2022-05-07
Il Dragone ora lancia la guerra dei pc: stop a quelli stranieri
Governo e aziende statali cambieranno 50 milioni di computer. Un colpo a Dell e Hp grazie alla leva delle materie prime.Si accentua lo scontro tra Washington e Pechino sul fronte tecnologico e valutario. Secondo Bloomberg News, la Cina ha ordinato alle agenzie governative e alle aziende statali di sostituire tutti i personal computer stranieri attualmente in uso con dispositivi di fabbricazione nazionale entro un periodo massimo di due anni. In particolare, si stima che la sostituzione dovrebbe riguardare almeno 50 milioni di apparecchi. Nel breve termine, la mossa punta evidentemente a favorire l’azienda cinese Lenovo, colpendo i colossi statunitensi Dell e Hp, che risultano al momento particolarmente diffusi nella Repubblica popolare cinese. Vista tuttavia nel lungo termine, la decisione di Pechino si inserisce in un quadro più generale: non è del resto un mistero che il Dragone sta da tempo cercando di ridurre la propria dipendenza dagli Stati Uniti nel comparto hi-tech. In tal senso, a novembre fu rivelato che la Repubblica popolare ha potenziato una commissione governativa, volta ad aiutare le società tecnologiche cinesi a incrementare l’autonomia delle loro catene di approvvigionamento. Tutto questo, senza dimenticare che il Dragone può contare su un netto vantaggio in termini di materie prime: pensiamo all’enorme controllo che detiene sulle terre rare e alla sua notevole influenza economico-politica sul continente africano: un continente che Washington e Bruxelles hanno colpevolmente trascurato negli scorsi anni dal punto di vista strategico. D’altronde, il duello tech tra Pechino e Washington non nasce certo oggi. Donald Trump aveva assunto una linea particolarmente severa, imponendo energiche restrizioni al colosso Huawei e colpendo con un divieto WeChat. Joe Biden, dal canto suo, ha tenuto una linea più altalenante. Lo scorso giugno, ha siglato un ordine esecutivo in cui ampliava una blacklist di aziende tecnologiche cinesi, redatta dal predecessore. Dall’altra parte, quello stesso mese, ha fatto tuttavia marcia indietro sullo stop a WeChat. È inoltre vero che l’attuale presidente americano ha più volte sostenuto la necessità di potenziare le catene di approvvigionamento in materia di chip. È tuttavia altrettanto vero che la sua amministrazione non sembra portare avanti una linea granché chiara quando si parla di rapporti commerciali con la Cina: basti pensare che, appena pochi giorni fa, Axios ha riferito di una Casa Bianca internamente spaccata sull’opportunità di mantenere o alleggerire i dazi, imposti da Trump contro Pechino. Va da sé che le tensioni tra Stati Uniti e Cina sul versante tecnologico porranno sempre più al centro la spinosa questione di Taiwan: va infatti rammentato che, soprattutto grazie al colosso Tsmc, l’isola rappresenta il principale produttore di semiconduttori al mondo. In questo quadro, Al Jazeera ha riferito che Taipei sta cercando di arginare la «fuga di cervelli» in atto verso la Cina: il Dragone sta infatti diventando progressivamente attrattivo per studenti e professionisti attivi nel settore tecnologico, grazie a borse di studio e stipendi particolarmente elevati. È quindi chiaro che la tensione in corso su Taiwan chiama in causa (anche) questo fondamentale aspetto: man mano che Washington e Pechino cercano di ridurre la dipendenza reciproca nel settore tecnologico, l’importanza strategica dell’isola cresce. Così come cresce il rischio di una nuova, grave, crisi internazionale. È anche per questo che, nel comunicato congiunto con Vladimir Putin emesso a febbraio, Xi Jinping ha posto Taiwan come uno dei dossier, da considerarsi alla base dell’asse sino-russo: un asse che - attenzione - si sta consolidando. Non è un caso che, in una recente intervista alla Tass, l’ambasciatore cinese a Mosca, Zhang Hanhui, ha dichiarato: «Il commercio di prodotti hi-tech sino-russi sta avanzando in modo ordinato, secondo le regole e le richieste del mercato. La pratica ha dimostrato che la Cina e la Russia hanno un grande potenziale e ampie prospettive per la cooperazione nell’innovazione scientifica e tecnologica». Non solo. Pur non negando problemi nei rapporti sino-russi a causa delle sanzioni e pur dichiarando di non voler abbandonare del tutto l’uso del dollaro, il diplomatico ha aggiunto: «Il regolamento in valuta locale presenta evidenti vantaggi nel commercio bilaterale sino-russo e la domanda di regolamento in valuta locale da parte delle imprese nei due Paesi continua a crescere». Più rubli e yuan, insomma.Non solo Pechino non ha nessuna intenzione di abbandonare Mosca, ma punta a isolare progressivamente l’Occidente sul piano tecnologico e valutario, approfittando anche dell’atteggiamento ambiguo dell’India. Biden, insomma, rischia di ritrovarsi con le spalle al muro: il presidente americano sconta infatti sanzioni scoordinate e piene di scappatoie, oltre all’irresolutezza e a una linea fondamentalmente ondivaga nei confronti di Pechino. Una Pechino che disgraziatamente conosce bene la debolezza dell’attuale Casa Bianca. E che ha tutta l’intenzione di approfittarne.
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Carlotta Vagnoli (Getty Images)