Youtrend, società di rilevazioni delle tendenze politiche assai vicina alla sinistra, ha messo a confronto i due schieramentinelle Regioni andate al voto e il risultato è che Fdi, Lega e Forza Italia stanno al 46,8%, mentre l’opposizione sta al 49,7%. Dunque, i progressisti sono avanti e potrebbero vincere al prossimo giro? Non proprio, perché le sei Regioni in cui si sono svolte le elezioni non rappresentano tutta l’Italia, ma solo una parte di essa, quella più spostata a sinistra. Tuttavia, per capire come è andata domenica e lunedì scorsi basta guardare cosa presero le due coalizioni alle ultime politiche. Il centrodestra aveva il 42,7%, il centrosinistra il 51,4%. In pratica, se tre anni fa il centrosinistra era avanti di 8,7 punti nelle sei Regioni, oggi il vantaggio si è ridotto al 2,9%. Altro che vittoria. Macché fine della luna di miele tra centrodestra e italiani. Ma a prescindere da numeri, flussi elettorali e formule politiche, nel 2025 sono andati alle urne gli abitanti di sei Regioni. Tre di queste erano guidate dal Pd, mentre le altre tre erano governate da un leghista, da un esponente di Fratelli d’Italia e da uno di Forza Italia. Alla fine, tre sono rimaste a sinistra, tre sono restate a destra. A un certo punto, con Matteo Ricci, ex sindaco di Pesaro, Schlein aveva pensato di poter riconquistare le Marche, battendo il pupillo di Meloni. Ma nonostante i sondaggi tarocchi fatti circolare alla vigilia del voto nella speranza di influenzare il risultato, in Regione è stato confermato Francesco Acquaroli. In Veneto, prima c’era un leghista di lungo corso come Luca Zaia e ora c’è un giovane leghista come Alberto Stefani. E in Calabria Roberto Occhiuto di Forza Italia è succeduto a Roberto Occhiuto. Insomma, in conclusione pari e patta: tre a tre, come prima. E però un cambiamento si registra in una delle tre Regioni governate dalla sinistra: in Campania, dove prima governava Vincenzo De Luca, ovvero un governatore del Pd, adesso c’è Roberto Fico, ex presidente della Camera e grillino della prima ora. In altre parole, Giuseppe Conte ha guadagnato un presidente di Regione ed Elly Schlein lo ha perso. Volendo sintetizzare, la coalizione di centrosinistra è un po’ più di sinistra di prima e un po’ meno di centro, non proprio una buona notizia per quanti sognano di rifondare una democrazia cristiana in formato terza Repubblica. Il paradosso della vittoria di Fico però è che a portarlo al successo sono stati soprattutto i voti del Pd, non certo quelli del Movimento 5 stelle, che con le regionali ha ottenuto uno dei peggiori risultati di sempre, perdendo anche in Calabria, dove pure aveva schierato il papà del reddito di cittadinanza (Pasquale Tridico). Un’ultima osservazione su un fattore che evidenzia le contraddizioni a sinistra è il risultato di Puglia e Toscana, dove ha vinto l’ala socialista del partito democratico, cioè quella che si contrappone all’attuale segretaria. Dunque, per andare al sodo: dopo il voto gli equilibri nel centrodestra restano immutati, mentre nel centrosinistra in Campania si volta pagina con un grillino e nelle altre due Regioni vince la linea che contrasta con quella di Schlein. Detta in poche parole, la vittoria di cui si parla in questi giorni rischia di diventare un problema, perché tenere insieme gli opposti, senza che né Giuseppe Conte né l’ala riformista che ha trionfato a Firenze e Bari riconoscano la leadership di Schlein, alla lunga può trasformare il campo largo in un campo minato.
Youtrend, società di rilevazioni delle tendenze politiche assai vicina alla sinistra, ha messo a confronto i due schieramentinelle Regioni andate al voto e il risultato è che Fdi, Lega e Forza Italia stanno al 46,8%, mentre l’opposizione sta al 49,7%. Dunque, i progressisti sono avanti e potrebbero vincere al prossimo giro? Non proprio, perché le sei Regioni in cui si sono svolte le elezioni non rappresentano tutta l’Italia, ma solo una parte di essa, quella più spostata a sinistra. Tuttavia, per capire come è andata domenica e lunedì scorsi basta guardare cosa presero le due coalizioni alle ultime politiche. Il centrodestra aveva il 42,7%, il centrosinistra il 51,4%. In pratica, se tre anni fa il centrosinistra era avanti di 8,7 punti nelle sei Regioni, oggi il vantaggio si è ridotto al 2,9%. Altro che vittoria. Macché fine della luna di miele tra centrodestra e italiani. Ma a prescindere da numeri, flussi elettorali e formule politiche, nel 2025 sono andati alle urne gli abitanti di sei Regioni. Tre di queste erano guidate dal Pd, mentre le altre tre erano governate da un leghista, da un esponente di Fratelli d’Italia e da uno di Forza Italia. Alla fine, tre sono rimaste a sinistra, tre sono restate a destra. A un certo punto, con Matteo Ricci, ex sindaco di Pesaro, Schlein aveva pensato di poter riconquistare le Marche, battendo il pupillo di Meloni. Ma nonostante i sondaggi tarocchi fatti circolare alla vigilia del voto nella speranza di influenzare il risultato, in Regione è stato confermato Francesco Acquaroli. In Veneto, prima c’era un leghista di lungo corso come Luca Zaia e ora c’è un giovane leghista come Alberto Stefani. E in Calabria Roberto Occhiuto di Forza Italia è succeduto a Roberto Occhiuto. Insomma, in conclusione pari e patta: tre a tre, come prima. E però un cambiamento si registra in una delle tre Regioni governate dalla sinistra: in Campania, dove prima governava Vincenzo De Luca, ovvero un governatore del Pd, adesso c’è Roberto Fico, ex presidente della Camera e grillino della prima ora. In altre parole, Giuseppe Conte ha guadagnato un presidente di Regione ed Elly Schlein lo ha perso. Volendo sintetizzare, la coalizione di centrosinistra è un po’ più di sinistra di prima e un po’ meno di centro, non proprio una buona notizia per quanti sognano di rifondare una democrazia cristiana in formato terza Repubblica. Il paradosso della vittoria di Fico però è che a portarlo al successo sono stati soprattutto i voti del Pd, non certo quelli del Movimento 5 stelle, che con le regionali ha ottenuto uno dei peggiori risultati di sempre, perdendo anche in Calabria, dove pure aveva schierato il papà del reddito di cittadinanza (Pasquale Tridico). Un’ultima osservazione su un fattore che evidenzia le contraddizioni a sinistra è il risultato di Puglia e Toscana, dove ha vinto l’ala socialista del partito democratico, cioè quella che si contrappone all’attuale segretaria. Dunque, per andare al sodo: dopo il voto gli equilibri nel centrodestra restano immutati, mentre nel centrosinistra in Campania si volta pagina con un grillino e nelle altre due Regioni vince la linea che contrasta con quella di Schlein. Detta in poche parole, la vittoria di cui si parla in questi giorni rischia di diventare un problema, perché tenere insieme gli opposti, senza che né Giuseppe Conte né l’ala riformista che ha trionfato a Firenze e Bari riconoscano la leadership di Schlein, alla lunga può trasformare il campo largo in un campo minato.
- Fico incassa il successo. Conte: «A destra non saltano più». Schlein sogna: «Partita delle prossime politiche apertissima».
- In Puglia Decaro vicino al 65%: «Grazie agli avversari, si può far politica con rispetto».
Lo speciale contiene due articoli.
Roberto Fico è il nuovo Presidente della Regione Campania. L’ex presidente M5s della Camera, candidato del centrosinistra, batte di una ventina di punti percentuali (oltre il 61% contro il 33%) il candidato del centrodestra, Edmondo Cirielli, viceministro degli Esteri e esponente di Fratelli d’Italia. Affluenza ai minimi storici: si chiude al 44,06%, con un calo di 11 punti rispetto al 2020, quando andò alle urne il 55,52% degli elettori campani. Una vittoria più che netta, quella di Fico, ma nulla a che vedere con quanto capitò cinque anni fa, quando Vincenzo De Luca vinse con quasi il 70% dei voti e senza il M5s in coalizione (la candidata a presidente pentastellata, Valeria Ciarambino, poi passata in maggioranza e stavolta candidata in una delle liste a sostegno di De Luca, prese il 7,5%), mentre il candidato di centrodestra, Stefano Caldoro, si fermò al 20%. Altri tempi, altra storia, certo: il Covid aveva trasformato De Luca in una star internazionale. I voti però vanno analizzati per bene, e quindi il centrosinistra ha comunque lasciato per strada in cinque anni ben 20 punti percentuali. La sconfitta di Cirielli per il centrodestra brucia, inutile negarlo, anche se le voci di rimonta erano state messe in giro più per motivare l’elettorato che per la reale speranza di vincere. Troppo forti le liste del centrosinistra, dal Pd di De Luca junior a «A Testa Alta» di De Luca senior, passando per renziani, socialisti, mastelliani, naturalmente il M5s e altre formazioni tutte competitive, con il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi che ha dato fondo a tutte le sue energie per sostenere Fico. Dall’altro lato, a tenere botta, sono Fdi e Forza Italia: la Lega storicamente in Campania e soprattutto a Napoli va male, mentre le altre liste a sostegno di Cirielli non erano competitive. Il crollo dell’affluenza ha favorito quindi il voto organizzato, nel quale in Campania la fa da padrona la sinistra. Paradossale poi che Elly Schlein sia corsa a Napoli a intestarsi la vittoria di Fico: il neopresidente ha vinto solo e soltanto grazie al sostegno dei De Luca’s, simbolo di quei «cacicchi» che la segretaria dem aveva giurato di voler estromettere dal partito. Intenzione evaporata dopo poche settimane: la Schlein è andata a Canossa, anzi a Salerno, ha finto di dimenticare gli insulti che Vincenzo De Luca le aveva rivolto e ha siglato la pace, anzi la resa, cedendo a tutti i desiderata del presidente uscente.
«La nostra coalizione», commenta Fico, «da domani (oggi, ndr) si dovrà mettere al lavoro per governare al meglio la Regione Campania, lo faremo con le migliori competenze, ci sarà una grande umiltà nell’ascoltare tutte le posizioni e una grande ambizione nel costruire sempre più una Campania migliore. Abbiamo lavorato senza mai essere contro, ma sempre cercando di costruire.
Questo è un dato di fatto di questa campagna elettorale, non abbiamo risposto a offese e insulti costanti. Da oggi io sarò il presidente di tutti i cittadini campani, chi ci ha votato e chi ha votato altri. Tutti i territori contano e tutte le persone contano».
Sprizza felicità, come ovvio, Giuseppe Conte: «Il nostro Roberto Fico», scrive su Facebook il presidente del M5s, «è il nuovo presidente della Campania. Non saltellano più. Abbiamo vinto ascoltando i bisogni delle persone, delle famiglie in difficoltà, dei lavoratori, delle imprese. Ha perso chi di fronte alle difficoltà degli italiani saltella e oggi cade rovinosamente. Fico ha battuto sonoramente un candidato di Fratelli d’Italia, un esponente del governo Meloni, senza mischiarsi a una lotta nel fango».
Soddisfatta anche la Schlein: «Giorgia Meloni stasera ha ben poco da festeggiare e da saltare, questo è il governo più antimeridionalista della storia repubblicana, ci batteremo contro l’autonomia differenziata. Voglio ringraziare chi ha lavorato in questi anni per portare risultati importanti perché non partivamo da zero ma da uno sforzo significativo, quindi voglio ringraziare anche la giunta uscente, il presidente DeLuca. L’alternativa c’è ed è competitiva, il riscatto parte dal Sud e ci porterà a vincere insieme, la partita delle prossime politiche è apertissima. Uniti si vince, il margine di Fico e Decaro dimostra che uniti si stravince, e anche dove non vinciamo, come in Veneto raddoppiamo i risultati. Gli elettori premiano lo sforzo unitario».
All’insegna del fair play, pur scottato dalla delusione, la dichiarazione di Edmondo Cirielli: «L’unico dato sicuro», argomenta Cirielli, «è che la coalizione uscente ha vinto le elezioni e che Fico sarà il nuovo presidente della Regione. Amando la mia terra non posso che augurare di cuore al futuro presidente buon lavoro». Uno sguardo alle liste, ricordando che quando andiamo in stampa i dati sono ancora provvisori. Secondo i dati parziali del ministero dell’Interno, il primo partito è il Pd con il 19,2%. Nel centrosinistra, subito dopo c’è il M5s con il 10,37%, A testa Alta al 7,8 poi la lista Fico al 5,5%, Casa Riformista al 6,7% e Avs al 4,4%. Nel centrodestra lotta aperta per la prima posizione: Fi si attestava al 10,33%, Fdi all’11,2%, la Lega al 5,1%, ma i risultati definitivi potrebbero modificare alcune posizioni.
Decaro esulta e nega le mire sul Pd. Avs sul filo per entrare in Consiglio
Nessun leader per festeggiare a caldo la vittoria, scontata, del candidato del centrosinistra Antonio Decaro che è il nuovo governatore della Puglia con il 64,6% quasi doppiando il candidato del centrodestra Luigi Lobuono al 34,4%. Crollata l’affluenza: il dato definitivo al 41,8% è il più basso di sempre, ultimo in Italia dietro a Campania e Veneto. Boom di voti per Decaro, e per i candidati delle sue liste, che ha superato anche il suo predecessore Emiliano e che ha subito chiarito, a chi gli chiedeva se il Nazareno sarà la prossima sfida: «Il Pd ha già un segretario che si chiama Elly Schlein, io ora sarò il presidente della Regione Puglia, il presidente dei pugliesi», aggiungendo: «È un risultato elettorale straordinario, oltre ogni aspettativa, sento il peso però di questo risultato quindi da domani devo mettermi a lavorare per meritarmi la fiducia di chi mi ha votato e recuperare quella di chi non è andato a votare. Il mio primo atto sarà occuparmi delle liste d’attesa. Attuerò una leale collaborazione con il governo». Dedicando la vittoria alla figlia Chiara ha poi ringraziato gli altri candidati, a cominciare da Lobuono «per il garbo e il rispetto».
Decaro, ingegnere 55 anni, che ha iniziato la sua carriera da assessore tecnico, a Bari, ha ricoperto più cariche, compresa la presidenza dell’Anci, fino ad europarlamentare (recordman di preferenze con 498.395 voti), durante la campagna elettorale non ha mai voluto alcun leader a sostenerlo pur avendo riunito il campo largo, da Iv ad Azione. E nessun leader è arrivato per festeggiare il neogovernatore, che prenderà il posto di Michele Emiliano dopo 10 anni, dopo i precedenti 10 di Nichi Vendola.
Congratulazioni al vincitore dal premier Giorgia Meloni che si augura «possa svolgere al meglio il suo mandato, nell’interesse dei cittadini che andrà a rappresentare. Un ringraziamento a Luigi Lobuono, a tutti i candidati e a tutti gli uomini e le donne del centrodestra che si sono impegnati in questa tornata elettorale».
Un emozionato Emiliano ha puntualizzato: «Il nostro è stato buon governo. Abbiamo cambiato l’immagine stessa della regione. Decaro ha vissuto questo ventennio meraviglioso ed è l’incarnazione di tutto ciò che vogliamo fare per il futuro. La Puglia è la speranza dell’Italia intera. Ovviamente cambiano le persone. Mi pare che anche il Pd stia andando forte. Perché il Pd è essenziale per governare la Regione. Senza il Pd per me sarebbe stato difficile avere quella tranquillità che solo un grande partito pronto a vincere le politiche del 2027 ti può dare». E ha voluto sottolineare che Elly Schlein è andata in Campania e non in Puglia per «dire agli alleati del M5s che noi diamo loro grande importanza».
Ha ammesso la sconfitta, l’imprenditore Lobuono, ex presidente della Fiera del Levante, definito «un galantuomo» dal competitor, pur sottolineando una campagna elettorale in salita: «Complimenti a Decaro. Ora siamo disponibili nei suoi confronti a discutere con lui in maniera costruttiva e corretta nel massimo interesse dei pugliesi. L’unica cosa che mi spiace molto è che quasi il 60% degli elettori non è andato alle urne, dato preoccupante per la tenuta democratica». Nel confronto tra i partiti, mentre andiamo in stampa, il Pd si conferma primo partito con il 25,8%, dietro Fdi al 18,3%. Poi la lista «Decaro presidente» (12,8%), «Per la Puglia con Decaro» (7%) e «Avanti popolari con Decaro presidente» (4,2%). Il M5s sarebbe il terzo partito della larga coalizione, con il 7,4%. Nel centrodestra, Forza Italia è al 9% dietro il Carroccio al 7,7%. In Avs, il partito di Fratoianni dato al 4,2%, restano cauti in attesa della conferma del quorum per entrare in consiglio regionale.
Nel campo largo ci sono poche idee ma confuse. Al Pd, o almeno a un pezzo del Pd, non basta il sostegno a Kiev espresso da Giorgia Meloni. Il senatore Filippo Sensi lo snobba: è «un gargarismo». «Niente nostri militari in Ucraina e niente interventi su asset russi», lamenta. Dunque, i dem vorrebbero spedire i soldati italiani al fronte? Inseguendo - lo suggerisce l’onorevole Alessandro Alfieri - i volenterosi, aizzati dai decotti Emmanuel Macron e Keir Starmer?
Anche Francesco Boccia, capo della delegazione del Nazareno a Palazzo Madama, s’indigna: sull’Ucraina, tuona, si sentono «solo parole». Simona Malpezzi pretende che il premier rifiuti la «pace rapida» di Donald Trump. Difende i confini nel Donbass, li attraversa in Aula: alla fine, vota con la maggioranza, con Carlo Calenda e con l’altro centrista, Marco Lombardo, una risoluzione presentata da Azione. Un po’ rimaneggiata per sfumarne i toni su Russia e Gaza.
Le tesi dei renziani generano equivoci. La Meloni, durante il dibattito in Senato, li accusa di essere favorevoli all’invio di truppe. Davide Faraone la smentisce. Nella risoluzione del partito si fa cenno a «ogni supporto politico, difensivo, economico, umanitario, diplomatico» a Kiev, «anche attraverso la nomina di un inviato speciale per la pace». Uno dei pallini di Matteo Renzi era incaricare Angela Merkel. Fatto sta che Enrico Borghi, nel suo intervento, rimprovera all’esecutivo di aver manifestato la disponibilità a spedire un contingente a Gaza, «su mandato Onu e con regole d’ingaggio chiare», ma di non essere pronto a compiere «analoga scelta in Ucraina, da cui ci chiamiamo fuori». Mistero: se, come giura Faraone, Iv non vuole mandare i nostri soldati nel Donbass, di cosa si lamenta il suo collega Borghi? A Meloni viene facile rigirare il dito nella piaga: «Sull’invio delle truppe in Ucraina, mi pareva una delle poche cose sulle quali questo Parlamento era d’accordo»; al contrario, «neanche su questo, nel cosiddetto campo largo, esiste una posizione unitaria».
Dall’altra parte della barricata, si agita la sinistra radicale. Quella che sarebbe quasi entrata in guerra con Israele in nome della Flotilla ma che, in Europa orientale, riscopre il pacifismo. Il Movimento 5 stelle ribadisce il proprio scetticismo verso il sostegno a oltranza alla resistenza. Invoca «un netto cambiamento nell’approccio dell’Unione europea e degli Stati membri alla risoluzione della crisi ucraina» e domanda di «interrompere immediatamente la fornitura di materiali d’armamento alle autorità governative ucraine». Sono più o meno gli stessi punti presentati da Avs, desiderosa di «definire un riorientamento della politica dell’Unione verso la diplomazia e l’allentamento delle tensioni», nonché di «costruire le condizioni per una conferenza multilaterale per la pace in Ucraina». Un modo elegante per dire: meno Trump, più Cina. La formazione di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni auspica «la fine della fornitura nazionale di equipaggiamento militare all’Ucraina» e raccomanda di «sollevare in Consiglio europeo la necessità di interrompere anche il ricorso all’European peace facility a questo fine». Di più: per il tandem ultraprogressista, è tempo di «riaggiornare» la «valutazione sul rapporto con le alleanze militari esistenti, a partire dalla Nato». Di nuovo: voltare le spalle agli Stati Uniti e spalancare le braccia a Pechino?
In verità, la Meloni ha presente che nella Nato non tutto funziona alla grande. Il premier spera di rafforzarne «il pilastro europeo», «complementare a quello nordamericano», mantenendo però - è la differenza con gli avventurieri di Avs - «il vincolo transatlantico come orizzonte imprescindibile per la nostra nazione e l’intera Europa». Su questo, si spera, anche il Pd, o almeno un pezzo del Pd, concorderà. L’inquilina di Palazzo Chigi, tuttavia, non intende mollare l’osso sulla questione delle frontiere meridionali, che Mark Rutte, segretario generale dell’Alleanza, aveva provato a liquidare facendo ammuina sui missili russi puntati contro le capitali del Vecchio continente. «Tutti sosteniamo la necessità di proteggere il fianco Est», insiste la Meloni, «ma non possiamo permettere che si perda di vista il fianco Sud».
La linea del presidente del Consiglio può non piacere; comunque, ha il pregio della chiarezza. Quella della sinistra, più o meno unita solo sull’ostilità a Israele ma ormai superata dalla Storia, è schizoide: chi spedirebbe i militari in Ucraina; chi lancia il sasso e nasconde la mano; chi non darebbe più armi a Zelensky; chi resterebbe nella Nato; chi preferirebbe affidarsi a Xi Jinping, se non ad Hamas; chi spinge per il riarmo; chi lo boccia e si batte il petto per il welfare depauperato; chi vota una risoluzione insieme al centrodestra e a una transfuga del Pd. Sia al Senato sia alla Camera, le opposizioni viaggiano in ordine sparso. Mentre, al Parlamento Ue, Pina Picierno attacca il M5s, contrario alla risoluzione che dà del dittatore al bielorusso Aljaksandr Lukashenko: «Vorrei chiedere ai tanti miei compagni fulminati sulla via del “campo largo”», si sfoga sui social, «cosa pensano». Esaurito l’effetto Netanyahu, il campo largo è ridiventato un campo minato.
Vittoria prevedibile per il centrosinistra in Toscana che vince senza trionfi. Così come il governatore uscente e riconfermato, Eugenio Giani. Rieletto quindi, ma sostenuto controvoglia: prima dalla segretaria dem Elly Schlein, e poi da un Movimento 5 stelle che nello scorso mandato gli ha mosso una dura opposizione. Ne è uscita una campagna che è sembrata forzata ed è forse anche per questo che nella regione rossa si è registrata l’affluenza più bassa di sempre. Si è recato alle urne il 47,7% degli aventi diritto: meno della metà.
Questo come detto non ha impedito a Giani di riconfermarsi con ampio distacco sullo sfidante di Fratelli d’Italia sostenuto dal centrodestra, il sindaco di Pistoia Alessandro Tomasi. Il primo ha conquistato il 53,98% contro il 40,83% del secondo, all’outsider Antonella Bundu, candidata di Toscana rossa, il restante 5,19% dei voti.
Ne seguono le classiche dichiarazioni, con Giani che si dice emozionato «per questa straordinaria vittoria, ha vinto la Toscana illuminata e riformista» ha detto parlando al comitato elettorale. «Congratulazioni a Eugenio Giani per la vittoria delle elezioni regionali in Toscana e auguri di buon lavoro. Un sentito ringraziamento ad Alessandro Tomasi e a tutta la coalizione del Centrodestra per la dedizione e la passione dimostrate in una sfida impegnativa» il commento del premier nonché leader di maggioranza Giorgia Meloni. È la segretaria dem Elly Schlein arrivata nel pomeriggio a Firenze per congratularsi con Giani a uscire dagli schemi e ad esplorare le ipotesi dell’assurdo. Schlein tira fuori infatti un ragionamento inedito per non dire inaudito: «Mi pare che abbiano cantato vittoria troppo presto dall’altra parte. I conti si fanno alla fine. Sommando i voti assoluti delle tre regioni che hanno appena votato la coalizione progressista ha già più voti rispetto al centrodestra che governa e il Pd si afferma come primo partito». Il calcolo dei voti assoluti in politica non conta assolutamente nulla, non c’è bisogno di una laurea in matematica e nemmeno di una in scienze politiche, eppure pur di non palesare la propria, personalissima si può dire, crisi di consensi, ci si inventa di tutto. Andando ai consensi dei singoli partiti, la sinistra distribuisce i consensi così: Partito democratico, che conferma il radicamento sul territorio, oltre il 35%, di conseguenza crolla il Movimento 5 stelle che non arriva al 5%, di poco sopra Alleanza Verdi Sinistra che conta poco meno del 7%, mentre supera l’8% la lista per Giani presidente. Percentuali che mettono ancora più in vista l’inopportunità della strategia che ha messo in campo Schlein: schiacciarsi sulle politiche della sinistra estrema quando la linea non convince anche in una regione rossa come la Toscana. Sfacciato Giuseppe Conte che da leader del Movimento si dice soddisfatto di aver contribuito alla vittoria: «Per noi è stato un percorso sofferto, un percorso faticoso. L’abbiamo detto dall’inizio, in piena trasparenza. Veniamo da un’opposizione chiara, forte e sincera al presidente e alla Giunta uscenti. È chiaro che per noi è stato complicato poter partecipare a questa coalizione. Lo abbiamo fatto però sulla base dei temi, progetti e devo dire anche contribuendo a un cambio di asse politico e di obiettivi strategici» commenta lanciandosi in una excusatio non petita. I pentastellati nel 2020 conquistavano più del 6% ma senza, appunto, correre per Giani presidente. Raffaella Paita, senatrice di Italia Viva mette in evidenza «il risultato pazzesco di Casa Riformista che è la terza lista in assoluto in Toscana. È la conferma che l’intuizione di Matteo Renzi era giusta e che senza il centro non si vince. Un centrosinistra vero, con un’anima centrista forte e riformista, riesce a battere questa destra». Anche nel centrodestra cambiano gli equilibri. All’interno dell’alleanza i toscani votano così: a Fratelli d’Italia va circa il 27%, dietro Forza Italia che sorpassa la Lega superando il 6%. Appena il 4,5% per il Carroccio che nel 2020 con la sua candidata Susanna Ceccardi conquistava il 21%. In questa tornata è Roberto Vannacci, vicesegretario della Lega, il responsabile della campagna elettorale toscana che commenta: «Chi vota ha sempre ragione e i toscani si sono espressi». È innegabile che tra le due forze opposte che sostengono l’esecutivo ci sia della competizione, inevitabile al fine di ritagliarsi uno spazio che conti più dell’altro all’interno della maggioranza in un costante gioco di equilibri. Una competizione ricca anche di dibattiti e opinioni contrastanti ma che non ha impedito al centrodestra di crescere in Toscana rispetto ai risultati delle precedenti elezioni regionali. Fratelli d’Italia più raddoppia il suo consenso, nel 2020 otteneva il 13,5%.
Sportiva la reazione di Tomasi che annuncia di avere l’intenzione di lasciare la guida di Pistoia per diventare consigliere regionale. «Un grande in bocca al lupo al presidente Eugenio Giani» dice in conferenza stampa spiegando: «Sapevamo che era una sfida difficilissima ma ci abbiamo messo il cuore, abbiamo generato entusiasmo e ci sono tanti punti da cui ripartire e costruire». Tomasi ha aggiunto: «Vogliamo riportare le battaglie della campagna elettorale, come lo sviluppo economico della Toscana e il tema del trattenere i giovani sul territorio sui tavoli della Regione, e non ci arrenderemo finché questi temi non saranno entrati nell’agenda politica». Infine: «se avessimo avuto più tempo, forse avremmo potuto fare sicuramente qualcosa in più ma io non piango sul latte versato, a me non interessa dare le colpe. Le responsabilità sono sempre e esclusivamente mie, le battaglie le faccio io», un monito, forse, per le prossime regionali.






