True
2018-09-22
«Il dossier Viganò va preso sul serio. Roma chiarisca o niente più offerte»
Istockphoto
«Dal 1987, anno della nostra fondazione, abbiamo donato al Vaticano circa 18 milioni di dollari. Quest'anno la decima raccolta fra i nostri membri ammonta a 820.000 dollari, ma, come affermato dal nostro presidente Tom Monaghan, vogliamo capire come essa sarebbe utilizzata e se il Vaticano è in grado di rispondere finanziariamente a qualcuno per questi tipi di contributi caritatevoli». A parlare alla Verità è Stephen Henley, direttore esecutivo di Legatus, un'organizzazione di uomini d'affari cattolici che, con una decisione mai presa prima, ha congelato il contributo annuale che era solita versare a Roma.
Il provvedimento è stato annunciato il 6 settembre da una lettera del presidente ai circa tremila membri. Nella missiva, Monaghan, pur non citandolo espressamente, ha fatto riferimento al contenuto del memoriale Viganò avvisando gli aderenti che la decisione di stoppare l'erogazione è maturata in seguito alle «recenti rivelazioni» che angustiano la Chiesa cattolica, la quale sta vivendo un periodo «travagliato» e «di crisi» a causa delle ingiustizie subite dalle «vittime degli abusi».
Monaghan ha fatto anche esplicitamente cenno alle parole del cardinale Daniel DiNardo, presidente della Conferenza episcopale Usa, augurandosi che la sua richiesta di un «esame rapido e approfondito» sulle «carenze morali ed ecclesiastiche recentemente scoperte» sia accolta. Chiediamo dunque a Henley se il board di Legatus abbia ricevuto da Roma rassicurazioni in tal senso, così da poter sbloccare la donazione, ma la sua risposta è tra il laconico e l'evasivo: «Il nostro consiglio di amministrazione continua a discutere di questo problema nelle riunioni programmate». Insomma, no. E questo è un bel problema sia per i membri dell'organizzazione cattolica sia per il Vaticano. Per i primi perché la mancata dazione fa venire meno uno degli scopi principali dell'organizzazione, che è sostenere la Chiesa; per il secondo perché se altri benefattori cattolici statunitensi decidessero di seguire l'esempio di Legatus, per le casse di San Pietro si creerebbe un ammanco notevole.
A spingere a questo passo Legatus non sono state solo le rivelazioni dell'ex nunzio, spiega sempre Henley: «La lettera dell'arcivescovo Vigano è stata una delle tante questioni che hanno portato alla luce accuse inquietanti all'interno della Chiesa». I riferimenti principali di queste parole di Henley sono due: il primo caso, che negli Stati Uniti fece molto rumore, riguarda la richiesta che a inizio anno la Santa Sede rivolse a un'altra fondazione benefica americana, la Papal foundation. Per coprire il buco generato dall'Istituto dermopatico dell'Immacolata di Roma, il Vaticano chiese alla fondazione una donazione di 25 milioni di dollari. La richiesta non piacque oltreoceano, non solo per la consistenza della cifra, ma anche perché, nelle intenzioni dei filantropi a stelle e strisce, le donazioni dovrebbero servire ad aiutare i bisognosi, a costruire occasioni di diffusione della fede, a finanziare progetti culturali, non a tappare i buchi finanziari creati da amministratori inadeguati o disonesti. Se a questo poi si aggiunge il più recente rapporto del gran giurì della Pennsylvania che, a metà agosto, ha denunciato circa 300 sacerdoti accusandoli, nel corso di 70 anni, di molestie nei confronti di minori, si comprende l'ansia che attanaglia molti fedeli americani.
Negli Stati Uniti sono ancora vive e aperte le ferite vissute nei primi anni Duemila quando vennero alla luce i primi scandali sessuali riguardanti il clero. Ferite non solo morali, ma anche economiche per le richieste di risarcimento da parte delle vittime che misero finanziariamente in ginocchio molte diocesi. Ora, si capisce, il timore dei cattolici americani è di ritornare a vivere quei giorni da incubo. E questa è appunto la paura di Legatus, che non è un ente qualsiasi, anzi è considerata «l'organizzazione laica più influente della Chiesa americana». Fondata nel 1987 da Tom Monaghan, il miliardario oggi ottantunenne ideatore di Domino's pizza, raccoglie fra i suoi aderenti solo facoltosi capi d'azienda dal conto in banca a più zeri.
Come ci spiega sempre Henley, «per poter entrare in Legatus occorre essere proprietari, presidenti o amministratori delegati di un'azienda che deve vantare un minimo di 7 milioni di dollari di entrate annuali e deve avere almeno 49 dipendenti. La nostra missione è quella di vivere e diffondere la fede cattolica». Se questo sia possibile anche oggi per Henley non è in discussione: «Noi rimaniamo impegnati a diffondere il magistero della Chiesa». Al tempo stesso, «poiché essa si trova negli Stati Uniti in una situazione difficilissima, continueremo a pregare per la sua guarigione e perché si faccia chiarezza. Legatus e i suoi membri prendono molto sul serio le accuse dell'arcivescovo Viganò».
Emanuele Boffi
L’inedito di Benedetto XVI: «Ecco perché ho deciso di essere il Papa emerito»
La misteriosa lettera firmata da Benedetto XVI, e pubblicata per stralci dalla Bild giovedì, in realtà erano due. È stato lo stesso tabloid a offrire ieri i testi integrali di entrambe le missive del Papa emerito al cardinale Walter Brandmüller, tedesco come Ratzinger e suo amico di lunga data. La prima lettera porta la data del 9 novembre 2017, la seconda quella del 23 novembre dello stesso anno. Il contenuto è sempre la questione della rinuncia di Benedetto e del ruolo da lui assunto in seguito.
In un'intervista al quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung del 28 ottobre 2017, Brandmüller aveva messo in discussione la scelta di Ratzinger di farsi chiamare papa emerito, figura inedita nella storia della Chiesa. L'intervista era nel solco di uno studio che lo stesso porporato aveva pubblicato nell'estate 2016 e in cui concludeva che sarebbe stato necessario procedere a individuare «una legislazione che definisca e regoli» lo statuto di chi è stato papa e non lo è più. Questo per evitare la confusione dovuta a una sorta di ministero petrino «allargato» esercitato in modo «attivo» (Francesco) e in modo «contemplativo» (Benedetto XVI).
Ebbene, nella prima lettera Ratzinger risponde all'amico dicendo che dopo le dimissioni, previste dal diritto canonico, sarebbe stato inopportuno ridursi a semplice cardinale. «Lei sa benissimo», scrive, «che ci sono stati papi che si sono ritirati, anche se molto raramente. Cosa erano dopo? Papa emerito? O cosa invece?». Benedetto fa l'esempio di papa Pio XII che «lasciò istruzioni nel caso fosse stato catturato dai nazisti: dal momento della sua cattura non sarebbe più stato papa, ma cardinale. Non sappiamo se questo semplice ritorno al cardinalato sarebbe stato possibile. Nel mio caso, sicuramente non avrebbe avuto senso», perché - e questo è il punto decisivo per il Pontefice tedesco - «sarei stato costantemente esposto al pubblico come lo è un cardinale, anzi, ancora di più, perché in quel cardinale si sarebbe visto l'ex papa. Ciò avrebbe potuto portare, intenzionalmente o meno, in particolare nel contesto della situazione attuale, a conseguenze difficili. Con il Papa emerito ho cercato di creare una situazione in cui sono assolutamente inaccessibile ai media e in cui è del tutto chiaro che esiste un solo Papa». Il punto è dirimente, visto che i critici della soluzione del Papa emerito hanno sempre sottolineato come l'introduzione di tale figura sia accettabile a patto che non esista alcun ministero petrino «allargato», e che il Papa sia uno solo.
Nella seconda lettera, quella del 23 novembre 2017, Benedetto XVI risponde a Brandmüller che gli aveva scritto il giorno 15. Il Papa emerito ringrazia perché «in futuro non si desidera più commentare pubblicamente sulla questione della mie dimissioni», poi dice di «capire molto bene il dolore che la fine del mio pontificato ha causato in lei e in molti altri», e tuttavia rimprovera «una rabbia che non riguarda più solo la rinuncia, ma si estende sempre più anche alla mia persona e al mio pontificato nel suo insieme». In questo atteggiamento Ratzinger vede un rischio: che il suo magistero sia «svalutato e confuso con la tristezza sulla situazione della Chiesa oggi». Infine l'invito alla preghiera: «Il Signore possa venire in aiuto alla sua Chiesa».
Lo scambio di lettere quindi si riferisce strettamente alla questione della rinuncia e della forma assunta dal Pontefice dimissionario. Quella del papa emerito resta, infatti, una realtà certamente inedita e anche indefinita. Le obiezioni di Brandmüller sono le stesse di altri canonisti, e non è escluso che la Chiesa in futuro arrivi a chiarire una situazione non esente da ambiguità.
Per il resto, non c'è bisogno di chissà quali intenti strumentali per notare la preoccupazione del Papa emerito per la situazione della Chiesa. Già da cardinale Ratzinger aveva sviscerato in più occasioni le cause della crisi della Chiesa, e non stupisce che lo preoccupi anche la situazione attuale. Alla difficoltà di armonizzare una polarizzazione sempre più forte in ambito dottrinale e pastorale, si aggiungono il dramma dello scandalo abusi, il crollo delle vocazioni, la cattiva gestione del potere in molte curie e seminari. Benedetto XVI non può non vedere come molti dei problemi presenti al momento della sua rinuncia siano ancora sul tavolo. Oggi Francesco parte per il viaggio apostolico in Estonia, Lettonia e Lituania, ma proprio ieri altri due vescovi cileni si sono dimessi perché accusati di aver coperto abusi. Salgono così a 7 i presuli del Cile di cui Francesco ha accetto le dimissioni. Siamo alla vigilia di un sinodo sui giovani e negli Stati Uniti proseguono le indagini sul caso dell'ex cardinale Theodore McCarrick, ma gli annunciati «chiarimenti» vaticani sul memoriale Viganò non si sono ancora visti.
Lorenzo Bertocchi
Continua a leggereRiduci
Parla il direttore di Legatus, il club dei milionari cattolici americani che dopo gli ultimi scandali ha congelato le donazioni alla Chiesa (820.000 dollari solo per il 2018). «Ci dicano come usano i soldi e a chi rispondono».Pubblicate le lettere integrali di Ratzinger sulle sue dimissioni. Lasciano altri due vescovi cileni accusati di aver coperto abusi.Lo speciale contiene due articoli«Dal 1987, anno della nostra fondazione, abbiamo donato al Vaticano circa 18 milioni di dollari. Quest'anno la decima raccolta fra i nostri membri ammonta a 820.000 dollari, ma, come affermato dal nostro presidente Tom Monaghan, vogliamo capire come essa sarebbe utilizzata e se il Vaticano è in grado di rispondere finanziariamente a qualcuno per questi tipi di contributi caritatevoli». A parlare alla Verità è Stephen Henley, direttore esecutivo di Legatus, un'organizzazione di uomini d'affari cattolici che, con una decisione mai presa prima, ha congelato il contributo annuale che era solita versare a Roma. Il provvedimento è stato annunciato il 6 settembre da una lettera del presidente ai circa tremila membri. Nella missiva, Monaghan, pur non citandolo espressamente, ha fatto riferimento al contenuto del memoriale Viganò avvisando gli aderenti che la decisione di stoppare l'erogazione è maturata in seguito alle «recenti rivelazioni» che angustiano la Chiesa cattolica, la quale sta vivendo un periodo «travagliato» e «di crisi» a causa delle ingiustizie subite dalle «vittime degli abusi».Monaghan ha fatto anche esplicitamente cenno alle parole del cardinale Daniel DiNardo, presidente della Conferenza episcopale Usa, augurandosi che la sua richiesta di un «esame rapido e approfondito» sulle «carenze morali ed ecclesiastiche recentemente scoperte» sia accolta. Chiediamo dunque a Henley se il board di Legatus abbia ricevuto da Roma rassicurazioni in tal senso, così da poter sbloccare la donazione, ma la sua risposta è tra il laconico e l'evasivo: «Il nostro consiglio di amministrazione continua a discutere di questo problema nelle riunioni programmate». Insomma, no. E questo è un bel problema sia per i membri dell'organizzazione cattolica sia per il Vaticano. Per i primi perché la mancata dazione fa venire meno uno degli scopi principali dell'organizzazione, che è sostenere la Chiesa; per il secondo perché se altri benefattori cattolici statunitensi decidessero di seguire l'esempio di Legatus, per le casse di San Pietro si creerebbe un ammanco notevole. A spingere a questo passo Legatus non sono state solo le rivelazioni dell'ex nunzio, spiega sempre Henley: «La lettera dell'arcivescovo Vigano è stata una delle tante questioni che hanno portato alla luce accuse inquietanti all'interno della Chiesa». I riferimenti principali di queste parole di Henley sono due: il primo caso, che negli Stati Uniti fece molto rumore, riguarda la richiesta che a inizio anno la Santa Sede rivolse a un'altra fondazione benefica americana, la Papal foundation. Per coprire il buco generato dall'Istituto dermopatico dell'Immacolata di Roma, il Vaticano chiese alla fondazione una donazione di 25 milioni di dollari. La richiesta non piacque oltreoceano, non solo per la consistenza della cifra, ma anche perché, nelle intenzioni dei filantropi a stelle e strisce, le donazioni dovrebbero servire ad aiutare i bisognosi, a costruire occasioni di diffusione della fede, a finanziare progetti culturali, non a tappare i buchi finanziari creati da amministratori inadeguati o disonesti. Se a questo poi si aggiunge il più recente rapporto del gran giurì della Pennsylvania che, a metà agosto, ha denunciato circa 300 sacerdoti accusandoli, nel corso di 70 anni, di molestie nei confronti di minori, si comprende l'ansia che attanaglia molti fedeli americani.Negli Stati Uniti sono ancora vive e aperte le ferite vissute nei primi anni Duemila quando vennero alla luce i primi scandali sessuali riguardanti il clero. Ferite non solo morali, ma anche economiche per le richieste di risarcimento da parte delle vittime che misero finanziariamente in ginocchio molte diocesi. Ora, si capisce, il timore dei cattolici americani è di ritornare a vivere quei giorni da incubo. E questa è appunto la paura di Legatus, che non è un ente qualsiasi, anzi è considerata «l'organizzazione laica più influente della Chiesa americana». Fondata nel 1987 da Tom Monaghan, il miliardario oggi ottantunenne ideatore di Domino's pizza, raccoglie fra i suoi aderenti solo facoltosi capi d'azienda dal conto in banca a più zeri. Come ci spiega sempre Henley, «per poter entrare in Legatus occorre essere proprietari, presidenti o amministratori delegati di un'azienda che deve vantare un minimo di 7 milioni di dollari di entrate annuali e deve avere almeno 49 dipendenti. La nostra missione è quella di vivere e diffondere la fede cattolica». Se questo sia possibile anche oggi per Henley non è in discussione: «Noi rimaniamo impegnati a diffondere il magistero della Chiesa». Al tempo stesso, «poiché essa si trova negli Stati Uniti in una situazione difficilissima, continueremo a pregare per la sua guarigione e perché si faccia chiarezza. Legatus e i suoi membri prendono molto sul serio le accuse dell'arcivescovo Viganò».Emanuele Boffi<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-dossier-vigano-va-preso-sul-serio-roma-chiarisca-o-niente-piu-offerte-2606853342.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="linedito-di-benedetto-xvi-ecco-perche-ho-deciso-di-essere-il-papa-emerito" data-post-id="2606853342" data-published-at="1766616597" data-use-pagination="False"> L’inedito di Benedetto XVI: «Ecco perché ho deciso di essere il Papa emerito» La misteriosa lettera firmata da Benedetto XVI, e pubblicata per stralci dalla Bild giovedì, in realtà erano due. È stato lo stesso tabloid a offrire ieri i testi integrali di entrambe le missive del Papa emerito al cardinale Walter Brandmüller, tedesco come Ratzinger e suo amico di lunga data. La prima lettera porta la data del 9 novembre 2017, la seconda quella del 23 novembre dello stesso anno. Il contenuto è sempre la questione della rinuncia di Benedetto e del ruolo da lui assunto in seguito. In un'intervista al quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung del 28 ottobre 2017, Brandmüller aveva messo in discussione la scelta di Ratzinger di farsi chiamare papa emerito, figura inedita nella storia della Chiesa. L'intervista era nel solco di uno studio che lo stesso porporato aveva pubblicato nell'estate 2016 e in cui concludeva che sarebbe stato necessario procedere a individuare «una legislazione che definisca e regoli» lo statuto di chi è stato papa e non lo è più. Questo per evitare la confusione dovuta a una sorta di ministero petrino «allargato» esercitato in modo «attivo» (Francesco) e in modo «contemplativo» (Benedetto XVI). Ebbene, nella prima lettera Ratzinger risponde all'amico dicendo che dopo le dimissioni, previste dal diritto canonico, sarebbe stato inopportuno ridursi a semplice cardinale. «Lei sa benissimo», scrive, «che ci sono stati papi che si sono ritirati, anche se molto raramente. Cosa erano dopo? Papa emerito? O cosa invece?». Benedetto fa l'esempio di papa Pio XII che «lasciò istruzioni nel caso fosse stato catturato dai nazisti: dal momento della sua cattura non sarebbe più stato papa, ma cardinale. Non sappiamo se questo semplice ritorno al cardinalato sarebbe stato possibile. Nel mio caso, sicuramente non avrebbe avuto senso», perché - e questo è il punto decisivo per il Pontefice tedesco - «sarei stato costantemente esposto al pubblico come lo è un cardinale, anzi, ancora di più, perché in quel cardinale si sarebbe visto l'ex papa. Ciò avrebbe potuto portare, intenzionalmente o meno, in particolare nel contesto della situazione attuale, a conseguenze difficili. Con il Papa emerito ho cercato di creare una situazione in cui sono assolutamente inaccessibile ai media e in cui è del tutto chiaro che esiste un solo Papa». Il punto è dirimente, visto che i critici della soluzione del Papa emerito hanno sempre sottolineato come l'introduzione di tale figura sia accettabile a patto che non esista alcun ministero petrino «allargato», e che il Papa sia uno solo. Nella seconda lettera, quella del 23 novembre 2017, Benedetto XVI risponde a Brandmüller che gli aveva scritto il giorno 15. Il Papa emerito ringrazia perché «in futuro non si desidera più commentare pubblicamente sulla questione della mie dimissioni», poi dice di «capire molto bene il dolore che la fine del mio pontificato ha causato in lei e in molti altri», e tuttavia rimprovera «una rabbia che non riguarda più solo la rinuncia, ma si estende sempre più anche alla mia persona e al mio pontificato nel suo insieme». In questo atteggiamento Ratzinger vede un rischio: che il suo magistero sia «svalutato e confuso con la tristezza sulla situazione della Chiesa oggi». Infine l'invito alla preghiera: «Il Signore possa venire in aiuto alla sua Chiesa». Lo scambio di lettere quindi si riferisce strettamente alla questione della rinuncia e della forma assunta dal Pontefice dimissionario. Quella del papa emerito resta, infatti, una realtà certamente inedita e anche indefinita. Le obiezioni di Brandmüller sono le stesse di altri canonisti, e non è escluso che la Chiesa in futuro arrivi a chiarire una situazione non esente da ambiguità. Per il resto, non c'è bisogno di chissà quali intenti strumentali per notare la preoccupazione del Papa emerito per la situazione della Chiesa. Già da cardinale Ratzinger aveva sviscerato in più occasioni le cause della crisi della Chiesa, e non stupisce che lo preoccupi anche la situazione attuale. Alla difficoltà di armonizzare una polarizzazione sempre più forte in ambito dottrinale e pastorale, si aggiungono il dramma dello scandalo abusi, il crollo delle vocazioni, la cattiva gestione del potere in molte curie e seminari. Benedetto XVI non può non vedere come molti dei problemi presenti al momento della sua rinuncia siano ancora sul tavolo. Oggi Francesco parte per il viaggio apostolico in Estonia, Lettonia e Lituania, ma proprio ieri altri due vescovi cileni si sono dimessi perché accusati di aver coperto abusi. Salgono così a 7 i presuli del Cile di cui Francesco ha accetto le dimissioni. Siamo alla vigilia di un sinodo sui giovani e negli Stati Uniti proseguono le indagini sul caso dell'ex cardinale Theodore McCarrick, ma gli annunciati «chiarimenti» vaticani sul memoriale Viganò non si sono ancora visti. Lorenzo Bertocchi
Sergio Mattarella (Ansa)
Si torna quindi all’originale, fedeli al manoscritto autografo del paroliere, che morì durante l’assedio di Roma per una ferita alla gamba. Lo certifica il documento oggi conservato al Museo del Risorgimento di Torino.
La svolta riguarderà soprattutto le cerimonie militari ufficiali. Lo Stato Maggiore della Difesa, in un documento datato 2 dicembre, ha infatti inviato l’ordine a tutte le forze armate: durante gli eventi istituzionali e le manifestazioni militari nelle quali verrà eseguito l’inno nella versione cantata - che parte con un «Allegro marziale» -, il grido in questione dovrà essere omesso. E viene raccomandata «la scrupolosa osservanza» a tutti i livelli, fino al più piccolo presidio territoriale, dalla Guardia di Finanza all’Esercito. Ovviamente nessuno farà una piega se allo stadio i tifosi o i calciatori della nazionale azzurra (discorso che vale per tutti gli sport) faranno uno strappo alla regola, anche se la strada ormai è tracciata.
Per confermare la bontà della decisione del Colle basta ricordare le indicazioni che il Maestro Riccardo Muti diede ai 3.000 coristi (professionisti e amatori, dai 4 agli 87 anni) radunati a Ravenna lo scorso giugno per l’evento dal titolo agostiniano «Cantare amantis est» (Cantare è proprio di chi ama). Proprio in quell’occasione, come avevamo raccontato su queste pagine, il grande direttore d’orchestra - che da decenni cerca di spazzare via dall’opera italiana le aggiunte postume, gli abbellimenti non richiesti e gli acuti non scritti dagli autori, ripulendo le partiture dalle «bieche prassi erroneamente chiamate tradizioni» - ordinò a un coro neonato ma allo stesso tempo immenso: «Il “sì” finale non si canta, nel manoscritto non c’è».
Continua a leggereRiduci
Scott Bessent (Ansa)
Partiamo da Washington, dove il Pil non solo non rallenta, ma accelera. Nel terzo trimestre dell’anno, da luglio a settembre, l’economia americana è cresciuta del 4,3%. Non un decimale in più o in meno: un punto pieno sopra le attese, ferme a un modesto 3,3%. Un dato arrivato in ritardo, complice lo stop federale che ha paralizzato le attività pubbliche, ma che ha avuto l’effetto di una doccia fredda per gli analisti più pessimisti. Altro che frenata da dazi: rispetto al secondo trimestre, l’incremento è stato dell’1,1%. Altro che economia sotto anestesia. Una successo che spinge Scott Bessent, segretario del Tesoro, a fare pressioni sulla Fed perché tagli i tassi e riveda al ribasso dal 2% all’1,5% il tetto all’inflazione. Il motore della crescita? I consumi, tanto per cambiare. Gli americani hanno continuato a spendere come se i dazi fossero un concetto astratto da talk show. Nel terzo trimestre i consumi sono saliti del 3,5%, dopo il più 2,5% dei mesi precedenti. A spingere il Pil hanno contribuito anche le esportazioni e la spesa pubblica, in un mix poco ideologico e molto concreto. La morale è semplice: mentre la politica discute, l’economia va avanti. E spesso prende un’altra direzione.
E l’Europa? Doveva essere la prima vittima collaterale della guerra commerciale. Anche qui, però, i numeri si ostinano a non obbedire alle narrazioni. L’Italia, per esempio, a novembre ha visto rafforzarsi il saldo commerciale con i Paesi extra Ue, arrivato a più 6,9 miliardi di euro, contro i 5,3 miliardi dello stesso mese del 2024. Quanto agli Stati Uniti, l’export italiano registra sì un calo, ma limitato: meno 3%. Una flessione che somiglia più a un raffreddore stagionale che a una polmonite da dazi. Non esattamente lo scenario da catastrofe annunciata.
Anche la Bce, che per statuto non indulge in entusiasmi, ha dovuto prendere atto della resilienza dell’economia europea. Le nuove proiezioni parlano di una crescita dell’eurozona all’1,4% nel 2025, in rialzo rispetto all’1,2% stimato a settembre, e dell’1,2% nel 2026, contro l’1,0 precedente. Non è un boom, certo, ma nemmeno il deserto postbellico evocato dai più allarmisti. Soprattutto, è un segnale: l’Europa cresce nonostante tutto, e nonostante tutti. E poi c’è la Cina, che osserva il dibattito globale con il sorriso di chi incassa. Nei primi undici mesi del 2025 Pechino ha messo a segno un surplus commerciale record di oltre 1.000 miliardi di dollari, con esportazioni superiori ai 3.400 miliardi. Altro che isolamento: la fabbrica del mondo continua a macinare numeri, mentre l’Occidente discute se i dazi siano il male assoluto o solo un peccato veniale.
Alla fine, la lezione è sempre la stessa. I dazi fanno rumore, le previsioni pure. Ma l’economia parla a bassa voce e con i numeri. E spesso, come in questo caso, si diverte a smentire chi aveva già scritto il copione del disastro. Le cassandre restano senza applausi. Le statistiche, ancora una volta, si prendono la scena.
Continua a leggereRiduci
Paolo Barletta, Ceo Arsenale S.p.a. (Ansa)
Il contributo di Simest è pari a 15 milioni e passa dalla Sezione Infrastrutture del Fondo 394/81, plafond in convenzione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, dedicato alle imprese italiane impegnate in grandi commesse estere che valorizzano la filiera nazionale. In termini di struttura, il capitale sociale congiunto copre la componente di rischio industriale, mentre la componente del fondo saudita sostiene la rampa di avvio del progetto, riducendo il fabbisogno di capitale a carico dei partner italiani e rafforzando la bancabilità dell’iniziativa nel Paese ospitante, presentata come modello pubblico-privato nel segmento ferroviario di lusso.
L’intesa è inserita nella collaborazione Italia-Arabia Saudita, richiamando l’apertura della sede Simest a Riyadh e il Memorandum of Understanding tra Cdp, Simest e Jiacc. «Dream of the Desert» è indicato come progetto apripista di un modello pubblico-privato nel trasporto ferroviario di lusso.
«Dream of the Desert è un progetto simbolo per il nostro gruppo e per l’industria ferroviaria internazionale. Valorizza le Pmi italiane e costituisce un caso apripista di partnership pubblico-privata nel settore ferroviario di lusso. L’accordo siglato con Simest e le istituzioni saudite conferma come la collaborazione tra imprese e istituzioni possa creare valore duraturo e promuovere le eccellenze italiane nel mondo», commenta Paolo Barletta, amministratore delegato di Arsenale.
Regina Corradini D’Arienzo, amministratore delegato di Simest, aggiunge: «L’intesa sottoscritta con un primario attore industriale come Arsenale per la realizzazione di un progetto strategico per il Made in Italy, conferma il rafforzamento del ruolo di Simest a sostegno del tessuto produttivo italiano e delle sue filiere. Attraverso la prima operazione realizzata nell’ambito del Plafond di equity del fondo pubblico di Investimenti infrastrutturali», continua la numero uno del gruppo, «Simest interviene direttamente come socio per accrescere la competitività delle nostre imprese impegnate in progetti infrastrutturali ad alto valore aggiunto, favorendo al contempo l’espansione del Made in Italy in mercati strategici ad elevato potenziale di crescita, come quello saudita. Lo strumento, sviluppato da Simest sotto la regia del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e in collaborazione con Cassa depositi e prestiti, si inserisce pienamente nell’azione del Sistema Italia, che, sotto la regia della Farnesina, vede il coinvolgimento di Cdp, Simest, Ice e Sace. Un approccio integrato volto a garantire alle imprese italiane un supporto strutturato e complementare, dall’azione istituzionale a quella finanziaria, per affrontare con efficacia le principali sfide della competitività internazionale».
Sul piano industriale, Arsenale dichiara un treno interamente progettato, prodotto e allestito in Italia: gli hub Cpl (Brindisi) e Standgreen (Bergamo) operano con Cantieri ferroviari italiani (Cfi) come general contractor, coordinando una rete di Pmi (design, meccanica avanzata, ingegneria, lusso e hospitality). Per il committente estero, questa configurazione «turnkey (chiavi in mano, ndr.)» concentra in un unico soggetto il coordinamento di produzione, integrazione e allestimento; per l’ecosistema italiano, sposta volumi e valore aggiunto lungo la catena domestica, fino alla finitura degli interni ad alto contenuto di design.
Il prodotto sarà un treno di ultra lusso con itinerari da uno a due notti: partenza da Riyadh e collegamenti verso destinazioni iconiche del Regno, tra cui Alula (sito Unesco) e Hail, fino al confine con la Giordania. Gli interni sono firmati dall’architetto e interior designer Aline Asmar d’Amman, fondatore dello studio Culture in Architecture. La prima carrozza è stata consegnata a settembre 2025; l’avvio operativo è previsto per fine 2026, con prenotazioni aperte da novembre 2025.
Continua a leggereRiduci
Matteo Hallissey (Ansa)
Il video è accompagnato da un post: «Abbiamo messo in atto», scrive l’ex perfetto sconosciuto Hallisey, «un flash mob pacifico pro Ucraina all’interno di un convegno filorusso organizzato dall’Anpi all’università Federico II di Napoli. Dopo aver atteso il termine dell’evento con Alessandro Di Battista e il professor D’Orsi e al momento delle domande, decine di studenti e attivisti pro Ucraina di +Europa, Ora!, Radicali, Liberi Oltre, Azione e della comunità ucraina hanno mostrato maglie e bandiere ucraine. È vergognoso che non ci sia stata data la possibilità di fare domande e che l’attivista che stava interloquendo con i relatori sia stato aggredito e spinto da un rappresentante dell’Anpi fino a rompere il microfono. Anch’io sono stato aggredito violentemente», aggiunge il giovane radicale, «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi sulla sua partecipazione alla sfilata di gala di Russia Today a Mosca due mesi fa. Chi rivendica la storia antifascista e partigiana non può non condannare queste azioni di fronte a una manifestazione pacifica».
Rivedendo più volte il video al Var, di aggressioni non ne abbiamo viste, a parte come detto qualche spinta, ma va detto pure che quando Hallissey scrive «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi», omette di precisare che quella domanda è stata posta al professore, ma in maniera tutt’altro che pacata: le urla del buon Matteo sono scolpite nel video da lui stesso, ripetiamo, pubblicato. Per quel che riguarda la rottura del microfono, le immagini, viste e riviste non chiariscono se il fallo c’è o no: si vede un giovane attivista che contende un microfono a D’Orsi, ma i frame non permettono di accertare se alla fine si sia rotto o sia rimasto intero.
Quello che è certo è che ieri sono piovuti nelle redazioni i soliti comunicati di solidarietà, non solo da parte di Azione, degli stessi Radicali e di Benedetto Della Vedova, ma anche del capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, che su X ha vergato un severo post: «Solidarietà a Matteo Hallissey, presidente dei Radicali italiani», ha scritto Bignami, «aggredito a un evento Anpi per aver provato a porre domande in un flash mob pacifico. Da chi ogni giorno impartisce lezioni di democrazia ma reagisce con violenza, non accettiamo lezioni». Non si comprende, come abbiamo detto, dove sia la violenza, perché per una volta bisogna pur mettere da parte il politically correct e l’ipocrisia dilagante e dire le cose come stanno: dal video emerge in maniera cristallina la natura provocatoria del flash mob pro Ucraina, e da quelle urla e da quegli atteggiamenti, per noi che abbiamo purtroppo l’abitudine a pensar male, anche se si fa peccato, fa capolino pure che magari l’obiettivo era proprio quello di scatenare una reazione violenta da parte dei partecipanti al convegno.
Non lo sapremo mai: quello che sappiamo è che i Radicali, sigla che nella politica italiana ha avuto un ruolo di primissimo piano per tante battaglie condotte in primis dal compianto Marco Pannella, sono ormai ridotti a praticare forme di puro macchiettismo politico, pur di ottenere un po’ di visibilità: ricorderete lo show di Riccardo Magi, deputato di +Europa, che vaga nell’aula di Montecitorio vestito da fantasma. A proposito di Magi: il congresso che lo scorso febbraio ha rieletto segretario di +Europa il deputato fantasma è stato caratterizzato da innumerevoli polemiche e altrettante ombre. Poche ore prima della chiusura del tesseramento, il 31 dicembre, dalla provincia di Napoli, in particolare da Giugliano e Afragola, arrivano la bellezza di 1.900 nuovi iscritti, praticamente un terzo dell’intera platea di tesserati, iscritti che poi si traducono in delegati che eleggono i vertici del partito. Una conversione di massa alla causa radicale degli abitanti di questi due popolosi comuni del Napoletano in sostanza stravolge gli equilibri congressuali. Tra accuse e controaccuse, un giovanissimo militante, alla fine dello stesso congresso, sconfigge nella corsa alla presidenza di +Europa uno storico esponente del partito come Benedetto Della Vedova. Si tratta proprio di Matteo Hallissey.
Continua a leggereRiduci