2020-12-11
Il «Natale di sangue» di D’Annunzio insegna che non si vive senza rischio
Cent'anni fa si concludeva, con una lotta fratricida tra italiani, l'impresa fiumana dei legionari guidati dal Vate. I cui scritti, raccolti ora in un libro, mostrano quanto sia importante tenere sempre vivo lo spirito.Una città assediata. Il popolo asserragliato in casa, a sperare che si possa evitare il peggio. I giorni dell'Avvento che scorrono nel timore e nella paura, mentre su tutto incombe la pesante sensazione che la partita sia ormai conclusa. Il Natale che giunge diversamente dal solito, portandosi dietro troppa tristezza. Vi ricorda qualcosa? Rispetto a cent'anni fa, oggi c'è molta tragedia in meno, e tanta (troppa) farsa in più. Ma forse è proprio per questo che la vicenda di Fiume e del suo «Natale di sangue» ci appare ancora così vicina e ha tanto da insegnarci a distanza di un secolo. Nel dicembre del 1920, infatti, terminava la sfolgorante impresa di Gabriele D'Annunzio e dei suoi legionari, che dovettero lasciare il campo «vinti ma invitti»: «Abbandonati dalla vittoria, sentivamo di essere vittoriosi. Costringevamo a vincere l'Italia che non voleva aver vinto». Deposero le armi dopo essere stati combattuti (e talvolta trucidati) dai loro stessi fratelli. Altri italiani, i militari dell'esercito regio guidato dal generale Caviglia, inviati dal governo liberale per far cessare una volta per tutte la follia della reggenza dannunziana di Fiume. Un capolavoro terminato nel sangue, eppure non una sconfitta, bensì un sacrificio. «In mezzo a questo campo trincerato noi abbiamo posto le fondamenta d'una città di vita, d'una città novissima», scrisse il Vate, riprendendo un precedente discorso, nell'ottobre del 1920. Le sue parole su Fiume, quasi un epitaffio, sarebbero andate a comporre un testo memorabile intitolato La fiamma intelligente, sorta di introduzione al Nuovo ordinamento dell'esercito liberatore, firmato dal poeta assieme a Giuseppe Piffer. Entrambi gli scritti, tra i meno noti al grande pubblico dell'intera produzione dannunziana, vengono ora ristampati dall'editore Passaggio al bosco in un bel libro, La sola ragione di vivere, a cura di Emanuele Merlino. Giova sfogliarlo oggi, nei giorni opprimenti del Covid, non tanto per ricordare il centenario di un esperimento fallito, quanto per riaccostarsi - almeno per un momento - allo spirito che soffiò su tutta l'impresa fiumana. Un spirito perduto, e da rimpiangere, perché ci permetterebbe adesso di andare incontro alle difficoltà con tutt'altra leggerezza d'animo. Il sacrificio di D'Annunzio e dei legionari, in fondo, non è servito che a questo: a donarci una luce splendente a cui guardare nei momenti bui. «Abbiamo conciato le pietre e abbiamo squadrato le travi che affideremo alla generazione sorta dal sacrifizio di sangue e di sudore perché le aduni e le congegni», scriveva ancora il poeta. «L'Italia dei disertori e dei truffatori può ignorare questa meravigliosa novità, o disconoscerla, o deturparla. Essa vige e splende. Ha il vigore e lo splendore d'una quinta stagione sul mondo». Con vigore i dannunziani si opposero ai politici romani, a Giovanni Giolitti e a tutti gli altri che avrebbero poi firmato il trattato di Rapallo con gli jugoslavi, cominciando così a lasciare la mano di Fiume e degli italiani che, negli anni a venire, avrebbero subito la persecuzione, l'esodo e il genocidio. La fine della Fiume dannunziana nel Natale del 1920, infatti, è anche in qualche maniera l'inizio dell'inferno dei dalmati e degli istriani. Una pena che viene continuamente ravvivata. Lo dimostrano le offese rivolte, pochi giorni fa, alla memoria di Norma Cossetto (ragazza di 23 anni stuprata e uccisa dai titini nel 1943) da alcuni esponenti della sinistra politica e «intellettuale» di Reggio Emilia, che non hanno voluto intitolare una via alla giovane martire e addirittura si sono rivolti alla presidenza della Repubblica affinché riesamini la sua vicenda, magari per levarle la medaglia d'oro al valor civile conferitale nel 2005 da Carlo Azeglio Ciampi. Il 24 dicembre 1920 l'esercito regio iniziò ad avanzare, e fu scontro nelle piazze, nelle vie, in ogni dove. Il 26 dicembre una cannonata sparata dalla nave Andrea Doria colpì l'ufficio di D'Annunzio, che riportò una ferita al capo, salvo poi gridare spavaldo che avevano appena scalfito la sua «testa di ferro». Qualcuno dice che fu una pazzia non arrendersi, che l'arroganza del Vate provocò il disastro. Ma ha ragione Maurizio Serra quando scrive che in quei giorni del 1920 Gabriele «non può accettare ad alcun prezzo di cedere davanti ai suoi uomini e ai suoi avversari». Era tutta, a conti fatti, una questione d'eroismo. Non suicida e scriteriato, ma consapevole che, della sopravvivenza fisica, vale più lo slancio dello spirito. Ecco che cosa ci mostra - qui, ora - l'epopea fiumana. L'importanza del rischio, la consapevolezza che con la morte dobbiamo tutti, in un modo o nell'altro, fare i conti. «Memento audere semper», motteggiava il Vate, ardito. E teneva in effetti la morte come sorella, non a caso era fra gli innamorati di San Francesco d'Assisi, di cui adorava il Cantico delle creature. «Laudato si' mi' Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare», scriveva il santo. D'Annunzio aggiungeva: «E beati quelli ke morranno a bona guerra». Cent'anni dopo, il nostro non sarà per fortuna un Natale di sangue, anche se i governanti mettono ancora italiano contro italiano. Cent'anni dopo non si tratta di lanciarsi in battaglia soffiando il grido d'Achille (il celebre «Alalà»). Ma, più modestamente, di tenere viva la fiamma. Una fiamma «intelligente», appunto, con la consapevolezza che non a tutto si può cedere pur di preservare l'esistenza materiale. Si tratta, alla fine, di serbare nel cuore almeno un po' l'insegnamento del poeta: «Se per noi è lo spirito, chi varrà contro di noi?».
La Global Sumud Flotilla. Nel riquadro, la giornalista Francesca Del Vecchio (Ansa)
Vladimir Putin e Donald Trump (Ansa)