2020-04-17
«Il Covid-19 è uscito dai laboratori cinesi». Report degli 007 Usa punta contro Pechino
L'ambasciata segnalò «gravi carenze» nel centro di Wuhan. Il virus sarebbe stato nascosto per livellare i danni economici. Fake news: così era stata bollata l'ipotesi secondo cui il coronavirus potesse essere uscito da un laboratorio cinese. Invece un dossier sul tavolo c'è. A parlarne è stato Josh Rogin sul Washington Post. L'editorialista ha riferito che nei primi mesi del 2018 l'ambasciata americana a Pechino aveva inviato personale diplomatico e scientifico presso il Wuhan Institute of Virology. Quanto appreso in loco avrebbe destato non poca preoccupazione tra i funzionari statunitensi, i quali avvertirono Washington con due cablogrammi, evidenziando innanzitutto «carenza di sicurezza» all'interno del laboratorio cinese. In uno dei documenti - datato 19 gennaio 2018 - si legge: «Durante le interazioni con gli scienziati del laboratorio del Wuhan Institute of Virology, hanno notato che il nuovo laboratorio ha una grave carenza di tecnici e ricercatori adeguatamente formati per operare in sicurezza in questo laboratorio ad alto contenimento». I documenti mostrano anche come nella struttura si stessero studiando coronavirus tratti dai pipistrelli e si fa riferimento alla concreta possibilità di trasmissione agli esseri umani, aspetto biologico che rappresentava il rischio di generare una pandemia simile a quella della Sars nel 2003. La delegazione americana aveva avuto modo di incontrare Shi Zhengli, uno scienziato che già da anni si occupava di coronavirus da pipistrello. Il Washington Post premette che non sussistono al momento prove del fatto che il virus del Covid-19 sia stato progettato in vitro, rammentando tra l'altro che - secondo la maggior parte degli scienziati - risulti di origine animale. Tuttavia ciò non significa che il virus non sia potuto uscire da un laboratorio che da anni - come acclarato - stava conducendo ricerche sui coronavirus tratti dai pipistrelli. Coincide con quanto ipotizzato da Xiao Qiang, ricercatore di Berkeley, citato da Rogin nel suo editoriale. Lo scienziato asiatico, oltre al Wuhan Institute of Virology, esprime seri dubbi anche su un altro istituto: il Wuhan Center for Disease Control and Prevention. Se in un primo momento pare che la Casa Bianca non abbia prestato troppa attenzione alla faccenda, sembrerebbe che - negli ultimi due mesi - i cablogrammi siano tornati a circolare in seno all'amministrazione americana. Pare infatti che l'amministrazione Trump si stia sempre più convincendo che l'effettiva origine del coronavirus possa essere collegata ai suddetti laboratori di Wuhan. Ieri la Cnn ha confermato che l'intelligence e il governo statunitensi stanno sempre più prendendo in considerazione questa ipotesi. In particolare, la tradizionale spiegazione secondo cui il coronavirus sia scaturito dal mercato del pesce di Wuhan starebbe riscontrando crescente scetticismo alla Casa Bianca. Lo stesso Rogin ha sottolineato come - secondo quanto riportato dalla rivista Lancet a gennaio - il primo paziente noto non avesse legami col mercato, oltre al fatto che - precisa l'editorialista - quel mercato non vendesse pipistrelli. I servizi americani non ritengono si tratti di un'arma biologica, quanto piuttosto di un incidente di laboratorio. Pechino ha smentito su tutta la linea. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, ha riferito che secondo l'Oms non ci sarebbero prove che il virus sia stato creato in una struttura. Vanno però tenute presenti due considerazioni. In primo luogo, l'Oms è stata accusata - non senza qualche fondamento - di eccessiva accondiscendenza nei confronti della Cina. Sempre Zhao Lijian, lo scorso 12 marzo, condivise su Twitter l'ipotesi che fosse stato l'esercito americano a «portare l'epidemia a Wuhan», esortando gli States a «essere trasparenti». Eppure il contenuto dei cablogrammi americani qualche significativo dubbio lo instilla. Senza contare le falle nella trasparenza da parte di Pechino, che prima ha messo a tacere i medici scomodi e poi - come rivelato dall'Associated Press - ha ritardato di sei giorni l'ammissione dell'epidemia (dal 14 al 20 gennaio), permettendo così che nel frattempo si registrassero oltre 3.000 contagi. Proprio ieri The Diplomat, una testata online americana, ha in merito fornito una lettura inquietante ma non con qualche appiglio di opportunità politica: la leadership cinese, travolta dall'emergenza biologica, avrebbe compiuto il più cinico dei calcoli: circoscrivendo il coronavirus entro i propri confini, la Cina sarebbe stata l'unica nazione al mondo a pagare - specie in termini economici - il prezzo della malattia. Il silenzio, per contro, avrebbe consentito al Covid-19 di dilagare su scala planetaria, generando un «effetto livella» raccapricciante ma più che mai opportuno per il Dragone.D'altronde, qualche dubbio aleggia anche sui contagi delle ultime ore. Dei 46 nuovi casi resi noti ieri dalla Cina, 34 sono importati mentre 12 (secondo l'agenzia Xinhua) «sono stati trasmessi a livello locale». Questo vuol dire che, pur a fronte di numeri bassi, i nuovi contagi non provengono tutti dall'esterno. Vista l'opacità con cui Pechino ha gestito l'epidemia, soprattutto nel mese di gennaio, qualche preoccupazione è lecita.
Francesca Albanese (Ansa)
Andrea Sempio. Nel riquadro, l'avvocato Massimo Lovati (Ansa)