Iss e Istat tracciano il quadro degli italiani deceduti per l'epidemia: sono solo 3 tra i minori di 9 anni e nessuno tra i 10 e i 19. Intanto dati molto confortanti dal bollettino di ieri: in 24 ore registrati solamente 99 morti e 451 nuovi tamponi positivi.
Iss e Istat tracciano il quadro degli italiani deceduti per l'epidemia: sono solo 3 tra i minori di 9 anni e nessuno tra i 10 e i 19. Intanto dati molto confortanti dal bollettino di ieri: in 24 ore registrati solamente 99 morti e 451 nuovi tamponi positivi.In una giornata che ha registrato il numero più basso di vittime da coronavirus dall'inizio del lockdown, 99 morti in 24 ore e solo 451 nuovi positivi, l'ultimo rapporto dell'Istituto superiore di sanità e dell'Istituto nazionale di statistica aiuta a far luce sulla percentuale di morti per Covid-19 nel primo trimestre di quest'anno. I dati si riferiscono a 6.866 Comuni su 7.904 (l'87% del totale), l'analisi è stata compiuta su un campione di 29.692 pazienti deceduti e risultati positivi, composto per il 39,8% da donne (11.814). Il primo elemento che balza agli occhi è che per colpa del virus killer sono morti più uomini che donne, con una letalità più elevata in soggetti di sesso maschile in tutte le fasce di età, fatta eccezione di quella 0-19 anni (eccetto tre giovani vittime con meno di 9 anni). Quindi scolari e studenti non sono stati uccisi dal coronavirus, forse non sono nemmeno così contagiosi da giustificare la chiusura a oltranza delle scuole. Al 14 maggio, si legge nel report, solo l'1,1% dei pazienti deceduti per coronavirus (332 su 29.692) aveva meno di 50 anni. Per l'esattezza, 74 di questi avevano meno di 40 anni (49 uomini e 25 donne con età compresa tra 0 e 39 anni), di 9 pazienti di età inferiore ai 40 anni non sono disponibili informazioni cliniche, gli altri 53 presentavano gravi patologie preesistenti come patologie cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità e 12 non avevano diagnosticate patologie di rilievo.L'aumento di mortalità più consistente si è riscontrato per gli uomini di 70-79 anni, con decessi cresciuti tra il 20 febbraio e il 31 marzo di circa 2,3 volte rispetto alla media degli anni 2015-2019, mentre per la fascia di età 80-89 la crescita è stata del 44%. Più contenuto l'incremento nelle donne, a fine marzo segnava un 20% in più sia per la classe di età 70-79 sia per quella over 90. A livello nazionale, il 91% dell'aumento di decessi si è concentrato nelle aree ad alta diffusione dell'epidemia, ovvero in 3.271 Comuni di 37 Province del Nord (più Pesaro e Urbino) dove i morti sono più che raddoppiati nel mese di marzo 2020 rispetto alla media riscontrata a marzo nel quinquennio 2015-2019. Dal 20 febbraio al 31 marzo 2020, i decessi sono passati da 26.218 a 49.351 (+ 23.133), per il 52% con pazienti positivi al Covid-19 (12.156). Quindi abbiamo dati solo di deceduti dopo una diagnosi di positività, manca il numero (forse elevatissimo) di persone morte nel primo trimestre di quest'anno senza che si sappia se avevano contratto il coronavirus. Per quanto riguarda i Comuni più colpiti, sappiamo che rispetto al quinquennio precedente i decessi più alti si sono registrati a Bergamo (+568%), Cremona (+391%), Lodi (+371%), Brescia (+291%), Piacenza (+264%), Parma (+208%), Lecco (+174%), Pavia (+133%), Mantova (+122%), Pesaro e Urbino (+120%). Nelle aree dove il virus ha seminato meno stragi, cioè nei 1.778 Comuni di 35 Province prevalentemente del Centro Nord, l'impennata di morti è stata molto più contenuta passando da 17.317 a 19.743 (+ 2.426 rispetto alla media 2015-2019), delle quali il 47% era in positivi al Covid-19 (1.151). Nel resto del Paese, ovvero in 1.817 Comuni di 34 Province per lo più del Centro e del Mezzogiorno, i decessi del mese di marzo 2020 sono mediamente inferiori dell'1,8% alla media del quinquennio precedente. Sulle patologie preesistenti, i dati sono relativi solo a 2.848 pazienti deceduti per i quali è stato possibile analizzare le cartelle cliniche. Di questi, 1.704 (59,8%) presentavano tre o più patologie, 608 (21,3%) soffrivano di due malattie, di una sola erano 425 (14,9%) mentre 111 pazienti (3,9% del campione) non aveva altri disturbi. Prima del ricovero in ospedale, il 23% dei pazienti deceduti seguiva una terapia con farmaci anti-ipertensivi Ace inibitori e il 16% una terapia con sartani (bloccanti del recettore per l'angiotensina). Scorrendo le informazioni relative alle diagnosi di ricovero delle persone che poi non sono sopravvissute al virus, nel 92,1% si faceva riferimento a polmonite, insufficienza respiratoria o a sintomi quali febbre, dispnea, tosse compatibili con il Covid 19. In 208 casi (7,9%) la diagnosi di ricovero non era da correlarsi all'infezione, in 28 la causa dell'ingresso in ospedale era per patologie neoplastiche, in 78 per patologie cardiovascolari quali infarto miocardico acuto, scompenso cardiaco, ictus), in 26 casi per patologie gastrointestinali e in 76 per altre cause. L'insufficienza respiratoria è stata la complicanza più comunemente osservata in questo campione (96,8% dei casi), seguita da danno renale acuto (22%), sovra infezione (12,2%) e danno miocardico acuto (10,6%). Questi sono i numeri forniti dal governo, benché da giorni se ne discuta e si avanzino perplessità. Una voce critica particolarmente autorevole è stata per esempio quella del generale Carlo Jean che su Start Magazine ha scritto: «Mi è venuto il dubbio che i dati del Comitato tecnico scientifico siano stati manipolati. Ho abbastanza esperienza di modelli matematici per sapere quanto sia facile farlo. Quando lo si fa, c'è sempre un motivo, cioè una tesi che si vuole dimostrare».
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».





