2018-03-21
Il mini Napoleone è il nostro peggior nemico
Nicolas Sarkozy ha sempre agito con il preciso intento di danneggiare l'Italia. Ha scatenato il conflitto libico per estrometterci dalla partita energetica ed eliminare lo scomodo ex finanziatore nordafricano. Poi ci ha riso in faccia per screditare l'immagine del nostro Paese «Racaille». Era solito chiamare «feccia» tutti coloro che si paravano davanti alla sua corta ombra: feccia gli studenti in rivolta nelle periferie, feccia gli operai in sciopero, feccia gli avversari politici che osavano contraddirlo in televisione. Oltre a portare male la giacca d'ordinanza (stile venditore di aspirapolveri), portava male anche le parole. E il punto esclamativo era sempre un sorriso da iena dei cartoni animati, come quello riservato a Silvio Berlusconi il 23 ottobre 2011 al Consiglio europeo, in tandem con Angela Merkel, che contribuì a far crollare l'ultimo governo del Cavaliere. L'ex presidente francese, descritto dal giornalista collettivo come amico dell'Italia semplicemente perché aveva sposato Carla Bruni e passeggiava nella piazzetta di Capri, in realtà è stato uno dei più subdoli e feroci nemici del nostro Paese. Ci voleva annichiliti, sottomessi, un peduncolo nel Mediterraneo al servizio della Francia; carta per avvolgere le baguette. Lo ha dimostrato in tre situazioni strategiche: la trappola mediatica a Berlusconi, l'incendio della Libia per spazzare via l'Eni a favore della Total, le pressioni sull'Europa per costringere Roma a «fare i compiti a casa». Questo mentre Parigi pretendeva un'extraterritorialità economica. Poiché l'italiano è inguaribilmente esterofilo, negli anni dal 2007 al 2012 siamo stati tutti inclini alla benevolenza nei confronti di questo avvocato dall'eloquio ruggente che cominciava a parlare di «rupture» con le regole politiche del passato per instaurare nuove armonie. Era la rottamazione ante litteram, era il renzismo spiegato alla Sorbona e destinato a finire allo stesso modo. Il peggio di Supersarkò (i giornali satirici lo rappresentavano mentre si cambiava d'abito in una cabina del telefono) in tre mosse. La prima è la risposta alla domanda di un giornalista alla fine di un Consiglio europeo particolarmente delicato: riuscirà l'Italia a mantenere gli impegni di rigore? Angela Merkel e Sarkozy, in piena luna di miele, potrebbero rispondere in 1.000 modi salvaguardando la credibilità del nostro Paese come imporrebbe il galateo istituzionale, invece lo fanno per sgambettare, per mettere alla berlina, per delegittimare. La cancelliera sorride in silenzio mentre Monsieur Racaille scuote la testa una due, tre volte, mostrando i canini affilati. Dopo quell'esibizione, Merkel commenta: «Non c'era risposta più perfetta di questo frame da cinema muto». È l'inizio della fine, un mese dopo il governo Berlusconi è costretto a dimettersi sotto il peso dello spread a 576. L'ex presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ricorda in un'intervista: «Per me era chiaro che Sarkozy voleva veder scorrere il sangue. Voleva lo scalpo dell'Italia». La seconda mossa è illuminante, ma non illumina nessuno. Avviene quando Sarkozy irrompe in una riunione dell'Ecofin chiedendo impetuosamente che la Francia possa essere esentata dal rispettare i parametri di Maastricht. Vuole negoziare personalmente l'austerità per tutti tranne che per sé stesso. Si comporta da piccolo Napoleone e perfeziona con metodi rudi la sua doppia morale: agli altri l'austerity, a lui le brioche. Ma il colpo di genio arriva in politica estera, dove i nuovi assetti del Mediterraneo, in seguito alle primavere arabe, rischiano di tagliar fuori la Francia. Allora Sarkozy s'inventa la guerra alla Libia, spalleggiato dal segretario di Stato americano Hillary Clinton, con la fattiva cooperazione del premier inglese David Cameron e nonostante il freno tirato di Berlusconi, presidente del Consiglio in quel disgraziato 2011. L'obiettivo teorico è Muammar Gheddafi, accusato di presunto genocidio (10.000 persone massacrate) con un'unica prova fotografica: il solito satellite americano che immortala un terreno smosso che avrebbe dovuto nascondere un'immensa fossa comune. La faccenda era poco convincente allora, figuriamoci adesso. Nessuno immaginava che il presidente francese dovesse nascondere le sue malefatte, ma molti sapevano che stava provando a concretizzare la sua amata «rupture», vale a a dire sostituire in Libia una leadership d'influenza francese spazzando via quella storica italiana. Non si tratta di una congettura, è tutto scritto in alcune mail declassificare di Hillary Clinton. Il 2 aprile del 2011 l'ex candidata democratica alla Casa Bianca riceve un messaggio dal suo consigliere per il Medio Oriente, Sidney Bluementhal. In quelle righe si legge che Sarkozy ha finanziato e aiutato in ogni modo le fazioni anti gheddafiane con denaro, armi e addestratori, allo scopo di strappare più quote di produzione del petrolio in Libia e rafforzare la propria posizione tanto sul fronte politico esterno quanto su quello geostrategico globale a scapito dell'Italia. C'è un terzo motivo per fermare Gheddafi : il Raìs sta per sostituire il franco francese africano con una nuova moneta, un affronto alla grandeur in quella parte di mondo. Nel suo libro Hard choices, la Clinton spiega che il governo italiano guidato da Berlusconi «aveva ragioni da vendere sulla crisi libica mentre proprio Sarkozy e con lui Obama avevano torto marcio». Magra consolazione. E dire che Gheddafi fu il primo leader al quale l'inquilino dell'Eliseo aveva inviato un pubblico riconoscimento dopo l'elezione presidenziale: «La ringrazio per le sue preghiere». Sarkozy è riuscito a contagiare anche le mogli. La seconda, Cécilia, è passata alla storia per un libro con piccanti retroscena dopo essere stata lasciata. E per un raid libico da crocerossina con parecchie ombre sullo sfondo. Si è infatti intestata la liberazione di otto infermiere bulgare incarcerate a Tripoli con l'accusa di aver infettato 480 bambini con il virus dell'Aids. Decisivo per la liberazione sarebbe stato un folgorante incontro sotto la famosa tenda bianca fra lei e Gheddafi. La terza, Carla Bruni, ha mostrato più discrezione pubblica, ma non ha potuto fare a meno di regalarci una frase col mignolo alzato: «Quando gli italiani hanno bisogno di pensare devono venire in Francia». La festa è finita, in fondo a certe biografie c'è sempre Sant'Elena. Ai tempi del tricorno in testa e del Mediterraneo ai suoi piedi, una delle frasi preferite di Supersarkò era: «Per mostrare il cammino al mondo bisogna che il mondo smetta di danzare sulla bocca del vulcano». Ora la tuta d'amianto serve a lui.
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