2021-06-15
Il deficit di valori dell’Occidente è un assist formidabile per l’islam
Il moltiplicarsi di casi di mancata integrazione culturale e religiosa scaturisce da un problema tutto nostro. Lo sfarinamento etico indebolisce la società e consente al radicalismo di attecchire come forma di conquistaPresidente di sezione a riposo della Corte di cassazione Il caso della giovane Saman, probabilmente uccisa dai suoi familiari a causa del suo rifiuto di accettare il matrimonio con un anziano congiunto che, in nome di una certa tradizione, se non anche della legge islamica, le si sarebbe voluto imporre, ha riportato d'attualità il ricorrente interrogativo circa la possibilità o meno, da parte di chi professa la religione islamica, di integrarsi pienamente nella legislazione come pure negli usi e costumi del mondo occidentale. La risposta ad un tale interrogativo, contrariamente a quanto si dà fideisticamente per scontato da parte degli irriducibili fautori della «società multietnica», difficilmente può essere positiva. Ciò anzitutto sulla base di fattori storici, primo dei quali costituito dalla inesistenza, nella cultura e nella tradizione islamica, della distinzione, propria invece della cultura e della tradizione dell'Occidente cristiano, tra potere politico e potere religioso; inesistenza che si spiega agevolmente considerando che il cristianesimo ottenne il suo riconoscimento come religione di Stato dallo stesso Impero romano che precedentemente lo aveva, sia pure ad intermittenza, perseguitato e che conservava, quindi, pur dopo quel riconoscimento, la sua originaria autolegittimazione, poi trasferita ai singoli Stati che da esso hanno tratto origine od al quale si sono ispirati. L'islam si affermò, invece, fin dall'inizio, sotto la guida di un capo che doveva essere al tempo stesso capo religioso, politico e militare, quale fu, in effetti, Maometto e quali furono tutti coloro che, più o meno legittimamente, si accreditarono poi, per lunghi secoli, a vario titolo (califfi, sultani, emiri) come suoi successori. Ancor oggi, nei Paesi di tradizione islamica retti a regime monarchico (Arabia saudita, Giordania, Marocco ed altri minori), i sovrani riallacciano la loro autorità a quella del Profeta; ed anche in quelli che hanno forma di repubblica non è neppure concepibile che chi esercita il potere non faccia pubblica professione della fede islamica, assumendo quindi, per ciò solo, l'impegno di adottare politiche che non siano in contrasto con l'obbligo, gravante su ogni buon musulmano, di salvaguardare e, se possibile, estendere la sfera di influenza dell'islam. Un secondo fattore storico è poi quello costituito dal fatto che l'islam si affermò e si diffuse in modo pressoché esclusivo mediante la conquista militare, espressamente concepita e predicata come strumento essenzialmente diretto a quello scopo; ciò a differenza del cristianesimo, la cui affermazione, avvenuta all'interno dell'Impero romano, non richiese conquiste territoriali, le quali, quindi, anche in seguito, non furono mai viste come strumenti essenziali ma solo, tutt'al più, come occasioni propizie per la diffusione della fede, rimanendo essa affidata soprattutto a missionari predicatori; figure, queste ultime, che risultano invece, non a caso, pressoché sconosciute nella tradizione islamica. Di qui la estrema difficoltà per qualsiasi islamico osservante, quando si trovi, temporaneamente o stabilmente, in un Paese le cui leggi ed i cui costumi siano da lui ritenuti non conformi ai precetti del Corano, a sentirsi obbligato ad adeguare ad essi la propria condotta quando il dovere da lui avvertito in coscienza sarebbe invece quello di considerare quel Paese come auspicabilmente destinato alla conquista, anche se non necessariamente violenta, da parte dell'islam e di collaborare, quindi, per quanto possibile, al raggiungimento di tale scopo. E ciò, con ogni evidenza, del tutto indipendentemente dalla circostanza che del Paese in questione egli abbia o meno, per nascita o per successiva acquisizione, la cittadinanza. Ma se così è, appare allora facilmente comprensibile come il suddetto adeguamento diventi ancor più difficile, se non del tutto impossibile, quando leggi, usi e costumi dell'Occidente appaiono in radicale contrasto non solo con specifici precetti della religione islamica ma anche con le regole ed i principi morali da essa riconosciuti e che, fino a pochi decenni or sono, erano in gran parte comuni allo stesso Occidente; regole e principi che sono stati però da quest'ultimo abbandonati con l'introduzione, in tutti o quasi tutti i Paesi che ne fanno parte, di norme quali quelle che hanno trasformato l'aborto in una sorta di vero e proprio diritto soggettivo della donna, indipendentemente dall'accertata esistenza di obiettive ragioni che potrebbero renderlo dolorosamente necessario; che hanno esaltato l'omosessualità fino ad ammettere il matrimonio o forme di unione sostanzialmente ad esso equivalenti tra persone dello stesso sesso; che hanno consentito il disinvolto superamento, financo sulla base del mero capriccio soggettivo, della naturale distinzione tra sesso maschile e sesso femminile; che hanno legittimato ogni e qualsiasi tipo di manipolazione genetica; che hanno totalmente liberalizzato la pornografia con l'unica, labile ed ipocrita limitazione che essa non coinvolga soggetti di età minore; che hanno reso lecito l'uso personale di ogni tipo di droga senza considerare il danno che da esso deriva non solo al singolo individuo ma all'intera società; che, in una parola hanno inteso realizzare (ed in gran parte vi sono riuscite), una vera a e propria rivoluzione del costume morale all'insegna del più totale e spensierato permissivismo, malamente contrabbandato sotto le mentite spoglie della libertà ed accompagnato da un odio, tanto implacabile quanto assurdo, per tutto ciò che fino - si può dire - all'altro ieri aveva costituito il fondamento etico, generalmente condiviso, della nostra identità culturale. Se questa è dunque l'immagine che, piaccia o non piaccia, l'Occidente dà attualmente di sé, non si vede per quale ragione un islamico di normali sentimenti (e non, quindi, necessariamente, un fanatico integralista), dovrebbe sentirsi spinto a considerarla come un modello al quale ispirare la propria condotta, piuttosto che a distanziarsene, invece, nella maggior misura possibile, apparendo evidente, ai suoi occhi (come, del resto, anche agli occhi di molti occidentali), che essa è indice di una inarrestabile decadenza, resa ancor più evidente dal sempre più accentuato declino demografico delle popolazioni europee, manifestatosi nel corso degli ultimi anni. Il che può aprire la strada anche alla scelta di contrapporre ad un tale modello, per evitare il pericolo del contagio, le più radicali ed estremiste tra le interpretazioni dell'islam che si possano immaginare, fino a quella che giunga al sacrificio della vita umana di chi rifiuti di prestarvi adesione. D'altra parte, l'esperienza storica unita al comune buon senso insegnano che solo le società in crescita hanno la capacità di assimilare gli elementi ad esse originariamente estranei, dal momento che proprio la loro vitalità costituisce per questi ultimi motivo di attrazione. Tutto il contrario di quel che avviene quando una società è o appare in declino, giacché, in tal caso, gli elementi estranei non solo non possono nutrire alcun desiderio di integrarvisi ma, semmai, possono aspirare a sottometterla; il che è appunto quanto l'islam ha sempre cercato di fare nel corso della sua storia, ogni volta che ne ha avvertito la possibilità. Per evitare che ciò avvenga non c'è, quindi, che una strada: non rassegnarsi al declino dell'Occidente, a cominciare da quello demografico, che è il più pericoloso ed appariscente, ma continuare a combatterne le cause; cosa sicuramente difficile ma forse non ancora impossibile.