
L'anguria è il frutto che più ha ispirato poeti come Pablo Neruda, che la chiamava cassaforte d'acqua, o Marino Moretti che in lei vedeva il tricolore. Ideale con il pane e nelle diete perché non è vero sia ricca di zuccheri. E, sorpresa, è anche un coadiuvante erotico.Dategli pure del citrullo, tanto non s'offende. Dopo tutto è il suo nome: Citrullus. Di cognome fa Lanatus, ma gli amici, e sono milioni, lo chiamano cocomero. O anguria. I genovesi lo chiamano patêca riprendendo il termine francese pastèque che significa, appunto, cocomero. In Calabria indicano il frutto con una felice espressione: zi' pàrrucu, lo zio parroco. L'accostamento della rotonda cucurbitacea con il faccione rubicondo di certi preti di campagna è intenzionale. Nel vocabolario citrullesco c'è il napoletano mellone r'acqua e il siciliano mulune r'acqua, espressioni che corrispondono al nome con cui lo chiamano i sudditi della regina Elisabetta, watermelon, o i deutsch di Angela Merkel, wassermelone.Come si gusta il cocomero? I mangiatori ortodossi non hanno dubbi: viso e denti devono affondare nella rossa polpa. Lo sostiene anche un detto popolare: «Con l'anguria si mangia, si beve e ci si lava la faccia». E se lo fa il premio Nobel per la letteratura, Pablo Neruda, possiamo farlo anche noi: «Uno/ desidera/ morderti/ affondando/ in te/ la faccia,/ i capelli,/ l'anima!». Il poeta cileno ha scritto addirittura un'Ode all'anguria in cui dichiara il suo amore per la «cassaforte dell'acqua»: «La rotonda, suprema/ e celestiale anguria... frutto dell'albero della sete, balena verde dell'estate».D'accordo con Neruda è lo scrittore e giornalista bolognese Stefano Benni che in otto versi con rime saltellanti confessa la sua devozione: «Nel ricurvo sorriso/ del tuo quarto di luna/ ci chiniam riverenti/ sprofondando il viso/ dolce come nessuna/ o rossa passionaria/ o anguria/ bandiera proletaria». Il poeta crepuscolare Marino Moretti ci vedeva tutt'altra bandiera: « Il cocomero bianco rosso e verde/ l'ho amato, bimbo, nei barconi quando/ lo recavano in Istria a vele aperte (…)/ Il cocomero allora era l'Italia/ co' suoi colori bianco rosso e verde».L'umile anguria ringrazia per tanta aulica stima. Con il suo esagerato contenuto d'acqua - ne ha oltre il 95 per cento - dà ragione a Neruda: è una cassaforte d'acqua, il frutto più dissetante dell'estate. Lo possono mangiare tranquillamente coloro che hanno qualche chilo di ciccia in più (ha solo 15 calorie per 100 grammi) e anche chi teme che, per la sua dolcezza, sia ricco di zuccheri. Lo smentisce Renzo Pellati, specialista in scienze dell'alimentazione, nella sua fondamentale guida Tutti i cibi dall'»a» alla «z»: «Alcune persone pensano che il sapore dolce del cocomero sia dovuto alla presenza di molti zuccheri. In realtà il sapore dolce deriva da particolari sostanze aromatiche, più che da veri e propri zuccheri». Sostanze che, oltretutto, danno un senso di sazietà calmando la fame. Attenzione, però. I semini vanno tolti prima di addentare la fetta (sputarli è contro il bon ton): contengono glucosidi che possono provocare mal di pancia.Contrariamente a quanto raccomandavano una volta le mamme ai figli che scarnificavano la fetta fino all'albedo, la buccia bianca («Non mangiare il bianco che ti viene il tifo»), quella parte della cucurbitacea, ricchissima di steroli vegetali che abbassano il colesterolo, si può mangiare. Inoltre recenti studi americani hanno dimostrato - udite, udite maschietti affetti da impotentia erigendi - che la citrullina, amminoacido contenuto in buone dosi nell'albedo, ha gli stessi effetti del viagra, la pillolina blu ritenuta patrona, come Santa Rita, dei casi impossibili.La storia dell'anguria inizia nell'antico Egitto tremila anni prima di Cristo. Alcuni geroglifici raccontano come il cocomero trae origine dal dio Seth. Il frutto era giudicato importante dagli egizi che lo inserivano nel corredo funebre di faraoni e dignitari. Controversa la sua comparsa in Europa. Studiosi affermano che i romani conoscevano l'anguria (che prende il nome dal greco angurion, cetriolo) , altri che è arrivata solamente nel tardo medioevo. Vista sul campo l'anguria non è una gran bellezza: poggia le natiche sul nudo terreno, ha un fusto che striscia tra le zolle e foglie pelose come gli orecchi di Vittorino Andreoli. Una volta aperta, però, è di una bellezza sfolgorante: rossa come la Ferrari di Sebastian Vettel o come una luna comanche appena sorta sulla prateria. Tanta beltà viene tradotta in fette di freschezza, di dissetante piacere quando il «soverchio calore ci fa venire a noia le carni». Lo sottolinea Giacomo Castelvetro, letterato umanista vissuto a cavallo tra il Cinque e il Seicento, nel suo Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l'erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano, sottolineando, a proposito del cocomero: «Poco dopo l'entrata del mese di luglio, abbiamo le angurie o, come altri le chiamano, cocomeri, che sono ottime ad estinguere ogni gran sete, perché son tutte piene d'un soave e dolce suco, che vi riempie con molto gusto la bocca».Per verificare la maturità di un cocomero un tempo si ricorreva allo stacchino, l'esperto in grado di giudicare il momento favorevole per staccare l'anguria nel campo. Se proprio proprio si voleva star tranquilli al cento per cento sulla maturità della balena dei frutti, si chiedeva all'anguriaro di procedere con il tassello, un'incisione triangolare fatta nel ventre del cocomero per verificarne, dal colore, il grado di maturazione. Il coltivatore prendeva il coltello e, zac, zac, zac, praticava tre tagli che scendevano obliqui nel ventre del frutto, poi, piantata la punta nella buccia, estraeva trionfante il cuneo fiammeggiante. Scomparso il mondo rurale di una volta, sono sparite anche le anguriare, le baracche fatte di canne palustri e frasche che sorgevano ai margini dei campi si cocomero, lungo le strade. Per attirare i compratori i contadini disponevano le angurie a piramide, allo stesso modo degli artiglieri antichi che posizionavano le rotonde palle di cannone accanto alla bocca da fuoco. Altri tagli, altre pance. Maometto II, il feroce sultano turco che conquistò Costantinopoli nel 1453, era particolarmente ghiotto di cocomeri e gelosissimo di quelli che faceva coltivare per sé. Quando un valletto osò rubargliene uno, ordinò che si aprissero le pance dei servitori finchè non si fosse trovato il colpevole. Scoprì il reo al quattordicesimo tentativo. Fu una fortuna che il lacchè ladruncolo non fosse l'ultimo della fila altrimenti l'imperatore ottomano avrebbe fatto una strage e sarebbe rimasto senza servitù.Dino Coltro, cantore della civiltà e delle tradizioni contadine venete, racconta che in estate, durante la mietitura o altri lavori estivi, era consuetudine consumare cibi leggeri perchè il caldo e la fatica toglievano l'appetito ai lavoratori dei campi. Nel (misero) menu comparivano pane e anguria che spesso sostituivano la minestra. Chiara Crepaldi e Paolo Rigoni nel loro Il fuoco, il piatto, la parola raccontano che pane e anguria costituivano la merenda dei falciatori di fieno nel Polesine: «Avevano sempre la cortellina in tasca. Si mettevano sotto l'ombra di un salice o di un pioppo, tagliavano l'anguria a metà e la mangiavano col cucchiaio. Se c'era, rompevano del pane biscotto dentro all'anguria».Per mia mamma era quasi un sacrilegio mangiare l'anguria senza pane. Aveva preso la sana abitudine da bambina in casa del nonno. Lui adagiava il cocomero nell'acqua fresca del secchio tirato su dal pozzo e appeso al secchiaio. Aveva sette bocche da sfamare, nonno Gioachino. Quando la temperatura della cucurbitacea era accettabile, su per giù all'ora di pranzo, il nonno metteva tutti a tavola. Piatto unico: pan comune e anguria. L'anguria, oggi, non sfama più. Per certi versi è un capriccio, uno sfizio, un frutto buono per frullati, macedonie, granite, cocktail. Carlo Cracco ha scritto un libro, In principio era l'anguria salata, in cui racconta uno scherzo che gli fecero quand'era ragazzino a Creazzo, il paese vicentino dov'è nato. «Facevo un campo estivo con la parrocchia. Un giorno, all'ora della merenda, ci portano l'anguria. Parentesi: per me l'anguria era la festa, uno di quei sapori di vera gioia; era il concentrato dell'estate, delle vacanze, della spensieratezza. Quindi arriva l'anguria e io, che ero molto goloso e anche piuttosto in carne, mi precipito a prenderla anche se - che strano! - a correre sono praticamente solo...». Il motivo c'era: l'anguria era stata salata. Ma quello che doveva essere uno scherzo crudele sul palato del Cracchino goloso diventa la scoperta di un contrasto di sapori, un gusto nuovo che tradurrà, anni dopo, in una famosa insalata d'anguria.
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Giusi Bartolozzi (Ana)
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