque internazionali, a seguito di una richiesta di soccorso, da unità della marina militare italiana. In tal modo, secondo la Corte, sarebbe stata indebitamente preclusa, a quelli tra i «migranti» (nessuno dei quali identificato) che avessero avuto l'intenzione di chiedere l'ammissione ad una qualche forma di protezione internazionale, la possibilità di raggiungere il territorio italiano e quindi di presentare alla competenti autorità italiane la relativa richiesta. Ora, appare evidente che alla luce (si fa per dire) di una tale pronuncia dovrebbe giungersi ad una conclusione palesemente assurda: quella, cioè, per cui ogni singolo Stato, pur avendo, teoricamente, in base ad un elementare ed indiscusso principio di diritto internazionale, il potere di vietare l'ingresso nel proprio territorio a chiunque non abbia valido titolo per esservi ammesso, dovrebbe, di fatto, rinunciarvi, astenendosi dal respingere tutti coloro che, in ipotesi, si presentassero in massa alla sua frontiera o addirittura venissero intercettati (come nel caso suindicato), nel tentativo di raggiungerla; e ciò sol perché tra di essi potrebbero esservene alcuni, pochi o molti che siano, intenzionati a presentare domanda di protezione internazionale e ad acquisire in tal modo, secondo la vigente normativa europea, il diritto a non essere allontanati fino a che sulla stessa domanda non sia stato provveduto dalla competente autorità. Vi è però da dire che di questa assurdità ha mostrato, in qualche modo, di rendersi conto, pur senza confessarlo esplicitamente, la stessa Corte di Strasburgo, la quale, con una successiva sentenza del 13 febbraio 2020, N.D. ed N.T c. Spagna, ha respinto il ricorso proposto contro la Spagna da alcuni «migranti» i quali, avendo tentato, con numerosi altri, di superare di forza la recinzione posta a difesa delle città spagnole di Ceuta e Melilla, erano stati respinti in massa, «manu militari», dalla Guardia civile spagnola nel territorio marocchino, dal quale provenivano. A sostegno di tale decisione la Corte, pur confermando, in linea di principio, i presupposti in diritto della sentenza Hirsi (da ritenersi validi, a suo giudizio, anche nel caso in cui il confine che si vuole superare non sia quello di mare ma quello di terra), ha tuttavia aggiunto che, in sostanza, non può ritenersi illegittimo il respingimento collettivo quando siano stati gli stessi «migranti» ad avergli dato colpevolmente causa; il che avviene, in particolare, quando essi non abbiano inteso avvalersi delle possibilità che, in concreto, avrebbero avuto di presentare le loro eventuali richieste di protezione internazionale nei modi legali previsti dallo Stato al quale tali richieste avrebbero dovuto essere rivolte. Nel caso in discorso, sempre secondo la Corte, l'esistenza di quelle possibilità sarebbe stata da riconoscere, giacché i «migranti», oltre a presentare le richieste in questione al valico di frontiera esistente fra il territorio spagnolo e quello marocchino, avrebbero potuto validamente presentarle, in base alla legislazione spagnola, anche a qualsiasi rappresentanza diplomatica o consolare della Spagna nel mondo. Ed è a quest'ultimo proposito che la pronuncia della Corte di Strasburgo potrebbe essere oggetto di interesse anche per il nostro Paese, considerando che la legislazione italiana, a differenza di quella spagnola, non prevede la possibilità che le richieste di protezione internazionale siano presentate presso le rappresentanze diplomatiche o consolari all'estero, ma impone (art. 6 del D.L.vo n. 25/2008) che la presentazione avvenga presso la polizia di frontiera all'atto dell'ingresso del richiedente nel territorio nazionale ovvero presso la questura del luogo di dimora, in Italia, dello stesso richiedente. In tali condizioni un eventuale respingimento di «migranti» intercettati o soccorsi in mare verso le coste del Paese di provenienza (anche se non fossero quelle della Libia, a ragione o a torto considerate «insicure») cadrebbe inesorabilmente sotto la mannaia della Corte di Strasburgo, in applicazione dei principi da essa affermati con la sentenza Hirsi e non contraddetti, come si è visto, con la successiva sentenza del 13 febbraio 2020. Ma la conclusione dovrebbe essere, a rigore, diametralmente opposta, sulla base di quanto aggiunto con detta ultima sentenza, se anche nella legislazione italiana, come in quella spagnola, fosse consentita la presentazione delle richieste di protezione internazionale presso la rappresentanze diplomatiche e consolari all'estero. Sarebbe quindi ragionevole attendersi che di una semplice e indolore modifica in tal senso della vigente normativa italiana si facesse carico un governo che, al di là di ogni condizionamento ideologico, fosse realmente preoccupato di ricercare tutti i modi possibili per stroncare il fenomeno dell'immigrazione irregolare; il che significherebbe, al tempo stesso, stroncare la deprecata (a parole) ignobile attività degli organizzatori a pagamento dei «viaggi della speranza» dalle coste settentrionali dell'Africa al territorio italiano. Ma far conto, di questi tempi, sulla capacità di un governo come quello italiano di assumere iniziative ragionevoli, specialmente in tema di immigrazione, equivarrebbe, purtroppo, a credere nella Befana.