
È inutile lamentarsi per il conto troppo caro di uno chef stellato o per il prezzo elevato di un abito griffato. Oggi si diffonde l'idea che i prodotti «esclusivi» debbano essere alla portata di tutti. Ma è giusto che le cose belle siano sudate e guadagnate.Dopo la pizza Margherita del suo bar, sta facendo molto discutere il caso dello «scontrino di Carlo Cracco», che è diventato virale in questi giorni sui social network: 41 euro per tre spremute d'arancia e due bottigliette d'acqua. In realtà, sconvolgersi e gridare al salasso o, peggio, alla truffa, è decisamente bizzarro: i prezzi del bar del masterchef nostrano e più attaccato dai pauperisti da tastiera sono perfettamente in linea con qualsiasi altro bar dell'area del Duomo di Milano. Che è un locus turistico, urbano e commerciale di altissimo livello. Alcuni bar, per dirla tutta, hanno anche una carta più cara di quella del cafè di Cracco. Tuttavia, oggi va per la maggiore il «commentismo», tendenza che consiste nel parlare senza conoscere, e le fake news viaggiano più spedite dei treni ad alta velocità. Molti di quelli che si sono stracciati le vesti per una spremuta da nove euro nemmeno sanno che sia la spremuta, sia la nota pizza, sono appunto serviti al bar che è al piano terra, non al ristorante di Cracco, dove i piatti costano almeno 30 euro ciascuno e il menu degustazione 190 euro. In molti, infatti, sempre sui social network, si sono ribellati al cliente lamentoso: è un buon segno. Di questi tempi siamo immersi dai capelli ai piedi nella riflessione superficiale, sembriamo vivere in un mondo che ha dimenticato tutte le verità antiche e fondamentali, così lapalissiane da essere ovvie. Una di queste verità è che le cose belle ed esclusive costano. Costano i piatti elaborati dagli chef. Costano le belle auto e gli abiti confezionati dagli stilisti e gli accessori disegnati dai talenti dell'alta moda. Costano e si pagano perché a loro volta costano fatica. Si pagano perché richiedono un investimento notevole, che va dalle materie prime ricercate alle spese sostenute (Cracco, per i muri del suo locale, sborsa un affitto milionario), le quali generano un indotto, immettono denaro nelle casse comunali e statali e in generale nell'economia. Come si può quindi ragionevolmente pensare che luoghi stellati (nel senso delle stelle Michelin) possano o debbano servire i clienti con gli stessi prezzi del camioncino che vende hot dog ai concerti rock? In realtà, questo pensiero deriva da una stortura cognitiva tutta contemporanea, causata dal consumismo (capitalistico e globalizzato) che spaccia a tutto andare la bugia che possa esistere il prodotto di qualità venduto a costo estremamente basso. A guardar bene, la qualità di questi prodotti è sempre bassa e se c'è accanto un modello di vera qualità costa (almeno) il triplo. Altrettanto distorsiva è l'idea del «lusso diffuso», inculcata affermando che chiunque «meriti» il lusso, che chiunque possa accedere a un trattamento «esclusivo». Si tratta di un grandissimo inganno, che titilla e sfrutta il narcisismo contemporaneo. Sono tantissimi gli spot che ci propinano il medesimo messaggio: «Tu sei una superstar, ti meriti di essere trattato come un Vip, hai diritto agli stessi privilegi di cui godono le celebrità». Si tratta di una tecnica pubblicitaria rivolta precisamente ai poveri, che come sapeva bene Ettore Petrolini, hanno poco, ma sono tanti. È più difficile vendere una borsetta di coccodrillo haute couture da 18.000 euro che 1.800 borsette di finto coccodrillo da 10 euro. E per convincere quei 1.800 a spendere quel poco che hanno occorre lusingarli, occorre convincerli che hanno «diritto» alla loro fetta di lusso. In questo modo, lo stesso concetto di lusso viene ridefinito. Non è più costoso e inaccessibile ai più, ma economico e alla portata di tutti. Questo fenomeno lo vediamo a ogni livello, dagli abiti ai viaggi alla ristorazione. Il messaggio pubblicitario del discount Lidl per lanciare la nota linea Deluxe era «lusso per tutti». È il lusso low cost. È così che avviene il cambiamento: l'idea che questo lusso sia così vicino man mano cancella quella che il lusso si paghi, trasformandoci in bulimici dell'esperienza apparentemente luxury. Tutto ciò ha degli effetti collaterali. Il lusso, quello vero, ci insegna il risparmio, l'attesa e la fatica. Non siamo più abituati a mettere da parte i soldi per acquistare magari una cosa sola, ma bellissima. Ne vogliamo tante e tutte di lusso. Un tempo si aveva un solo vestito firmato, che si attendeva mesi e talvolta anni per comprare. Si sognava l'auto raffinata e magari non la si comprava mai. Si andava a mangiar fuori la domenica (nemmeno tutte, nemmeno tutti): il lusso era associato alla festa, all'eccezionalità e non alla regolarità, alla qualità e ad un suo giusto costo. Oggi si pretende di avere sia quantità che esclusività, come se il lusso fosse una sorta di diritto umano. E anche il lusso ne risente. I grandi marchi devono abbassare la qualità per vendere a prezzi inferiori, la produzione in serie distrugge l'esclusività. E diventa anche difficile stabilire che cosa sia vero lusso e che cosa invece sia semplicemente «feticismo del marchio»: non tutte le griffe della cucina, delle auto, dei vestiti e degli accessori offrono prodotti che valgono il prezzo di vendita. Perciò è necessario saper scegliere oculatamente, saper soppesare - anche dal punto di vista del prezzo - il vero lusso. Ma un'altra cosa è pretendere che tutto sia per tutti. Ricordare che il lusso non è per tutti non vuol dire affermare che i ricchi siano superiori ai poveri. Ci insegna, al contrario, che certe cose valgono di più, e per questo ne possiamo avere di meno. E per averle ce le dobbiamo sudare. A parte i nobili, anche chi è diventato ricco con le proprie forze le cose belle se le è sudate. E magari, proprio per questo, riesce ad apprezzarle anche di più.
Jose Mourinho (Getty Images)
Con l’esonero dal Fenerbahce, si è chiusa la sua parentesi da «Special One». Ma come in ogni suo divorzio calcistico, ha incassato una ricca buonuscita. In campo era un fiasco, in panchina un asso. Amava avere molti nemici. Anche se uno tentò di accoltellarlo.