- Washington per la prima volta ha dichiarato «illegali» le rivendicazioni di Pechino sulle acque su cui affacciano Vietnam, Malesia, Filippine, Indonesia e Taiwan. Sono snodi cruciali per le rotte commerciali e militari. Chi li controlla ha in mano il pallino dell'area
- Londra e Washington proseguono la linea dura rispetto a Huawei, aspettando Roma
Washington per la prima volta ha dichiarato «illegali» le rivendicazioni di Pechino sulle acque su cui affacciano Vietnam, Malesia, Filippine, Indonesia e Taiwan. Sono snodi cruciali per le rotte commerciali e militari. Chi li controlla ha in mano il pallino dell'areaLondra e Washington proseguono la linea dura rispetto a Huawei, aspettando RomaLo speciale contiene due articoliÈ nuovamente scontro tra Washington e Pechino. Lunedì, gli Stati Uniti hanno definito per la prima volta «completamente illegali» le rivendicazioni della Repubblica Popolare su gran parte del Mar cinese meridionale. «Il mondo non consentirà a Pechino di trattare il Mar cinese meridionale come il suo impero marittimo», ha dichiarato Mike Pompeo in un comunicato. In particolare, secondo il segretario di Stato americano, «la Repubblica Popolare cinese non ha le basi legali per imporre unilateralmente il suo volere sulla regione». Non si è fatta attendere la reazione piccata dell'ambasciata cinese a Washington, che ha definito le accuse americane «completamente ingiustificate», tacciando inoltre gli Stati Uniti di alimentare le tensioni e di intromettersi in affari che non sarebbero di loro competenza. La Repubblica Popolare rivendica da tempo la quasi totalità del Mar cinese meridionale e -nel corso degli ultimi anni- ha realizzato delle fortificazioni su svariate isole. Questa linea ha condotto Pechino a scontrarsi con altri Paesi, che accampano a loro volta diritti su porzioni di quell'area (si pensi a Taiwan, Filippine, Vietnam, Malesia, Indonesia e Brunei): un'area - ricordiamolo - particolarmente ricca di risorse (soprattutto petrolio e gas naturale), importante per la pesca, oltre che come canale commerciale (vi transitano, secondo Reuters, circa tre trilioni di dollari di merci all'anno). Dal punto di vista legale, il Dipartimento di Stato americano ha giustificato la propria posizione, dichiarando di voler far rispettare una sentenza - emessa nel 2016 dalla Corte permanente di arbitrato - che, sulla base della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, aveva respinto le rivendicazioni di Pechino su quelle acque. Una sentenza che tuttavia la Repubblica Popolare si è rifiutata di riconoscere, nonostante - ai tempi - l'allora presidente americano democratico, Barack Obama, avesse chiesto a Xi Jinping di rispettarla. Washington ha così ripetutamente messo in discussione la posizione cinese, inviando nell'area proprie navi da guerra. Sotto questo aspetto, la tensione è aumentata a inizio luglio, quando -dopo la conclusione degli esercizi navali cinesi - gli Stati Uniti hanno mandato in loco due portaerei. Va da sé che le dichiarazioni di Pompeo gettano adesso ulteriore benzina sul fuoco. Per quanto non sia esattamente chiaro se gli Stati Uniti stiano prendendo in considerazione l'uso della forza, non va trascurato che Washington sia legata da un trattato di mutua difesa alle Filippine (lo stesso Paese che aveva citato in giudizio Pechino alla Corte permanente di arbitrato nel 2013). Il vice segretario di Stato americano per l'Asia orientale, David Stilwell, ha tra l'altro fatto sapere che potrebbero essere adottate delle sanzioni contro funzionari del governo cinese. Come notato dal South China morning post, per il momento gli Stati appartenenti all'Associazione delle nazioni del Sudest asiatico (Asean) sono rimasti relativamente cauti - ieri il Vietnam ha preso posizione a sostegno del rispetto della legalità nell'area - in riferimento alle parole di Pompeo, temendo di finire attanagliati da uno scontro tra Stati Uniti e Cina. Ma che cosa ha spinto la Casa Bianca ad assumere una linea così dura in questo momento? In primis, non possiamo non rilevare come la questione del Mar cinese meridionale venga ad inscriversi in una più ampia cornice di progressivo deterioramento delle relazioni tra Washington e Pechino. Nei giorni scorsi, i due giganti sono tornati ai ferri corti sul dossier Hong Kong, mentre la Repubblica Popolare ha comminato sanzioni ai senatori repubblicani, Marco Rubio e Ted Cruz, come ritorsione alle sanzioni con cui gli Stati Uniti avevano a loro volta colpito la Cina sulla questione dello Xinjiang. In tutto questo, non dobbiamo neppure trascurare che l'amministrazione Trump stia continuando a criticare Pechino per la sua gestione opaca dell'epidemia da coronavirus e che - sempre in una simile ottica - l'inquilino della Casa Bianca abbia confermato la volontà di abbandonare l'Organizzazione mondiale della sanità: un'agenzia che il presidente americano ha non a caso in passato definito troppo «incentrata sulla Cina». Alla base di tutto questo, si scorge (anche) una dinamica di natura elettorale. A causa del Covid-19, una larga fetta di americani nutre oggi sentimenti di ostilità verso Pechino. E, con le presidenziali di novembre in avvicinamento, il candidato democratico, Joe Biden, sta da settimane accusando Trump di eccessiva arrendevolezza verso la Cina. Tutto questo, sebbene la Repubblica Popolare abbia rafforzato la sua presenza nel Mar cinese meridionale proprio durante il secondo mandato di Obama e nonostante il fatto che - come notato da The Diplomat - Biden, da senatore, non abbia mai tenuto una posizione troppo battagliera nei confronti della Cina.Infine, non dimentichiamo che la Casa Bianca consideri alcuni Paesi dell'Asean come parte integrante del cosiddetto Economic prosperity network: stando a quanto riferito da Reuters, anziché insistere sulla guerra tariffaria, Trump starebbe studiando la possibilità di puntare sulle catene di approvvigionamento, spingendo le imprese americane ad abbandonare la produzione in territorio cinese, per spostarla o direttamente sul suolo statunitense o in Paesi amici (come Vietnam, Giappone, Australia e India).<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-conflitto-usa-cina-si-allarga-sui-mari-2646414189.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sul-5g-litalia-tenta-di-smarcarsi-dalla-fama-di-quinta-colonna-cinese" data-post-id="2646414189" data-published-at="1594836948" data-use-pagination="False"> Sul 5G l’Italia tenta di smarcarsi dalla fama di quinta colonna cinese La decisione britannica sul 5G «mette in forte difficoltà l'Italia, che ha nel Movimento 5 stelle praticamente un'ambasciata della Cina in Europa». Così Paolo Mieli, editorialista del Corriere del Sera, commentava ieri mattina su Radio 24 la scelta del governo britannico di proibire dal primo gennaio 2021 gli acquisti di forniture 5G di Huawei, le cui componentistiche dovranno essere rimosse entro il 2027 dalle reti di nuova generazione. Anche secondo Joshua Wong, attivista di Hong Kong, il divieto britannico è «un campanello d'allarme per l'Italia», come ha scritto su Twitter. L'Italia ora è dunque il nuovo fronte della guerra tecnologica tra Cina e Stati Uniti. Non è un caso, infatti, che dopo la decisione di Londra Huawei abbia diffuso martedì una nota invitando l'Italia a non seguire l'esempio britannico. Così come non è un caso che, durante la conferenza stampa dal roseto della Casa Bianca, il presidente statunitense Donald Trump, dopo aver plaudito alla scelta di Londra attribuendosi gran parte del merito, abbia acceso un faro su Roma: «Guardate all'Italia; guardate a molti altri Paesi», ha dichiarato. Ieri, nella giornata in cui il segretario di Stato statunitense Mike Pompeo ha annunciato restrizioni ai visti dei manager Huawei, il suo omologo italiano, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, continuava l'opera di riavvicinamento (più personale che pentastellata, racconta chi lo conosce) con gli Stati Uniti dopo la firma sul memorandum d'intesa con la Cina sulla Via della seta nel marzo dell'anno scorso. L'Italia ha espresso «grave preoccupazione per l'entrata in vigore della legge sulla sicurezza, e segue con gli altri partner dell'Ue con la massima attenzione la vicenda», ha dichiarato il capo della Farnesina rispondendo alla Lega durante il question time alla Camera. Il ministro ha inoltre sottolineato come dal 21 maggio scorso, cioè da quando Pechino ha deciso di voler imporre la legge sull'ex colonia britannica, l'Italia si sia pronunciata sette volte sulla questione (cinque in ambito Ue). Ma all'opera di riavvicinamento a cui stanno lavorando l'ex capo politico del Movimento 5 stelle Di Maio e i ministri dem Lorenzo Guerini (Difesa) ed Enzo Amendola (Affari europei) si aggiunge quella di convincimento da parte degli Stati Uniti. In particolare su Palazzo Chigi. E il pensiero torna al tweet della scorsa settimana firmato dall'ex candidata al Congresso repubblicana e trumpianissima DeAnna Lorraine: «Perché il premier italiano Conte oggi si è incontrato con il lobbista di punta di Huawei in privato?». Il tempismo suggeriva un identikit di quel «lobbista»: Davide Casaleggio, che poche ore prima aveva incontrato il premier a Palazzo Chigi e che da anni ormai ha ottimi rapporti con il colosso di Shenzhen. E così martedì Robert O'Brien, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Trump, ha incontrato le controparti di Francia, Germania, Italia e Regno Unito a Parigi. Nel bilaterale con l'ambasciatore Pietro Benassi, consigliere diplomatico del premier Conte, si è parlato appunto di «riaprire le nostre economie, Cina e sicurezza del 5G», come spiegato dalla Casa Bianca. Gli intenti di Tim, Vodafone e Windtre appaiono chiari: escludere i fornitori cinesi (Zte, oltre a Huawei) dalla parte core (quella più sensibile, cioè i sistemi). Meno chiare le scelte di Fastweb e Linkem, soggetti che sono tra l'altro assegnatari di commesse pubbliche sulla connettività della pubblica amministrazione. E se il governo sembra deciso a puntare sul golden power per stoppare le aziende cinesi, gli Usa invitano a diffidare dalle distinzioni tra antenne e stazioni. Ma il riavvicinamento tra Washington e Roma è ormai sempre più evidente. Non rimane che una domanda: che cosa dirà Pechino?
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.