2024-12-23
«Il mondo si sta spostando a destra»
Il politologo Giovanni Orsina: «Dai migranti al green, la storia sta dando ragione al nostro premier, che ora può fare da ponte tra popolari e sovranisti. Con l’assoluzione di Salvini, il Pd ha di nuovo pagato il prezzo del suo giustizialismo».«Continuo a rimanere della mia opinione: questo processo non s’aveva da fare. È stato un processo troppo politico». Giovanni Orsina, storico, direttore del Dipartimento di Scienze politiche della Luiss, non ha dubbi sulla vicenda giudiziaria conclusasi con l’assoluzione del ministro Salvini.Perché il processo al capo della Lega non doveva essere neanche celebrato?«Portare un ministro che compie un atto politico a processo penale è un’operazione estremamente delicata, che dev’essere compiuta soltanto in casi estremi e su una base giuridica molto solida. È un’operazione delicata perché non può non risucchiare il potere giudiziario all’interno del conflitto politico, mettendone a repentaglio la credibilità e indebolendo il principio della leale cooperazione fra i poteri. Un processo così fatto è oggettivamente, inevitabilmente un processo anche politico. Dopodiché, portare un ministro a processo penale è previsto dal nostro ordinamento e quindi si può fare. Ma i procuratori dovrebbero utilizzare quest’arma con estrema prudenza, solo se possono farlo da posizioni di grande forza giuridica. Bene: i giudici di Palermo ci hanno appena detto che questa forza giuridica non c’era, anzi che il tutto è stato fatto su basi quanto mai fragili. L’iniziativa dei procuratori ne esce quindi come una grande forzatura, e più ne deperiscono le basi giuridiche, più, inevitabilmente, ne vengono in evidenza quelle politiche. Ne valeva la pena? Valeva la pena mettere sotto pressione le istituzioni, la collaborazione fra i poteri, la credibilità del potere giudiziario per ottenere questo risultato? A me pare proprio di no».Dunque, uno sconfinamento?«Come detto, è stata una grande forzatura. Un tentativo, in definitiva, di ridisegnare i confini tra poteri dello Stato, comprimendo le prerogative della politica e allargando quelle delle corti. Un tentativo di fronte al quale la politica non poteva che difendersi».Ma tutto è iniziato politicamente, in Parlamento, con il via libera al processo.«Questa è la parte più paradossale della storia: che la politica, con un voto in Senato, abbia avallato un tentativo di comprimere le prerogative della politica stessa. Un gesto autolesionistico, la scelta di segare il ramo su cui si è seduti. L’obiettivo era ovviamente quello di colpire l’avversario, ossia mandare a processo Salvini, ma per conseguire quell’obiettivo si finiva per indebolire la politica nel suo complesso. Con un’aggravante: che ad aver votato contro Salvini sono stati i 5 stelle, che pure esprimevano il governo di cui il ministro faceva parte. Una pagina politica fra le peggiori degli ultimi anni, se non decenni».Tutto questo prescinde dal verdetto di assoluzione di Palermo?«L’assoluzione ha rimesso le cose a posto, certificando la forzatura e disinnescandola. Ma le scorie rimangono. Questa vicenda non è isolata, è un esempio fra i tanti di uno squilibrio profondo nei rapporti tra politica e magistratura, frutto di un conflitto ormai pluridecennale sulla definizione dei confini tra ciò che è politico e ciò che è giudiziario. Un conflitto non soltanto italiano, peraltro».All’ordine giudiziario mancano gli anticorpi per evitare certi eccessi?«È un discorso delicato. Mi pare che, per ragioni storiche, nel corso della vita della Repubblica i singoli magistrati abbiano guadagnato spazi crescenti di autonomia non soltanto dagli altri poteri dello Stato, ma anche dallo stesso ordinamento giudiziario nel suo complesso. La farraginosità e le ambiguità delle norme italiane e la loro complessa interazione con le norme europee e internazionali hanno ulteriormente accresciuto l’entropia. Questo lascia spazio a iniziative individuali non sempre provvide, che poi magari il sistema riesce a correggere, ma senza poter evitare danni per la certezza del diritto, la coerenza dell’ordinamento, la credibilità della magistratura agli occhi dei cittadini. E quando le iniziative individuali hanno una grande rilevanza politica e mediatica, il danno è particolarmente grave. Pensiamo al recentissimo caso di Renzi, o anche a quest’ultimo di Salvini: il sistema giudiziario ha corretto le iniziative improvvide dei procuratori, ma la sensazione che resta all’opinione pubblica è che alla radice ci fossero intenti politici. Questo non fa bene innanzitutto alla magistratura».Vede una via d’uscita? Non c’è il rischio di una risposta sproporzionata da parte della politica?«Certo che c’è. Si tratta di ricostruire un equilibrio, non di passare da uno squilibrio a un altro. Oggi, comunque, la politica deve riprendersi le proprie prerogative. E le parti più ragionevoli della magistratura dovrebbero comprendere che la difesa di certi meccanismi corporativi non è più sostenibile».L’aderenza della sinistra alla magistratura sembra ancora molto forte. Il Pd si è opposto all’istituzione della giornata nazionale per le vittime della giustizia, accodandosi all’Anm.«Una tendenza che va avanti dal 1992, se non da prima. Una sinistra in crisi di iniziativa politica tende a seguire la scorciatoia giudiziaria. Comprensibile ma miope e, sul medio periodo, perdente».La sinistra ha pagato il prezzo del suo giustizialismo?«Sì, il giustizialismo si è ritorto contro il Pd già da anni, perché ha generato un fenomeno ancor più giustizialista, cioè i 5 stelle. I quali hanno conquistato la ribalta proprio quando la sinistra è rimasta impigliata in vicende giudiziarie di natura corruttiva. Insomma, il Pd dovrebbe imparare dal passato, ma non impara, perché non può resistere di fronte alla comoda opportunità di mettere in difficoltà il governo. I benefici immediati prevalgono sui danni di medio e lungo periodo. Ma il medio e lungo periodo, prima o poi, arriva».Un gioco che nuoce alla sfera d’azione della politica, lei dice. Ma il Pd è stato descritto negli ultimi anni come il partito delle istituzioni, dei rapporti con i poteri europei ed economici, insomma della politica con la maiuscola. Non vede una contraddizione?«In realtà, anche l’europeismo della sinistra rappresenta una ricerca di supplenza di fronte alla debolezza della politica. A partire dagli anni Settanta, la politica è deperita, non soltanto in Italia, per una serie di motivi, fra i quali i processi di individualizzazione e di globalizzazione. A questo processo storico, che ha messo in difficoltà tutti i partiti, la sinistra ha reagito cercando un appoggio al di fuori della politica: la magistratura, il linguaggio dei diritti, ma anche le tecnocrazie nazionali ed europee. E non riesce più a uscire da questa trappola, non riesce a ritrovare un ubi consistam politico».E perché è così difficile?«Perché per farlo bisognerebbe tornare ad abbracciare lo Stato nazionale, che resta pur sempre il luogo primario della politica. Ma una sinistra cosmopolita non riesce a compiere questo passo. Non per caso si vedono emergere esempi di sovranismo di sinistra, basti pensare al boom dei “rossobruni” di Sahra Wagenknecht in Germania. Ma sono esempi eccentrici: la sinistra mainstream, da questo orecchio, proprio non ci sente».E l’idea di rifondare un centro progressista, come starebbe pensando Giuseppe Sala e Romano Prodi?«Uno spazio di centro sinistra c’è, ma non poi così grande. Entrare in questo spazio e coltivarlo in maniera efficace è complicato, per due motivi. Uno: c’è bisogno di una leadership forte, per varie ragioni né Renzi né Calenda stanno funzionando, e di alternative ancora non se ne vedono. Due: con l’attuale sistema elettorale, sarebbe obbligatorio fare alleanze con Pd, 5 stelle e Avs. Partiti incompatibili su molti temi cruciali. Non si possono nascondere certe differenze, perché l’elettorato di sinistra è molto attento a certe cose».Lei sostiene che il populismo attraversa tre fasi: l’esclusione, l’integrazione, e poi il governo. La Francia sembra nella fase due. In Italia invece, siamo più avanti. Giorgia Meloni dove sta andando, dopo due anni di governo?«Meloni si è collocata in una posizione intermedia, ambigua, restando sospesa tra una destra identitaria e un centrodestra moderato. Una volta al governo, ovviamente è diventata più istituzionale nei comportamenti, mantenendo tuttavia una retorica più radicale, soprattutto agli eventi di partito. Questa collocazione le fa comodo, perché le consente di fare da ponte tra i popolari e i sovranisti».La strategia funziona? I consensi sembrano ancora esserci, nonostante le ambiguità.«Anche io pensavo che, prima o poi, quest’ambiguità dovesse sciogliersi. Sbagliavo. Alla fine, Meloni ha un grande vantaggio: la storia le sta dando ragione».Cioè?«Il mondo si sta chiaramente spostando verso destra. E quindi Meloni, che qualche anno fa era eccentrica, pur restando ferma si sta avvicinando sempre di più al baricentro della politica. Basti pensare alle politiche migratorie: se Meloni può lavorare con l’Europa sull’immigrazione, è perché l’Europa si è avvicinata a Meloni, e non il contrario. Portare i migranti in Albania sarebbe stata una proposta irricevibile solo qualche anno fa: oggi tutti riconoscono che si tratta di un’idea interessante. Il Ppe nel frattempo si sta spostando sempre più a destra. Persino sul Financial Times, la Bibbia degli europeisti, si comincia a seppellire il Green deal: sono idee che in passato sarebbero state etichettate come “antisistema”».Dunque?«Forse bisogna iniziare a dirlo con chiarezza: il mondo sta cambiando radicalmente e rapidamente, e sta andando nella direzione della Meloni. La quale ha avuto il merito di indovinare il corso della storia, anche con una buona dose di fortuna. Che pure in politica, aiuta».
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.