Eminenza, cos'è la libertà? Oggi, la parola è spesso associata all'idea della completa autonomia da tutto e tutti. È questa la libertà?
«Quella così concepita è la falsa libertà. Prima però vorrei mettere in chiaro un dato fondamentale: il cristianesimo non è nemico della libertà. Anzi, non è eccessivo dire che il cristianesimo è la religione della libertà, come è la religione dell'amore. Per il cristianesimo non solo Dio ma anche l'uomo è libero. Poi certo, per lunghi secoli, la Chiesa - pur continuando ad affermare che la fede è un atto libero - non ha rispettato abbastanza la libertà di chi non credeva, o credeva diversamente. Noi siamo creature, esseri limitati e radicalmente non autosufficienti. Così è anche la nostra libertà: imperfetta, sottoposta a molteplici condizionamenti, che proprio la psicologia e la sociologia moderne e contemporanee non si stancano di mettere in luce, a volte esagerando. È normale e doveroso, dunque, che a nostra volta, nell'esercitare la nostra libertà teniamo conto degli altri, della loro libertà ma non solo di essa: della loro vita, del loro bene, dei loro bisogni e interessi. Non posso soffermarmi sui diversi casi concreti di presunti diritti. Mi limito al primo, l'aborto, che è il più grave e il più frequente e a cui si può anzitutto rispondere che si tratta dell'uccisione di un altro essere umano, per di più innocente. Alla base di questi pretesi diritti sta il relativismo, per il quale il bene e il male, il vero e il falso dipendono solo dalle nostre scelte e quindi ogni desiderio diventa un diritto. Così la nostra libertà viene distaccata dalla verità e dall'etica, in ultima analisi dalla realtà, e finisce per autodistruggersi. L'illusione di questa falsa libertà conduce facilmente al conformismo».
Cattolici e potere. Oggi è innegabile un impegno di molte associazioni di chiaro orientamento cattolico nel volontariato e nel Terzo settore. Non è così in politica: esistono cattolici, ma spesso questa loro appartenenza non è dirimente. Dove sta il problema?
«Direi anzitutto che oggi in Italia il peso dei cattolici in politica è ridotto al minimo. Il problema sta nella debolezza del rapporto tra fede e cultura. Per questo rapporto rimangono fondamentali le parole pronunciate da Giovanni Paolo II nel 1982: “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta". Oggi invece, non solo in Italia, assistiamo proprio a una diaspora culturale e politica, per la quale molti politici cattolici si sentono liberi di prendere posizioni opposte, condivise da tanti altri cattolici loro elettori o comunque convinti che la propria fede personale non abbia determinate implicazioni culturali e politiche. Come uscirne? C'è senz'altro bisogno di quel lavoro educativo a cui accennavo. È inoltre di grande aiuto la testimonianza di quei politici, cattolici ma anche non espressamente tali, che non temono di andare contro corrente sulle questioni eticamente più rilevanti. Oggi in politica, piaccia o non piaccia, contano soprattutto i leader: sarebbe quindi assai auspicabile che emergesse qualche leader di questo genere».
Dei “capi" però possono manifestarsi solo se esiste un ambito, un humus, una comunità nella quale tali leader possano crescere.
«In parte è come dice lei, in parte è qualcosa di personale... il leader non si sceglie, ha una sua forza naturale. Tuttavia è certamente importante, perché il leader sia di un certo tipo, il contesto educativo in cui si è formato. Ad esempio, i leader della Democrazia cristiana si erano tutti formati in ambiente cristiano. Pensiamo ad Alcide De Gasperi, Giulio Andreotti, Guido Gonella, Attilio Piccioni, tutta gente che aveva una formazione di un certo tipo».
Oggi, però, le condizioni sono assai diverse rispetto a quella situazione. Quando nel 2007 ci fu il primo Family day ci furono un'indicazione chiara da parte dell'autorità ecclesiastica e una mossa decisa da parte del laicato cattolico. Rispetto alla Chiesa, che consiglio darebbe per mettere insieme un mondo cattolico che è molto frastagliato?
«Ho lavorato molti anni a quello che si chiamava il “Progetto culturale". Poi si è spento perché la Cei non se ne è più interessata, sebbene ci fossero vescovi e laici in esso molto impegnati, ma senza il supporto vero della Conferenza episcopale il Progetto si è afflosciato. E questo, secondo me, è stato un danno molto grave. Si tratta sempre di mettere in rapporto fede e cultura, attraverso un lavoro educativo e formativo e coinvolgendo tutte le forze vive che ci sono. Io credo che l'idea di separare la Chiesa ufficiale, da una parte, e il laicato, dall'altra, sia un errore fondamentale che priva il laicato del suo retroterra di cui ha assoluto bisogno, ma priva anche l'autorità ecclesiastica di quell'incidenza concreta che deve proporsi».
Oggi è arduo sostenere pubblicamente posizioni considerate «vecchie» o «intolleranti». Quindi, c'è anche un problema di coraggio e di tenacia? Come si riacquistano? In cosa possiamo riporre la nostra speranza?
«Speriamo innanzitutto in nostro Signore. Se si ha coraggio si fanno cose che sembrerebbero impossibili, questo è sicuro. Quando si accettò la sfida sul referendum sulla legge 40, quella sulla procreazione assistita dissi: “Guardate che noi non abbiamo paura". Molti pensarono che fossi un po' matto, ma io, in realtà, sapevo che ci sarebbe stata una fetta di popolazione che si sarebbe astenuta, così come era avvenuto nella precedente consultazione sull'articolo 18. In quell'occasione a me fu richiesto molto coraggio, anche se ero certo che sarebbe finita bene. Dissi agli scettici: proviamo una volta tanto a giocarci la sfida puntando su un'astensione consapevole e questo, poi, piacque moltissimo tanto che raccogliemmo adesioni immediate e poi, pian piano, anche fra coloro che volevano votare No. Quindi c'è un elemento di rischio che bisogna affrontare perché nelle vicende umane non si sa mai come andrà a finire. È come nell'educazione: quando ci si espone con libertà c'è sempre un rischio, un “rischio educativo", un pericolo di insuccesso - don Luigi Giussani ha spiegato molto bene queste cose. Ma bisogna rischiare, non si può non dare mai libertà per paura di rischiare».
A proposito del referendum sulla legge 40, in quel periodo ci fu la risposta di un certo mondo laico alle preoccupazioni sollevate dai cattolici. Rispetto a questo mondo che atteggiamento dobbiamo avere noi cattolici? Su quali punti possiamo convergere?
«Un atteggiamento molto positivo, perché non è vero che certi princìpi possono essere solo dei cattolici. Non è vero, hanno una loro razionalità e positività intrinseca che convince molte persone credenti o non, praticanti o non. Questo lo ha sottolineato più volte papa Benedetto negli scritti che ha pubblicato poco prima di salire al soglio pontificio in cui diceva che era fondamentale questa apertura, questo non costruire barriere tra laici e cattolici. Naturalmente, questo si può fare a partire da fatti concreti ed è su questi che va portata l'attenzione, non sulla discriminante “io sono cattolico e tu no". Questo è un po' un limite che hanno a volte certi gruppi cattolici, ma che va superato cercando di concentrarci sulla sostanza delle cose. È per questo che io dico: l'unità politica dei cattolici oggi è impossibile, però il mettere in luce dei contenuti su cui ci sia una larga convergenza, questo è possibile e questa era l'anima del Progetto culturale e del discorso che fece Giovanni Paolo II a Palermo».
Ricomincia la scuola. In particolare gli istituti paritari, in questi ultimi anni, sono in difficoltà. Ad aggravare una situazione già complicata è arrivato il coronavirus. Perché, secondo lei, le paritarie meritano di esistere ancora? Cosa dovrebbe fare lo Stato nei loro confronti?
«Purtroppo questa è una questione italiana: altri Paesi, certamente meno legati alla Chiesa rispetto all'Italia, hanno una piena libertà scolastica e, addirittura, si meravigliano che noi non l'abbiamo. Questo è un residuo della cultura risorgimentale che si trascina ancora oggi, ma che non ha nessuna ragione intrinseca. Perché un insegnante dovrebbe essere libero ma solo dentro la scuola dello Stato? Se viviamo in un Paese liberale e democratico che assicura non solo il voto a tutti ma anche la libertà, allora bisogna riconoscere che una delle libertà fondamentali è quella di insegnare. E questa si può concretizzare in istituti dediti all'insegnamento come sono le scuole e le università. Per quanto riguarda il resto, occorre che la scuola cattolica sia davvero tale non solo nello stile, ma anche nei contenuti che propone. Quando si spiega la filosofia, la letteratura, le scienze è importantissimo che nella scuola cattolica si esprima una posizione che ha certe radici e giunge a certe conclusioni. Altrimenti è una scuola cattolica di nome, ma non di fatto».
Sono 304 le scuole paritarie chiuse nell'ultimo anno e 24.713 gli alunni in meno rispetto all'anno scorso. Numeri in linea con una tendenza che nell'ultimo lustro si è fatta cronica e che vanno a certificare la crisi degli istituti non statali del nostro paese. A confermarlo, recentemente, anche il XX Rapporto del Centro studi scuola cattolica (Cssc), che ha sciorinato una serie di dati sullo stato di salute delle paritarie nel nostro paese e che riguarda 12.662 istituti, 879.158 studenti e circa 25.000 insegnanti, ma, se si tiene conto anche del personale non docente, la cifra raggiunge le 80.000 persone (dati Miur).
I numeri delle paritarie vanno di anno in anno assottigliandosi: nel 2013-14 le scuole funzionanti erano 13.625; nel 2014-15 13.498; nel 2015-2016 13.267; nel 2016-17 12.966; nel 2017-18, come detto, 12.662. Dieci anni fa erano frequentate da circa un milione e duecentomila studenti, oggi da meno di 900.000 ragazzi. L'incidenza degli alunni in percentuale sul totale delle scuole è dunque passata dall'11,2% del 2013 al 10,4 odierno.
Le scuole non statali non hanno mai avuto vita facile nel nostro paese. Vuoi per una questione meramente ideologica (l'accusa di essere le «scuole dei preti», dura a morire, cela il sottinteso di essere istituti dove l'indottrinamento religioso conta più della preparazione didattica), vuoi per una questione di cultura politica (il mondo della scuola, assai sindacalizzato, è stato per molti anni un bacino elettorale importante per la sinistra). Resta il fatto che ad aver inquadrato giuridicamente la scuola paritaria è stato un comunista, Luigi Berlinguer, con la legge 62/2000 che ha segnato senz'altro un punto di svolta, ma non fino al punto da elevare questi istituti allo stesso livello di dignità di quelli gestiti dallo Stato. Perché? Perché ogni anno le paritarie devono aspettare la mancetta (circa 500 milioni) erogata dallo Stato? Perché, sebbene la legge Berlinguer abbia affermato che «pubblico» non è sinonimo di «statale» e che un genitore possa scegliere la scuola che preferisce per il figlio, nei fatti, questa scelta tanto libera non è?
l'1% dei fondi statali
Intanto la crisi economica si fa sentire per tutti e dunque anche per quelle famiglie che scelgono tali istituti, costrette a pagare due volte: le rette (spesso, inevitabilmente, salate) e le tasse. Non è solo una questione di libertà di scelta, ma anche di un vero e proprio accanimento dello Stato contro gli istituti paritari, una sorta di discriminazione di cui pochi si curano e che invece farebbe del bene (anche) alle casse del nostro paese.
Se si va avanti di questo passo le cosiddette «scuole libere» saranno «libere» solo di chiudere. Ma sarebbe un danno per tutti: per lo stesso Stato che le strozza, innanzitutto. Sebbene, infatti, le paritarie accolgano circa il 10% degli studenti italiani, esse percepiscono solo l'1% dei fondi statali destinati all'istruzione. La spesa media statale per ogni alunno delle paritarie è di circa 490-500 euro annui (si va dai 600 euro per le scuole materne ai 50 euro per le superiori) contro i 7.500 euro per uno studente delle statali.
In soldoni, significa che se le paritarie chiudessero domani, tutto il sistema scolastico italiano collasserebbe, trovandosi, di botto, a dover pagare 9 miliardi e 750 milioni in più, per non parlare della necessità di dover trovare in un battibaleno edifici adatti a dover accogliere questi alunni.
In particolare, una voragine enorme si aprirebbe nel mondo delle scuole dell'infanzia dove la percentuale delle paritarie è altissima, ben il 41 per cento del totale. In Italia, infatti, esistono oltre 9.000 scuole dell'infanzia paritarie a fronte di 13.300 statali. È facile immaginare cosa accadrebbe se tutte queste scuole fossero costrette a chiudere. Ma questo rende bene anche l'idea che le paritarie non sono scuole private «per ricchi», ma rendono un servizio pubblico di cui tutti beneficiano. Dunque perché osteggiarle, bistrattarle, fingere che, se sparissero, sarebbe solo un problema dei privati abbienti e non, invece, come è, un problema per tutta la comunità?
«rubare» i docenti
Si prenda un altro esempio tratto da una fonte insospettabile. Il 24 settembre è apparso sul dorso milanese del Corriere della Sera un articolo che avrebbe meritato ben altra collocazione. Per la prima volta si è cercato di quantificare il costo di una scuola statale, cioè quanto incide la cosiddetta «scuola gratuita» sulle tasche dei cittadini. Un'indagine di Civicum in collaborazione con Deloitte ha quantificato in 10 milioni di euro annui il costo del liceo Leonardo Da Vinci di Milano. Il liceo ha una struttura di 11 mila metri quadrati in centro città, ospita mille studenti e cento lavoratori, fra insegnanti e tecnici. Secondo i conti di Civicum, lo Stato spende una media di diecimila euro all'anno ad alunno. Diecimila contro i 50 euro di spesa per uno studente della scuola secondaria paritaria.
Ad aggravare ulteriormente una situazione già complicata ci ha pensato anche la Buona scuola renziana che ha svuotato le graduatorie ad esaurimento, mettendo in difficoltà le paritarie che si ritrovano così senza docenti che sono passati, in gran numero, alle statali. Una difficoltà che spesso viene a crearsi ad inizio anno, complicando ulteriormente l'avvio delle lezioni e depauperando il patrimonio umano delle paritarie che si ritrovano defraudate di insegnanti che hanno pazientemente formato.
- Se all'estero si pratica l'eutanasia, in Italia esiste una rete di protezione: «Adesso non dobbiamo mollare, la scienza sta facendo grandi progressi».
- Parla il professor Martin Monti che ha inventato un test sperimentale per le persone che appaiono in stato vegetativo: «Accendiamo loro il cervello. In questo modo sono in grado di interagire con l'esterno, possono dire sì o no».
- Il medico del don Orione di Bergamo Giovanni Battista Guizzetti: «Vegetali? È una parola orrenda. Sono esseri umani, e sono capaci sempre di sorprenderci».
Lo speciale contiene tre articoli.
Quattrocento persone intente ad ascoltare con attenzione una conferenza sul cervello, uno speed date tra studiosi e tantissimi curiosi, numerosi appuntamenti fissati nelle prossime settimane tra ricercatori e giovanissimi con l'obiettivo di riprendere gli argomenti trattati. È una Matilde Leonardi raggiante, quella intercettata dalla Verità all'indomani della Notte europea dei ricercatori e della Conferenza internazionale dei giovani ricercatori del Besta. «C'è un interesse crescente intorno alle neuroscienze e questo è confortante», ci spiega. La dottoressa Leonardi è responsabile dal 2001 dell'Unità di neurologia, salute pubblica e disabilità dell'Istituto neurologico Carlo Besta, oltre a ricoprire il ruolo di direttore del Coma research center appartenente alla stessa struttura. Leonardi è stata anche coordinatrice del progetto nazionale «Incarico», che nel 2015 ha permesso di mappare 2.542 strutture dedicate al trattamento dei disordini della coscienza in 11 Regioni italiane. Un curriculum che la rende uno dei massimi esperti mondiali in questo campo.
Per introdurci nella problematica ci aiuta partendo dalle basi. Si parte dall'evento acuto (trauma, ictus, anossia cerebrale, ecc.), che provoca l'insorgere del coma, quella condizione nella quale gli occhi rimangono chiusi e non c'è risposta a nessuno stimolo. Dopo un certo periodo, che va dalle due settimane a un mese, gli occhi si aprono e compare il ritmo sonno/veglia: si compie così il passaggio dal coma allo stato vegetativo. Quando appaiono le prima risposte agli stimoli, come ad esempio il pianto nel vedere una persona cara, si parla di stato di minima coscienza. «In questo continuum», spiega la dottoressa, «man mano che abbiamo migliorato la nostra capacità di diagnosi, sono sempre più i pazienti che riconosciamo in stato di minima coscienza rispetto a quelli in stato vegetativo». Ciò accade non perché questi ultimi diminuiscono in numero, ma «perché siamo diventati più bravi a trovarli».
È una delle chiavi di volta di quella che la dottoressa Leonardi chiama con orgoglio la «via italiana allo studio dei disordini della coscienza». Uno sforzo sostenuto da ricercatori e strutture validissime, che grazie ai «progressi culturali, tecnologici, riabilitativi» ottenuti negli ultimi anni ha permesso di fare passi da gigante nel «misteriosissimo campo del cervello». Questa via parte da un punto fondamentale, che è l'attenzione al paziente. «Usufruendo del Sistema sanitario nazionale, possiamo permetterci di farci carico dal primo istante del paziente, garantendo alla famiglia, in un momento così straziante, una forma di sicurezza. Nessun paziente che ha un evento acuto in questo Paese è abbandonato». Poi c'è il secondo step, rappresentato dal percorso di riabilitazione. Un campo nel quale in Italia, sostiene il dirigente medico del Besta, «siamo tutti cresciuti grazie a una condivisione collettiva delle informazioni, alle Conferenze di consenso, all'aggiornamento di tutti medici, al fatto che abbiamo imparato a utilizzare la coma recovery scale, che permette di effettuare una gradazione del livello clinico di coscienza dei pazienti». Ultimo punto di questa via, la presa in carico del paziente cronico tramite le strutture di lungo degenza, che certo può essere migliorata sotto tanti punti di vista, ma comunque c'è.
Non è tutto rose e fiori, certo. Dopo tre anni, nel 2015, il ministero della Salute chiude il «Tavolo di lavoro per l'assistenza alle persone in stato vegetativo e stato di minima coscienza», senza mai trasmettere alle Regione né rendere pubblico il documento finale. E poi il nodo dei finanziamenti, che negli ultimi anni sono stati dirottati altrove. «I fondi sulla ricerca dei disordini della coscienza devono tornare a essere un punto importante», sostiene la dottoressa Leonardi, perché «scoprendo e studiando il cervello per i disordini della coscienza, come ricercatori possiamo dare risposte utili anche ad altre malattie». Nonostante tutti i suoi limiti, la realtà italiana continua a distinguersi da quella degli altri paesi, nei quali si teorizza l'eutanasia come strada maestra per il trattamento degli stati vegetativi persistenti.
Un tratto importante di questa «via» è occupato dalle numerose associazioni che si occupano di sostenere le persone che si trovano in questo stato e i loro familiari. Paolo Fogar, presidente della Federazione nazionale associazione traumi cranici (Fnatc), evidenzia come una volta che il paziente torna a casa la gestione passa in capo alla Asl, con il rischio di «originare disparità tra i cittadini delle varie regioni». L'accordo Stato-Regioni firmato nel 2011, e alla cui formulazione ha collaborato anche la Fnatc, prevede che ogni regione realizzi delle Speciali unità di accoglienza permanente (Suap). «Sono ancora poche le Regioni che hanno realizzato Suap nel numero sufficiente in base ai dati epidemiologici», incalza Fogar. «Dove non sono state realizzate, le persone in stato vegetativo sono ricoverate nelle lungo degenze, servizi non sempre adeguati alle complesse necessità di questi individui».
È per venire incontro a queste esigenze che l'associazione Risveglio ha fondato «Casa Iride», un progetto di cohousing dedicato alle persone in stato vegetativo e di minima coscienza unico in Europa. Sette stanze di sette colori diversi in via di Torre Spaccata a Roma, nelle quali gli ospiti ricevono l'assistenza sociosanitaria di cui hanno bisogno, mentre i familiari condividono l'ambiente con le persone che vivono la loro stessa esperienza. A gennaio del 2016, la graditissima visita a sorpresa di papa Francesco. Quello materiale, però, non è l'unico aspetto. Come ci spiega il presidente, Francesco Napolitano, lo scopo è quello di «ridare dignità alle persone in stato vegetativo e alle loro famiglie», perché «i valori della vita, quelli connaturati nella natura umana, non sono perduti ma sono dentro di loro».
Gli fa eco Massimo Calipari, portavoce nazionale di Scienza & Vita, che alla Verità precisa che «i soggetti in questa condizione clinica sono persone viventi, con un (più o meno) grave danno cerebrale», perciò «in alcun modo può essere messa in discussione la loro dignità di esseri umani e il conseguente dovere morale di prendersi cura della loro fragile vita».
«Ho scoperto come comunicare con chi è in coma irreversibile»






