2024-06-17
«Il controllo del Sahel per Mosca sarebbe la svolta nei conflitti»
L’analista Daniele Ruvinetti: «Grazie al gruppo Wagner i russi presidiano le tratte dei clandestini diretti in Europa. E ora puntano alla Tripolitania».«Lei guardi al Sahel e più nel dettaglio a quello che sta succedendo in Niger e Burkina Faso, nel Mali e in Sudan dove le giunte militari che guidano la popolazione sono fortemente influenzate dalla Russia e dalle profonde infiltrazioni della Wagner che dopo la morte di Evgenij Prigozin è finita sotto il comando del ministero della Difesa di Putin. L’obiettivo è quello di avere un presidio forte in Africa, che è considerata il Continente del futuro, e al tempo stesso di creare un’arma di pressione geopolitica contro l’Europa». A dipingere questo quadro rispetto al conflitto strisciante tra il Cremlino e la vecchia Europa è Daniele Ruvinetti, strategic advisor per gruppi internazionali e senior advisor per la Fondazione Med-Or di Leonardo, che porta come esempio più concreto il colpo di Stato in Niger che ha destituito il filo occidentale Mohamed Bazoum. «In quell’occasione», evidenzia, «così come in Mali, il ruolo svolto dalle truppe della brigata di Mosca è stato fondamentale. E del resto insediamenti sovietici ci sono anche in Nord Africa. Abbiamo presenze militari in Tunisia e Algeria così come è nota la posizione e l’aiuto della Russia in Cirenaica al fianco di Haftar».Quando parla di pressione geopolitica contro l’Europa a cosa si riferisce?«Innanzitutto mi riferisco al controllo dei flussi migratori. Il passaggio è Niger-Libia e poi Europa, ovvio che se controlli quelle aree puoi favorire oppure bloccare le ondate di migliaia di clandestini diretti spesso in Italia e poi nel resto dell’Unione europea. Non a caso, una delle prime mosse della giunta militare insediatasi nel Niger è stata quella di abolire il reato di traffico di esseri umani in modo retroattivo dal 2015. L’intenzione è di forgiare culturalmente quelle popolazioni a discapito dei valori occidentali».Un salto di qualità nello scontro tra la Russa e Bruxelles.«Più che di un salto di qualità io parlerei di vera e propria svolta, di una guerra asimmetrica che fornisce a Putin un’arma di ricatto sia dal punto di vista della sicurezza interna dell’Europa sia rispetto alle possibili infiltrazione di frange terroristiche, anche perché è nota la collaborazione tra questi gruppi paramilitari di Mosca e le formazioni estremiste africane».Putin ha così tanti militari da poter spostare le sue milizie dalla guerra in Ucraina all’Africa?«Il problema di uomini è molto di più ucraino che russo. Ma attenzione a non farsi ingannare, questo nuovo Africa corps recluta anche indigeni, promettendo loro una paga di 2-3.000 dollari al mese e un ingaggio al fronte. Sta succedendo in Nord Africa, ma soprattutto nella regione del Sahel (Mali, Niger, Burkina Faso e Sudan). Con tutte le differenze del caso è lo stesso modello che ha applicato l’Isis per anni».Queste forze militari autoctone verranno usate soltanto in patria oppure prevede che possano svolgere anche altre funzioni?«Non mi stupirei se a breve, qualora il conflitto dovesse protrarsi, trovassimo soldati africani sul fronte ucraino».In questa strategia diventa fondamentale il controllo sulla Libia, come sbocco verso l’Europa.«La Russia ha da anni una presenza consolidata in Cirenaica al fianco di Haftar e infatti anche in questi territori la presenza della Wagner è forte. Ma non bisogna sottovalutare il lavoro diplomatico per instaurare dei rapporti anche a Tripoli con il governo di Abdul Hamid Dbeibah. Nel febbraio del 2024 la Russia ha riaperto l’ambasciata a Tripoli ed ha annunciato che aprirà un consolato a Bengasi».Cosa vuol dire questo?«Che Putin si sta muovendo per avere un’influenza anche in Tripolitania che è appunto l’area che si affaccia su Europa e Italia e dove ci sono le istituzioni più importanti. A partire dalla banca centrale per arrivare alla compagnia petrolifera nazionale Noc». La Russia tesse la sua tela mentre l’Europa dorme?«Da tempo c’è poco interesse dell’Europa verso l’Africa. O meglio ci sono i singoli interessi soprattutto di Francia, Italia e Germania, ma manca un progetto comune e quindi si fa fatica ad incidere realmente. Non dimentichi che in quei territori c’è una presenza turca molto importante e Pechino da tempo sta muovendo le sue pedine non solo legate al business e agli affari ma anche alle relazioni politiche: l’Africa viene considerata una testa di ponte ideale verso il Vecchio Continente».Insomma, l’Europa sta perdendo anche l’Africa?«Se non ci muoviamo velocemente rischiamo seriamente di compromettere un legame storico. Manca un piano europeo, un piano Marshall verso l’Africa. Da questo punto di vista mi lasci dire che la Meloni ha dimostrato di essere lungimirante. Il piano Mattei va proprio in questa direzione e la rilevanza che ha avuto anche nei colloqui tra i grandi della Terra riuniti al G7 in Puglia lo dimostra».Il G7 è un conto, però in Europa sembra difficile che si possa formare un fronte comune.«Credo invece sia questo l’obiettivo della Meloni, quando per esempio ha cercato di coinvolgere il presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nelle iniziative a supporto della cooperazione con l’Africa. Chiaro che l’Italia soprattutto sul fronte migratorio ha un interesse più diretto, ma se il continente africano “finisce in mano” a Russia, Turchia e Cina non è una buona notizia per nessuno, sia dal punto di vista degli interessi economici, che partono dalle materie prime e arrivano fino al controllo delle linee commerciali, sia da quello della sicurezza, che vuol dire aumento della criminalità, con lo sbarco incontrollato di clandestini, e rischio terrorismo islamico». C’è in ballo anche una questione culturale.«Guardi, inutile nasconderselo. Un conto è avere contatti e la possibilità di essere contaminati dai valori della cultura occidentale e altro trovarsi davanti degli esempi che in molti casi fanno riferimento a una dittatura o a qualcosa che gli somiglia molto da vicino. Proprio perché dovrebbe esserci contezza di questo pericolo, l’inazione di Bruxelles è ancora più inspiegabile. E per questo invece il piano Mattei va incoraggiato e spinto nei giusti canali. Anche noi come Fondazione Med-Or stiamo partecipando a progetti e iniziative per portare il know how italiano in loco».Il voto europeo e la sconfitta di Macron rivoluzionano gli scenari?«Difficile dirlo con un’elezione così incerta e aperta come quella francese alle porte. Di certo però la Meloni e l’Italia sono uscite rafforzate dalle urne e per tutto quello che abbiamo detto prima, rispetto al rapporto con l’Africa questa non può essere che una buona notizia. Ripeto, guardi anche solo alla rilevanza che ha avuto il tema Africa al G7 che si svolto è in Puglia».Passiamo al conflitto tra Israele e Palestina. Il presidente americano Biden ne sta facendo uno dei punti dirimenti della sua campagna elettorale. Mediare una vera tregua equivarrebbe a mettersi una medaglia al collo in vista delle urne. «Ma si tratta anche di un grande rischio. Da una parte, infatti, va detto che la tregua da sola, per quanto importante, rischia di rivelarsi sterile se non porta dietro un piano per la soluzione definitiva del conflitto. Insomma, serve una soluzione politica. Dall’altro lato, non va dimenticato che una tregua in questo momento non conviene a nessuno dei due veri contendenti in campo: Netanyahu ed Hamas».Perché?«Con l’uscita del moderato Benny Gantz dal governo, Il primo ministro israeliano è sempre più nelle mani degli ortodossi che vedono una pausa rispetto al conflitto come una vera e propria sconfitta. Dall’altra parte Hamas ha tutti gli interessi a prolungare la guerra. Ogni giorno che passa annunciando al mondo vittime e devastazione porta l’opinione pubblica ad avere un’immagine più sbiadita dell’immane tragedia del 7 ottobre. Non va poi dimenticato che Netanyahu non ha nessun interesse a favorire Biden visto che considera Trump più vicino e affidabile, basti ricordare i rapporti che ha intrattenuto Jared Kushner, il genero di Trump, con Israele».Con l’Europa che anche nella striscia di Gaza recita la parte della grande assente.«L’Europa non ha una politica estera e della difesa comune. Servirebbe un salto di qualità, senza commissariare gli Stati, ma stabilendo regole che portino a un linea unitaria almeno sulle grandi partite geopolitiche. Così com’è, sulle questioni cruciali globali Bruxelles non incide».
Pier Luigi Lopalco (Imagoeconomica)
Nel riquadro la prima pagina della bozza notarile, datata 14 novembre 2000, dell’atto con cui Gianni Agnelli (nella foto insieme al figlio Edoardo in una foto d'archivio Ansa) cedeva in nuda proprietà il 25% della cassaforte del gruppo