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2020-07-16
Il conflitto Usa-Cina si allarga sui mari
È nuovamente scontro tra Washington e Pechino. Lunedì, gli Stati Uniti hanno definito per la prima volta «completamente illegali» le rivendicazioni della Repubblica Popolare su gran parte del Mar cinese meridionale. «Il mondo non consentirà a Pechino di trattare il Mar cinese meridionale come il suo impero marittimo», ha dichiarato Mike Pompeo in un comunicato. In particolare, secondo il segretario di Stato americano, «la Repubblica Popolare cinese non ha le basi legali per imporre unilateralmente il suo volere sulla regione». Non si è fatta attendere la reazione piccata dell'ambasciata cinese a Washington, che ha definito le accuse americane «completamente ingiustificate», tacciando inoltre gli Stati Uniti di alimentare le tensioni e di intromettersi in affari che non sarebbero di loro competenza.
La Repubblica Popolare rivendica da tempo la quasi totalità del Mar cinese meridionale e -nel corso degli ultimi anni- ha realizzato delle fortificazioni su svariate isole. Questa linea ha condotto Pechino a scontrarsi con altri Paesi, che accampano a loro volta diritti su porzioni di quell'area (si pensi a Taiwan, Filippine, Vietnam, Malesia, Indonesia e Brunei): un'area - ricordiamolo - particolarmente ricca di risorse (soprattutto petrolio e gas naturale), importante per la pesca, oltre che come canale commerciale (vi transitano, secondo Reuters, circa tre trilioni di dollari di merci all'anno). Dal punto di vista legale, il Dipartimento di Stato americano ha giustificato la propria posizione, dichiarando di voler far rispettare una sentenza - emessa nel 2016 dalla Corte permanente di arbitrato - che, sulla base della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, aveva respinto le rivendicazioni di Pechino su quelle acque. Una sentenza che tuttavia la Repubblica Popolare si è rifiutata di riconoscere, nonostante - ai tempi - l'allora presidente americano democratico, Barack Obama, avesse chiesto a Xi Jinping di rispettarla.
Washington ha così ripetutamente messo in discussione la posizione cinese, inviando nell'area proprie navi da guerra. Sotto questo aspetto, la tensione è aumentata a inizio luglio, quando -dopo la conclusione degli esercizi navali cinesi - gli Stati Uniti hanno mandato in loco due portaerei.
Va da sé che le dichiarazioni di Pompeo gettano adesso ulteriore benzina sul fuoco. Per quanto non sia esattamente chiaro se gli Stati Uniti stiano prendendo in considerazione l'uso della forza, non va trascurato che Washington sia legata da un trattato di mutua difesa alle Filippine (lo stesso Paese che aveva citato in giudizio Pechino alla Corte permanente di arbitrato nel 2013). Il vice segretario di Stato americano per l'Asia orientale, David Stilwell, ha tra l'altro fatto sapere che potrebbero essere adottate delle sanzioni contro funzionari del governo cinese. Come notato dal South China morning post, per il momento gli Stati appartenenti all'Associazione delle nazioni del Sudest asiatico (Asean) sono rimasti relativamente cauti - ieri il Vietnam ha preso posizione a sostegno del rispetto della legalità nell'area - in riferimento alle parole di Pompeo, temendo di finire attanagliati da uno scontro tra Stati Uniti e Cina. Ma che cosa ha spinto la Casa Bianca ad assumere una linea così dura in questo momento?
In primis, non possiamo non rilevare come la questione del Mar cinese meridionale venga ad inscriversi in una più ampia cornice di progressivo deterioramento delle relazioni tra Washington e Pechino. Nei giorni scorsi, i due giganti sono tornati ai ferri corti sul dossier Hong Kong, mentre la Repubblica Popolare ha comminato sanzioni ai senatori repubblicani, Marco Rubio e Ted Cruz, come ritorsione alle sanzioni con cui gli Stati Uniti avevano a loro volta colpito la Cina sulla questione dello Xinjiang.
In tutto questo, non dobbiamo neppure trascurare che l'amministrazione Trump stia continuando a criticare Pechino per la sua gestione opaca dell'epidemia da coronavirus e che - sempre in una simile ottica - l'inquilino della Casa Bianca abbia confermato la volontà di abbandonare l'Organizzazione mondiale della sanità: un'agenzia che il presidente americano ha non a caso in passato definito troppo «incentrata sulla Cina». Alla base di tutto questo, si scorge (anche) una dinamica di natura elettorale. A causa del Covid-19, una larga fetta di americani nutre oggi sentimenti di ostilità verso Pechino. E, con le presidenziali di novembre in avvicinamento, il candidato democratico, Joe Biden, sta da settimane accusando Trump di eccessiva arrendevolezza verso la Cina. Tutto questo, sebbene la Repubblica Popolare abbia rafforzato la sua presenza nel Mar cinese meridionale proprio durante il secondo mandato di Obama e nonostante il fatto che - come notato da The Diplomat - Biden, da senatore, non abbia mai tenuto una posizione troppo battagliera nei confronti della Cina.
Infine, non dimentichiamo che la Casa Bianca consideri alcuni Paesi dell'Asean come parte integrante del cosiddetto Economic prosperity network: stando a quanto riferito da Reuters, anziché insistere sulla guerra tariffaria, Trump starebbe studiando la possibilità di puntare sulle catene di approvvigionamento, spingendo le imprese americane ad abbandonare la produzione in territorio cinese, per spostarla o direttamente sul suolo statunitense o in Paesi amici (come Vietnam, Giappone, Australia e India).
Sul 5G l’Italia tenta di smarcarsi dalla fama di quinta colonna cinese
La decisione britannica sul 5G «mette in forte difficoltà l'Italia, che ha nel Movimento 5 stelle praticamente un'ambasciata della Cina in Europa». Così Paolo Mieli, editorialista del Corriere del Sera, commentava ieri mattina su Radio 24 la scelta del governo britannico di proibire dal primo gennaio 2021 gli acquisti di forniture 5G di Huawei, le cui componentistiche dovranno essere rimosse entro il 2027 dalle reti di nuova generazione. Anche secondo Joshua Wong, attivista di Hong Kong, il divieto britannico è «un campanello d'allarme per l'Italia», come ha scritto su Twitter.
L'Italia ora è dunque il nuovo fronte della guerra tecnologica tra Cina e Stati Uniti. Non è un caso, infatti, che dopo la decisione di Londra Huawei abbia diffuso martedì una nota invitando l'Italia a non seguire l'esempio britannico. Così come non è un caso che, durante la conferenza stampa dal roseto della Casa Bianca, il presidente statunitense Donald Trump, dopo aver plaudito alla scelta di Londra attribuendosi gran parte del merito, abbia acceso un faro su Roma: «Guardate all'Italia; guardate a molti altri Paesi», ha dichiarato. Ieri, nella giornata in cui il segretario di Stato statunitense Mike Pompeo ha annunciato restrizioni ai visti dei manager Huawei, il suo omologo italiano, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, continuava l'opera di riavvicinamento (più personale che pentastellata, racconta chi lo conosce) con gli Stati Uniti dopo la firma sul memorandum d'intesa con la Cina sulla Via della seta nel marzo dell'anno scorso. L'Italia ha espresso «grave preoccupazione per l'entrata in vigore della legge sulla sicurezza, e segue con gli altri partner dell'Ue con la massima attenzione la vicenda», ha dichiarato il capo della Farnesina rispondendo alla Lega durante il question time alla Camera. Il ministro ha inoltre sottolineato come dal 21 maggio scorso, cioè da quando Pechino ha deciso di voler imporre la legge sull'ex colonia britannica, l'Italia si sia pronunciata sette volte sulla questione (cinque in ambito Ue).
Ma all'opera di riavvicinamento a cui stanno lavorando l'ex capo politico del Movimento 5 stelle Di Maio e i ministri dem Lorenzo Guerini (Difesa) ed Enzo Amendola (Affari europei) si aggiunge quella di convincimento da parte degli Stati Uniti. In particolare su Palazzo Chigi. E il pensiero torna al tweet della scorsa settimana firmato dall'ex candidata al Congresso repubblicana e trumpianissima DeAnna Lorraine: «Perché il premier italiano Conte oggi si è incontrato con il lobbista di punta di Huawei in privato?». Il tempismo suggeriva un identikit di quel «lobbista»: Davide Casaleggio, che poche ore prima aveva incontrato il premier a Palazzo Chigi e che da anni ormai ha ottimi rapporti con il colosso di Shenzhen. E così martedì Robert O'Brien, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Trump, ha incontrato le controparti di Francia, Germania, Italia e Regno Unito a Parigi. Nel bilaterale con l'ambasciatore Pietro Benassi, consigliere diplomatico del premier Conte, si è parlato appunto di «riaprire le nostre economie, Cina e sicurezza del 5G», come spiegato dalla Casa Bianca.
Gli intenti di Tim, Vodafone e Windtre appaiono chiari: escludere i fornitori cinesi (Zte, oltre a Huawei) dalla parte core (quella più sensibile, cioè i sistemi). Meno chiare le scelte di Fastweb e Linkem, soggetti che sono tra l'altro assegnatari di commesse pubbliche sulla connettività della pubblica amministrazione. E se il governo sembra deciso a puntare sul golden power per stoppare le aziende cinesi, gli Usa invitano a diffidare dalle distinzioni tra antenne e stazioni. Ma il riavvicinamento tra Washington e Roma è ormai sempre più evidente. Non rimane che una domanda: che cosa dirà Pechino?
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Washington per la prima volta ha dichiarato «illegali» le rivendicazioni di Pechino sulle acque su cui affacciano Vietnam, Malesia, Filippine, Indonesia e Taiwan. Sono snodi cruciali per le rotte commerciali e militari. Chi li controlla ha in mano il pallino dell'areaLondra e Washington proseguono la linea dura rispetto a Huawei, aspettando RomaLo speciale contiene due articoliÈ nuovamente scontro tra Washington e Pechino. Lunedì, gli Stati Uniti hanno definito per la prima volta «completamente illegali» le rivendicazioni della Repubblica Popolare su gran parte del Mar cinese meridionale. «Il mondo non consentirà a Pechino di trattare il Mar cinese meridionale come il suo impero marittimo», ha dichiarato Mike Pompeo in un comunicato. In particolare, secondo il segretario di Stato americano, «la Repubblica Popolare cinese non ha le basi legali per imporre unilateralmente il suo volere sulla regione». Non si è fatta attendere la reazione piccata dell'ambasciata cinese a Washington, che ha definito le accuse americane «completamente ingiustificate», tacciando inoltre gli Stati Uniti di alimentare le tensioni e di intromettersi in affari che non sarebbero di loro competenza. La Repubblica Popolare rivendica da tempo la quasi totalità del Mar cinese meridionale e -nel corso degli ultimi anni- ha realizzato delle fortificazioni su svariate isole. Questa linea ha condotto Pechino a scontrarsi con altri Paesi, che accampano a loro volta diritti su porzioni di quell'area (si pensi a Taiwan, Filippine, Vietnam, Malesia, Indonesia e Brunei): un'area - ricordiamolo - particolarmente ricca di risorse (soprattutto petrolio e gas naturale), importante per la pesca, oltre che come canale commerciale (vi transitano, secondo Reuters, circa tre trilioni di dollari di merci all'anno). Dal punto di vista legale, il Dipartimento di Stato americano ha giustificato la propria posizione, dichiarando di voler far rispettare una sentenza - emessa nel 2016 dalla Corte permanente di arbitrato - che, sulla base della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, aveva respinto le rivendicazioni di Pechino su quelle acque. Una sentenza che tuttavia la Repubblica Popolare si è rifiutata di riconoscere, nonostante - ai tempi - l'allora presidente americano democratico, Barack Obama, avesse chiesto a Xi Jinping di rispettarla. Washington ha così ripetutamente messo in discussione la posizione cinese, inviando nell'area proprie navi da guerra. Sotto questo aspetto, la tensione è aumentata a inizio luglio, quando -dopo la conclusione degli esercizi navali cinesi - gli Stati Uniti hanno mandato in loco due portaerei. Va da sé che le dichiarazioni di Pompeo gettano adesso ulteriore benzina sul fuoco. Per quanto non sia esattamente chiaro se gli Stati Uniti stiano prendendo in considerazione l'uso della forza, non va trascurato che Washington sia legata da un trattato di mutua difesa alle Filippine (lo stesso Paese che aveva citato in giudizio Pechino alla Corte permanente di arbitrato nel 2013). Il vice segretario di Stato americano per l'Asia orientale, David Stilwell, ha tra l'altro fatto sapere che potrebbero essere adottate delle sanzioni contro funzionari del governo cinese. Come notato dal South China morning post, per il momento gli Stati appartenenti all'Associazione delle nazioni del Sudest asiatico (Asean) sono rimasti relativamente cauti - ieri il Vietnam ha preso posizione a sostegno del rispetto della legalità nell'area - in riferimento alle parole di Pompeo, temendo di finire attanagliati da uno scontro tra Stati Uniti e Cina. Ma che cosa ha spinto la Casa Bianca ad assumere una linea così dura in questo momento? In primis, non possiamo non rilevare come la questione del Mar cinese meridionale venga ad inscriversi in una più ampia cornice di progressivo deterioramento delle relazioni tra Washington e Pechino. Nei giorni scorsi, i due giganti sono tornati ai ferri corti sul dossier Hong Kong, mentre la Repubblica Popolare ha comminato sanzioni ai senatori repubblicani, Marco Rubio e Ted Cruz, come ritorsione alle sanzioni con cui gli Stati Uniti avevano a loro volta colpito la Cina sulla questione dello Xinjiang. In tutto questo, non dobbiamo neppure trascurare che l'amministrazione Trump stia continuando a criticare Pechino per la sua gestione opaca dell'epidemia da coronavirus e che - sempre in una simile ottica - l'inquilino della Casa Bianca abbia confermato la volontà di abbandonare l'Organizzazione mondiale della sanità: un'agenzia che il presidente americano ha non a caso in passato definito troppo «incentrata sulla Cina». Alla base di tutto questo, si scorge (anche) una dinamica di natura elettorale. A causa del Covid-19, una larga fetta di americani nutre oggi sentimenti di ostilità verso Pechino. E, con le presidenziali di novembre in avvicinamento, il candidato democratico, Joe Biden, sta da settimane accusando Trump di eccessiva arrendevolezza verso la Cina. Tutto questo, sebbene la Repubblica Popolare abbia rafforzato la sua presenza nel Mar cinese meridionale proprio durante il secondo mandato di Obama e nonostante il fatto che - come notato da The Diplomat - Biden, da senatore, non abbia mai tenuto una posizione troppo battagliera nei confronti della Cina.Infine, non dimentichiamo che la Casa Bianca consideri alcuni Paesi dell'Asean come parte integrante del cosiddetto Economic prosperity network: stando a quanto riferito da Reuters, anziché insistere sulla guerra tariffaria, Trump starebbe studiando la possibilità di puntare sulle catene di approvvigionamento, spingendo le imprese americane ad abbandonare la produzione in territorio cinese, per spostarla o direttamente sul suolo statunitense o in Paesi amici (come Vietnam, Giappone, Australia e India).<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-conflitto-usa-cina-si-allarga-sui-mari-2646414189.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sul-5g-litalia-tenta-di-smarcarsi-dalla-fama-di-quinta-colonna-cinese" data-post-id="2646414189" data-published-at="1594836948" data-use-pagination="False"> Sul 5G l’Italia tenta di smarcarsi dalla fama di quinta colonna cinese La decisione britannica sul 5G «mette in forte difficoltà l'Italia, che ha nel Movimento 5 stelle praticamente un'ambasciata della Cina in Europa». Così Paolo Mieli, editorialista del Corriere del Sera, commentava ieri mattina su Radio 24 la scelta del governo britannico di proibire dal primo gennaio 2021 gli acquisti di forniture 5G di Huawei, le cui componentistiche dovranno essere rimosse entro il 2027 dalle reti di nuova generazione. Anche secondo Joshua Wong, attivista di Hong Kong, il divieto britannico è «un campanello d'allarme per l'Italia», come ha scritto su Twitter. L'Italia ora è dunque il nuovo fronte della guerra tecnologica tra Cina e Stati Uniti. Non è un caso, infatti, che dopo la decisione di Londra Huawei abbia diffuso martedì una nota invitando l'Italia a non seguire l'esempio britannico. Così come non è un caso che, durante la conferenza stampa dal roseto della Casa Bianca, il presidente statunitense Donald Trump, dopo aver plaudito alla scelta di Londra attribuendosi gran parte del merito, abbia acceso un faro su Roma: «Guardate all'Italia; guardate a molti altri Paesi», ha dichiarato. Ieri, nella giornata in cui il segretario di Stato statunitense Mike Pompeo ha annunciato restrizioni ai visti dei manager Huawei, il suo omologo italiano, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, continuava l'opera di riavvicinamento (più personale che pentastellata, racconta chi lo conosce) con gli Stati Uniti dopo la firma sul memorandum d'intesa con la Cina sulla Via della seta nel marzo dell'anno scorso. L'Italia ha espresso «grave preoccupazione per l'entrata in vigore della legge sulla sicurezza, e segue con gli altri partner dell'Ue con la massima attenzione la vicenda», ha dichiarato il capo della Farnesina rispondendo alla Lega durante il question time alla Camera. Il ministro ha inoltre sottolineato come dal 21 maggio scorso, cioè da quando Pechino ha deciso di voler imporre la legge sull'ex colonia britannica, l'Italia si sia pronunciata sette volte sulla questione (cinque in ambito Ue). Ma all'opera di riavvicinamento a cui stanno lavorando l'ex capo politico del Movimento 5 stelle Di Maio e i ministri dem Lorenzo Guerini (Difesa) ed Enzo Amendola (Affari europei) si aggiunge quella di convincimento da parte degli Stati Uniti. In particolare su Palazzo Chigi. E il pensiero torna al tweet della scorsa settimana firmato dall'ex candidata al Congresso repubblicana e trumpianissima DeAnna Lorraine: «Perché il premier italiano Conte oggi si è incontrato con il lobbista di punta di Huawei in privato?». Il tempismo suggeriva un identikit di quel «lobbista»: Davide Casaleggio, che poche ore prima aveva incontrato il premier a Palazzo Chigi e che da anni ormai ha ottimi rapporti con il colosso di Shenzhen. E così martedì Robert O'Brien, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Trump, ha incontrato le controparti di Francia, Germania, Italia e Regno Unito a Parigi. Nel bilaterale con l'ambasciatore Pietro Benassi, consigliere diplomatico del premier Conte, si è parlato appunto di «riaprire le nostre economie, Cina e sicurezza del 5G», come spiegato dalla Casa Bianca. Gli intenti di Tim, Vodafone e Windtre appaiono chiari: escludere i fornitori cinesi (Zte, oltre a Huawei) dalla parte core (quella più sensibile, cioè i sistemi). Meno chiare le scelte di Fastweb e Linkem, soggetti che sono tra l'altro assegnatari di commesse pubbliche sulla connettività della pubblica amministrazione. E se il governo sembra deciso a puntare sul golden power per stoppare le aziende cinesi, gli Usa invitano a diffidare dalle distinzioni tra antenne e stazioni. Ma il riavvicinamento tra Washington e Roma è ormai sempre più evidente. Non rimane che una domanda: che cosa dirà Pechino?
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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