2018-08-17
Il modello Benetton: soldi a giornali e partiti
La famiglia per anni ha avuto partecipazioni nei grandi gruppi editoriali e, nel solo 2016, ha elargito ai media 60 milioni di euro in pubblicità. Luigi Di Maio attacca Matteo Renzi: «Perché non dice nulla sui finanziamenti segreti ricevuti dalle fondazioni vicine al suo Pd?»Il crollo a Dacca uccise 1.138 operai tessili. Nel 2013 in Bangladesh collassò una fabbrica che produceva anche per la «United colors» .Lo speciale contiene due articoli.Accuse durissime. Ma, va detto, non sempre azzeccate. Ieri, per il disastro del Ponte Morandi, Luigi Di Maio, ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro, ha messo direttamente nel mirino il gruppo e la famiglia Benetton, azionista della Autostrade per l'Italia che dal 2007 è concessionaria della A10. In effetti, il capitale di Autostrade è all'88% della holding Atlantia, il cui principale azionista è la holding finanziaria Edizione, a sua volta controllata con il 30% dalla famiglia Benetton (gli altri soci sono fondi d'investimento, soprattutto esteri, con quote che al massimo arrivano all'8%).Il vicepremier grillino non ha usato mezzi termini. Ha sostenuto esplicitamente che la famiglia Benetton avrebbe intrattenuto per anni indebiti rapporti con la vecchia politica e con i suoi governi: «Siccome per la prima volta in Italia c'è un governo che non ha preso i soldi dai Benetton», ha detto Di Maio, «noi siamo qui a dirvi che analizzeremo tutti i contratti, e siamo pronti a revocare le concessioni e a fare multe fino a 150 milioni di euro». Di Maio ha poi rincarato la dose in un lungo post pubblicato sul Blog delle stelle, dal titolo: «È ora di presentare il conto a chi ha truffato gli italiani». Qui, oltre alla società Autostrade e ai governi passati, il vicepresidente del Consiglio ha attaccato anche la rete di «partiti e giornali che da decennali gli fanno da palo». Due le domande, tese a dimostrare l'intreccio delle complicità: «Come è possibile che nessun governo abbia mai messo in discussione la concessione delle autostrade ai Benetton? Come è possibile che nessun giornale abbia mai fatto un'inchiesta sulla loro società, per esempio sul fatto che i contratti di Autostrade sono secretati?». Per puntare il dito contro l'origine di questa «copertura mediatica», il ministro grillino ha elencato le quote della holding Edizione in alcuni grandi gruppi editoriali: «Il 5,1% di Rcs MediaGroup (Corriere della Sera), il 2,24% di Caltagirone Editore e il 2% del Sole 24 Ore Spa». Di Maio, però, si è forse fidato troppo di Wikipedia. In realtà, dopo la ricapitalizzazione dell'autunno 2017 alla quale non ha partecipato, il gruppo Benetton non ha più azioni del Sole 24 Ore. Ed è vero che fino all'estate dello scorso anno la holding Edizioni ha controllato il 2,24% della Caltagirone Editore, la casa cui fanno capo Messaggero, Gazzettino di Venezia, Mattino di Napoli e Corriere Adriatico, oltre al quotidiano gratuito Leggo: ma da un anno la holding è uscita anche da lì. I Benetton hanno ceduto da qualche anno anche la loro partecipazione diretta del 5,1% in Rcs, però è vero che ne conservano una indiretta tramite Mediobanca (che attualmente controlla quasi il 10% della casa editrice), di cui sono azionisti al 2,1%.Certo, se in campo editoriale il potere dei Benetton come azionisti si è sicuramente attenuato rispetto ai bei tempi (fino al luglio 2006 avevano anche il 25,8% del Gazzettino, una quota ceduta quell'anno a Caltagirone per 40 milioni di euro), va anche detto che la loro influenza sulla carta stampata non è indifferente. United Colors of Benetton è tra i principali investitori di tutti i grandi quotidiani, sui quali spesso campeggiano le paginate ispirate dall'aggressivo marketing fotografico di Oliviero Toscani. Nel 2016 i giornali specializzati stimavano che l'investimento pubblicitario annuo dell'azienda di Ponzano Veneto (tra tv, carta e internet) girasse sui 60 milioni annui, 25 dei quali sul mercato italiano. Non sono noti, invece, i budget di Autogrill e Aeroporti di Roma, altre due società che fanno capo ai Benetton e spesso compaiono con le loro pubblicità. Sempre ieri, altre frecciate polemiche di Di Maio hanno poi colpito Matteo Renzi e il Partito democratico. Già all'indomani del disastro di Genova, nell'annunciare la revoca della concessione ad Autostrade per l'Italia, il vicepremier aveva sbottato: «I vertici di Autostrade (...) non avranno vita facile: a me la campagna elettorale non l'ha pagata Benetton». Quelle parole, malgrado Di Maio non avesse ancora fato nomi, avevano provocato la reazione di Francesco Bonifazi: «Di Maio», aveva scritto su Twitter il tesoriere del Pd, «sta blaterando ovunque parole confuse e offensive. Benetton o Autostrade per l'Italia non hanno pagato la campagna elettorale al Pd o a Matteo Renzi. Schifo e vergogna #sciacallo». Era poi intervenuto direttamente l'ex segretario: «Chi dice che il mio governo ha preso i soldi da Benetton o da Autostrade è tecnicamente parlando un bugiardo. Se lo dice per motivi politici, invece, è uno sciacallo. Il mio governo non ha preso un centesimo da questi signori, che non hanno pagato la mia campagna elettorale, né quella del Pd, né la Leopolda».Ieri pomeriggio, sempre su Facebook, Di Maio non ha mollato la presa: «Renzi dice che Benetton non ha finanziato né il Pd né la Leopolda. Ma non dice niente delle altre fondazioni legate a doppio filo col suo partito. La sua parola per gli italiani vale zero…». Sul punto cruciale delle fondazioni, una risposta definitiva è purtroppo resa impossibile, paradossalmente, proprio dal Codice civile, che non obbliga questo tipo di associazioni a rivelare né il valore delle donazioni ricevute, né il nome di chi le fa: le fondazioni, insomma, godono di uno status di opacità totale. Grazie a questa carenza normativa Open, che è la fondazione più vicina a Renzi, si limita a segnalare il totale dei versamenti incassati a partire dalla sua costituzione, nel 2012: 5,5 milioni di euro. Quanto ai nomi dei finanziatori di Open, tra quelli elencati sul suo sito non compaiono né quelli dei Benetton, né delle le loro società. Ma il particolare non è dirimente: Open si dice autorizzata a rivelare soltanto i donatori che «hanno dato il consenso». Maurizio Tortorella<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-modello-benetton-soldi-a-giornali-e-partiti-2596509094.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-crollo-a-dacca-uccise-1-138-operai-tessili" data-post-id="2596509094" data-published-at="1757889198" data-use-pagination="False"> Il crollo a Dacca uccise 1.138 operai tessili Non sempre sono state le foto di Oliviero Toscani, tanto impressionanti quanto demagogiche, a far parlare di Benetton. Il disastro di Genova fa tornare in mente un'altra tragedia a cui si lega il nome dei Benetton: il crollo del Rana Plaza a Dacca, capitale del Bangladesh, il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nella storia. Era il 24 aprile 2013 quando l'edificio commerciale di 8 piani, fatiscente, situato nel sobborgo industriale della città, collassò provocando la morte di 1.138 persone. La struttura conteneva soprattutto aziende tessili (che producevano per 29 marchi tra cui Primark, Mango, Cato, Bon Marche, El Corte Ingles, Joe Fresh), oltre a una banca, appartamenti e numerosi negozi. Ci volle quasi un mese per mettere fine alla conta delle vittime, più della metà donne insieme ad un certo numero dei loro figli che erano negli asili nido aziendali. Anche papa Francesco dedicò l'Angelus alla tragedia del Bangladesh sottolineando: «Quegli operai morti prendevano 38 euro al mese. Questa è schiavitù». Sfruttati e senza sicurezza, i lavoratori producevano capi di abbigliamento per conto di multinazionali occidentali, tra cui Benetton Group. L'azienda di Ponzano Veneto, in un primo momento, aveva negato legami con il Rana Plaza, ma dopo una settimana arrivò la prima ammissione a causa di una foto dell'Associated Press che mostrava una camicia tra le macerie con l'inconfondibile etichetta: United Colors of Benetton. Fu il ceo del marchio trevigiano, Biagio Chiarolanza, ad affermare che «Benetton aveva acquistato piccole quantità di camicie da un'azienda chiamata New Wave Style, che operava in una delle fabbriche tessili all'interno del Rana Plaza Building. La New Wave Style, al momento del disastro, non era uno dei nostri grossisti, ma uno dei nostri fornitori diretti in India aveva subappaltato due ordini all'azienda». Due ordini ritenuti relativamente piccoli, in tutto circa 200.000 camicie, fabbricate nell'edificio crollato, spedite al fornitore in India e poi distribuite attraverso «l'intero network di distribuzione di Benetton». Una settimana per ammettere il coinvolgimento nel disastro nel tentativo di arginare le critiche avanzate da diverse associazioni dei lavoratori, che avevano accusato il marchio di trarre profitti ai danni della manodopera malpagata dei paesi poveri al di là dello slogan apparentemente multiculturalista. Un anno dopo la Benetton Group dichiarò di essersi impegnata a «lavorare direttamente con le persone colpite dal disastro del Rana Plaza» ma rifiutandosi di partecipare al Rana Plaza Donor Trust Fund messo a punto all'indomani del crollo grazie alla pressione internazionale. Ci volle un altro anno perché Benetton (nel 2015) decidesse di risarcire con 1,1 milioni di dollari le oltre 1.000 vittime. È vero che la cifra fu più del doppio rispetto ai 500.000 dollari individuati dalla società di revisione Pwc, incaricata di indicare la misura dell'indennizzo, ma Benetton decise il versamento per il Trust dei risarcimenti soltanto dopo una campagna di sensibilizzazione che coinvolse 1 milione di persone mobilitate dall'organizzazione internazionale Avaaz. Peraltro, a conti fatti, per ogni persona rimasta uccisa furono destinati 970 dollari, da un Gruppo che nel 2013, anno in cui la struttura si sbriciolò, realizzava un utile di esercizio pari a 121 milioni di euro. Sarina Biraghi
Jose Mourinho (Getty Images)