Il Me too è una lotta per il predominio mascherata da battaglia sui diritti. Doveva servire a dare voce alle più deboli, ma si è tramutata in una collezione di rivendicazioni. Un libro di Maria Elena Capitanio spiega come.
Il Me too è una lotta per il predominio mascherata da battaglia sui diritti. Doveva servire a dare voce alle più deboli, ma si è tramutata in una collezione di rivendicazioni. Un libro di Maria Elena Capitanio spiega come.Un viaggio sulle tracce dell'identità femminile. Dai primordi settecenteschi passando per il power dress delle leader politiche del Novecento, fino al movimento Me Too. Si intitola La deriva del femminismo il pamphlet di Maria Elena Capitanio, collaboratrice della Verità, edito da Historica. È un'analisi senza tabù delle polarizzazioni che la lotta per la parità dei diritti delle donne ha portato nella società occidentale, una critica, anche dura, alle derive attuali del femminismo. Ne pubblichiamo la prefazione, scritta da Francesco Borgonovo, vicedirettore della Verità.Se volete capire che cosa sia diventato il femminismo potete cominciare da un film. Una pellicola del 1994 diretta da Barry Levinson e intitolata Rivelazioni. Nella versione italiana, il sottotitolo della pellicola, una volta tanto azzeccato, era «sesso e potere». Di questo parliamo quando ci occupiamo del femminismo contemporaneo e di movimenti come il Me too: di un gioco di potere, pure parecchio spietato. Rivelazioni è tratto dall'omonimo capolavoro della narrativa firmato da Michael Crichton, uscito nel 1993. Sono passati parecchi anni, ma la situazione odierna è esattamente quella descritta tempo addietro dal romanziere americano. Il protagonista di Rivelazioni è Tom Sanders (portato sullo schermo da Michael Douglas) manager di alto livello di una società digitale. Tom è bravo nel suo lavoro, si dà parecchio da fare, ma non vuole comunque trascurare la moglie e i due figli. Quando il lettore lo incontra, è piuttosto teso: la sua compagnia si sta fondendo con un colosso editoriale, e lui si aspetta una promozione. Purtroppo per lui, ottiene ben altro. La compagnia, onde dimostrare apertura mentale e correttezza politica, vuole promuovere una dirigente donna. Così, Tom si trova a lavorare con Meredith Johnson (nel film impersonata da Demi Moore), una donna molto determinata a prendere il comando. A complicare il tutto c'è il fatto che Tom, prima di sposarsi, ha avuto una fugace storia con lei.Meredith vuole arrivare in cima all'azienda, e sulle prime cerca in Tom un alleato. Come? Facendogli delle avances. Meredith si comporta proprio come Harvey Weinstein nei racconti delle paladine del Me too. Comincia con i complimenti, poi passa al massaggio sulle spalle, quindi fa proposte decisamente esplicite. Fa capire a Tom che, se acconsentirà a fare sesso, la sua carriera ne trarrà giovamento. Ma Tom è sposato, ama sua moglie, e non vuole cedere. Si tira indietro, e lì cominciano i suoi guai. Meredith, capendo che non può piegare Tom, decide di schiacciarlo. Dopo aver recitato la parte di Weinstein, assume quella di una delle tante attiviste dei giorni nostri e denuncia il povero Sanders per molestie sessuali. Quale miglior modo per liberarsi di un rivale maschio sgradito? l'equivoco della predaCrichton mostra, prima di tutto, che le donne possono essere predatrici tanto quanto gli uomini e anche di più. Soprattutto, con venticinque anni di anticipo, rivela quanto possa essere potente l'arma delle molestie. La vita di Tom Sanders viene distrutta, sul lavoro vive un inferno. Nessuno crede alla sua innocenza, almeno all'inizio. Da quando la psicosi molestie ha avuto inizio, poco più di un anno fa, circa 400 uomini di potere sono stati fatti fuori in questo modo. Con la stessa dinamica mostrata da Crichton nel suo libro. Il Me too è diventato esattamente questo: una spietata lotta per il predominio mascherata da battaglia sui diritti. Se n'è accorta perfino un'attivista americana chiamata Tarana Burke. Sapete chi è? È la fondatrice del Me too, niente meno. È stata lei, nei primi anni Duemila, a utilizzare le due paroline per dare il via a una campagna a sostegno delle donne vittime di violenza sessuale e molestie. Nel 2018, però, si è accorta che la sua creazione ha preso una direzione molto diversa. Da quanto, il quindici ottobre del 2017, l'attrice Alyssa Milano, sull'onda del caso Weinstein, invitò via Twitter le donne molestate a scrivere «Me too» sui social, il movimento ha smesso di occuparsi di chi ha subito violenza. Ha allargato il suo campo d'azione a dismisura, snaturandosi. Da quanto le due paroline sono diventate di massa, ha detto la Burke durante un incontro pubblico, «chiunque cerca di spingere qualunque cosa sotto l'ombrello del Me too». Una battaglia che doveva servire a dare voce alle più deboli si è tramutata in una sterminata collezione di rivendicazioni che poco o nulla hanno a che fare con le molestie e gli stupri, che sono diventati un argomento tra tanti. La Burke ha usato parole caute, ben consapevole di rischiare il linciaggio. Ma il suo messaggio è piuttosto chiaro: il Me too doveva occuparsi di donne molestate, non «di equità salariale, rappresentazione sul posto di lavoro o dinamiche di potere in una cultura misogina». Come a dire: un conto è aiutare chi ha subito una brutalità. Un altro è sfruttare il dramma di alcune per favorire la carriera di altre. Più volte l'attivista ha invitato le sue colleghe a essere «specifiche», spiegando che il Me too è stato creato a beneficio di «milioni di persone che sono sopravvissute alla violenza sessuale. È una cosa molto specifica: violenza sessuale». Solo che la violenza vera e le vittime vere sono state spazzate via dalla scena. Al suo posto, sotto i riflettori, si sono posizionate donne ambiziose, che spesso già partivano da posizioni di privilegio. Donne che hanno gridato alla discriminazione soltanto per ottenere avanzamenti di carriera, stipendi più alti, maggiore visibilità. È questo genere di persone ad aver beneficiato del Me too. E tutte le altre, tutte le donne «normali»? Beh, per loro non è cambiato niente. Del resto, era già previsto che finisse così. la società spaccataDice bene Maria Elena Capitanio nelle pagine del libro che tenete fra le mani. Se si vuole migliorare la vita della popolazione, «meglio preoccuparsi dei destini delle persone, quale che sia il loro genere e sesso». Il grande problema del femminismo (o post femminismo, chiamatelo come vi pare) è esattamente questo. Vuole uccidere le femmine - eliminando la differenza di genere, cancellando tutte le caratteristiche distintive del sesso femminile - per poi trasformare le donne in una minoranza tra tante. Il neoliberismo, il sistema in cui siamo immersi, agisce sempre in questo modo. Fraziona la società, la divide in minoranze ciascuna delle quali porta avanti istanze ben precise. Queste minoranze - per ottenere visibilità e «diritti» - devono competere, devono combattere l'una contro l'altra, proprio come imprese nel mercato selvaggio. Alla fine della lotta, magari, ottengono qualche vantaggio. Sui giornali si parla delle donne, le donne vincono qualche Oscar in più, le donne strappano qualche posticino aggiuntivo nei consigli d'amministrazione. Ma sono tutti contentini. Le femmine «normali» continuano a lavorare fino allo sfinimento ogni giorno esattamente come prima. Altre il lavoro nemmeno lo trovano. Altre ancora, se vogliono diventare madri, rischiano il posto o vengono osteggiate o addirittura sono abbandonate dalle istituzioni. Dopo tutto, si usa dire che avere figli sia «una scelta», e se hai scelto da sola di riprodurti, è giusto che tu affronti da sola le conseguenze, no? Le minoranze l'una contro l'altra armate fanno il gioco del capitalismo sfrenato. Maschi e femmine si accusano, diventano nemici, entrano in una dimensione sadica in cui ogni rapporto è basato sul potere, sulla legge del «profitto e della perdita», come diceva T.S. Eliot, ovvero sulla legge del mercato. L'amore - che è sempre gratuito - passa in secondo piano. La famiglia - che si basa sulla gratuità, di nuovo - viene distrutta. I legami disinteressati si sfilacciano. Tutti diventano più soli e restano deboli. La verità è che la condizione femminile migliora se le femmine ottengono stipendi più alti, se hanno diritto a una casa e un buon lavoro, se possono mettere al mondo bambini senza essere penalizzate. Per ottenere tutto questo bisogna che gli stipendi salgano, che il lavoro sia meno precario eccetera. Se però ci si concentra sui presunti «diritti delle minoranze», le conquiste fondamentali che abbiamo elencato passano in secondo piano. Meredith Johnson, il personaggio creato da Michael Crichton, è il prototipo della donna che il femminismo ha creato e continua a creare. Certo: è indipendente, affermata, guadagna bene, è pari agli uomini. Ma è anche sola, feroce, competitiva, predatoria. E, in fondo, molto triste. Siete sicure di voler finire così?
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