
Il regista Peter Greenaway: «La maggior parte dei film è semplicemente la messa in scena di un testo, qualcosa cioè di puramente letterario».Habitué di Venezia fin dalla partecipazione alla Mostra del cinema nel 1982 con I misteri del giardino di Compton House, Peter Greenaway si muove sicuro per la città lagunare, quasi fosse sulla via di casa. Incontrato a margine della masterclass tenuta al Ca' Foscari Short Film Festival, il regista gallese si concede all'intervista con la costumata disponibilità di un attore di vecchia scuola. Pittore, regista, videoartista, fa di tutto per sfuggire alle definizioni: sul palco proietterà principalmente clip di installazioni, parlerà soprattutto di cinema, ma durante l'intervista prende la pittura a pietra d'angolo delle sue argomentazioni. Nell'arco della conversazione, non tiene lo sguardo fisso su un punto che per qualche istante, sempre alla ricerca di nuovi stimoli, nuovi spunti, nuove immagini. Ogni sua risposta è una dichiarazione programmatica, ogni frase una sentenza. Un fiume in piena.È dal 1983, anno di nascita del telecomando, che proclama «la morte del cinema». A 35 anni di distanza siamo qui, a un festival di cinema, a parlare di cinema. Era la profezia a essere sbagliata, è il cinema ad aver trovato un modo di sopravvivere o il peggio deve ancora arrivare?«Il primo settembre dell'83, non dimenticate (ride). Resto convinto della mia affermazione, ma la domanda è legittima: faccio ancora film perché fare film è straordinariamente affascinante e lo amo, ma non mi rimangio le parole. Penso davvero che il cinema abbia raggiunto la fine della sua fase significativa, e ne ho le prove: ci sono stati 31 anni di cinema muto, ma c'è ancora qualcuno che guardi i film muti? Chi lo fa, o lo fa per motivi professionali, o si rivede Buster Keaton a Natale: quindi o è un accademico, o un nostalgico. Ci sono state almeno 35.000 opere filmate tra il 1895 e il 1929: la loro scomparsa era già un buon indizio del futuro. Il cinema sonoro sta prendendo molto rapidamente quella strada».Secondo lei il cinema non va più di pari passo con la nostra immaginazione?«Secondo me lo ha fatto raramente. C'è stata tutta una schiera di apologeti, tra il 1900 e il 1910, che riteneva che il cinema sarebbe stato un media straordinario; io penso che non abbia mantenuto le sue promesse. Il cinema è stato, ed è, un fenomeno basato sul testo, non sull'immagine: viene prima la sceneggiatura, che è un qualcosa di puramente letterario; le immagini hanno un ruolo secondario. La maggior parte dei film sono semplicemente una “messa in scena", cinema d'animazione compreso. È un fenomeno teatrale».È questo il motivo dietro all'attuale crisi delle sale cinematografiche?«Diciamocelo: chi va più al cinema? I giovani no di certo. I film sono diventati molto più “personalizzati": per me, l'immaginazione e l'inventiva di ogni singolo individuo sono molto più importanti di ciò che filma Martin Scorsese. I nostri nonni andavano al cinema per sentir raccontare una storia in pubblico, le sale erano piene di persone davanti a uno schermo grande e rumoroso: era un fenomeno sociale. Ormai guardiamo i film da soli, sdraiati a letto o sul divano, se non addirittura in ufficio. Li guardiamo da una posizione solitaria, e così il media fallisce nel diventare una forma d'arte “pubblica". Va bene, ci sono rari esempi del contrario, ma nel dopoguerra i miei genitori andavano al cinema probabilmente tre volte a settimana: oggigiorno non ci si va più di una volta al mese. Quell'era è finita; ma sono convinto che ciò che ne prenderà il posto sia molto più eccitante. L'idea di ciò che i giovani saranno in grado di fare con i loro cellulari è molto più entusiasmante che andare al cinema o al Festival di Venezia, perché sarà qualcosa di loro, e di molto più legato ai loro interessi. Questo è il presente, festeggiate; il cinema è il passato, non piangete sulle sue spoglie. Non tentate di diventare un regista cinematografico, è uno spreco di tempo; e se volete diventare critici cinematografici, probabilmente non avrete più di tre anni per praticare il mestiere».È un ammiratore di Luca Del Baldo, famigerato pittore di cadaveri «eccellenti»; ma già in film come Lo zoo di Venere o Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante è evidente un'attrazione morbosa verso il corpo umano, vivo o morto: cosa la affascina di questo tema?«È l'unica cosa che abbiamo, non è forse così? Nonostante le differenze di sesso, che si sia giapponesi o eschimesi, che si viva a Hollywood, Londra o Venezia, sappiamo tutti di cosa si parla quando si parla di “corpo umano". È parte del nostro sentire comune. Io mi considero un pittore e il nucleo dell'arte europea è sempre stato il corpo, disegnato e dipinto all'infinito, soprattutto qui in Italia. Questo per una curiosa coincidenza, credo legata al clima: a nord delle Alpi è molto freddo, si vuole rimanere vestiti; ma a sud è caldo e li si toglie alla prima occasione. Nei dipinti (si pensi a Botticelli, o a Michelangelo) il desiderio è sempre, e spesso mitologicamente, legato al corpo nudo. Il corpo è ciò che ci mantiene in vita e fa pulsare i nostri sensi: vivere è meraviglioso. Perché siamo così permalosi e avviliti al riguardo? Io uso il corpo umano come altri usano un vocabolario». Ha dichiarato che stiamo vivendo in uno di quei periodi «di mezzo», di incertezza culturale, snobbati dalla storia dell'arte per privilegiare Rinascimento, Barocco, Neoclassico. L'essere trascurati dalla storiografia «ufficiale» è un'opportunità o una condanna?«Marcel Duchamp ha affermato che tutto ciò che si vuol chiamare “dipinto" è già per questo un dipinto, non bisogna più preoccuparsi delle stupide definizioni di un tempo. Io sono un creatore di immagini di professione, ma sono affascinato anche dalla capacità dei mezzi tecnici di riprodurle. Sempre Duchamp ha detto che le riproduzioni sono meglio degli originali: mi trovo d'accordo. Quando vengo a Venezia passo molto tempo nelle chiese, spezzandomi la schiena nel tentativo di vedere ciò che i pittori hanno dipinto. Ho studiato per anni Rembrandt: nei musei si fatica a osservare le sue opere, per via della pessima illuminazione e dei riflessi; spesso non si riesce a vederne la cima, o ci si deve far largo tra la gente per osservarne alcune… ma grazie all'elevata risoluzione oggi possibile con le fotocamere, la riproduzione dei dipinti concede agli artisti un mezzo migliore per comunicare il loro messaggio originale. Tornando alla domanda, per me il periodo più eccitante dell'arte italiana è stato il Manierismo, quando il Rinascimento era appena terminato e il Barocco non ancora cominciato. Gli artisti non comprendevano realmente cosa stessero facendo e sperimentavano in continuazione: penso siamo in un periodo simile anche oggi. Assistiamo a un gran numero di tentativi perché le persone si sentono smarrite, hanno perso le loro “verità assolute". In arte, è successo due volte nella storia. Dopo la morte dei tre grandi pittori del Rinascimento, Da Vinci, Raffaello e Michelangelo, gli artisti si domandavano: “E adesso, cosa possiamo fare?". Questi personaggi avevano raggiunto l'apice, non rimaneva nulla di nuovo da creare. Ma ciò non era vero: il Manierismo fece ripartire tutto. Ora siamo tornati in un periodo simile: i tre grandi fenomeni culturali proto-modernisti sono sicuramente stati Picasso, Stravinskij e Le Corbusier, talenti straordinari che hanno cambiato completamente il modo in cui guardiamo alla realtà. E ancora una volta, la gente ha cominciato a domandarsi: “E adesso cosa facciamo? È già stato fatto tutto!". Ma è un ottimo periodo e rende gli artisti molto sperimentali».Al giorno d'oggi, sarebbe ancora possibile per film da molti considerati «estremi» come Il bambino di Mâcon o Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante uscire in sala?«Ho avuto grossi problemi per la scena omosessuale di Eisenstein in Messico, rappresentata a metà tra un atto sessuale e un atto politico. Ma mi domando: è ancora possibile scioccare gli spettatori? O siamo diventati completamente insensibili? Forse è un dovere di ogni artista votarsi ancora a questa missione di “spingere il limite". Sa, non sono un grande fan del marchese De Sade: la sua vita era deplorevole e le sue attività assolutamente inescusabili. Ma si può capire perché gli intellettuali francesi si siano così eccitati con la sua figura: per la sua capacità di spingere il limite più in là, di andare tanto lontano quanto osava. Io penso che il cinema abbia, curiosamente, lo stesso dovere. Ricordiamoci, ad esempio, della crudeltà dei film di Peter Brook. Nessuno vuole diventare un serial killer, ma ne siamo tutti profondamente affascinati. Non vogliamo calarci di persona nei meandri più oscuri della loro mente, ma siamo felici di spedirci altri: artisti, persone che li esplorino al posto nostro e poi tornino per farci sentire più illuminati. Ma lei pensa che Il bambino di Mâcon o Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante siano film estremi?»Personalmente, no.(Ride). «Questo perché il cinema è morto! Un giorno, i suoi nipoti le domanderanno: “Nonno, cos'è il cinema?"».
John Grisham (Ansa)
John Grisham, come sempre, tiene incollati alle pagine. Il protagonista del suo nuovo romanzo, un avvocato di provincia, ha tra le mani il caso più grosso della sua vita. Che, però, lo trascinerà sul banco degli imputati.
Fernando Napolitano, amministratore delegato di Irg
Alla conferenza internazionale, economisti e manager da tutto il mondo hanno discusso gli equilibri tra Europa e Stati Uniti. Lo studio rivela un deficit globale di forza settoriale, potere mediatico e leadership di pensiero, elementi chiave che costituiscono il dialogo tra imprese e decisori pubblici.
Stamani, presso l’università Bocconi di Milano, si è svolta la conferenza internazionale Influence, Relevance & Growth 2025, che ha riunito economisti, manager, analisti e rappresentanti istituzionali da tutto il mondo per discutere i nuovi equilibri tra Europa e Stati Uniti. Geopolitica, energia, mercati finanziari e sicurezza sono stati i temi al centro di un dibattito che riflette la crescente complessità degli scenari globali e la difficoltà delle imprese nel far sentire la propria voce nei processi decisionali pubblici.
Particolarmente attesa la presentazione del Global 200 Irg, la prima ricerca che misura in modo sistematico la capacità delle imprese di trasferire conoscenza tecnica e industriale ai legislatori e agli stakeholder, contribuendo così a politiche più efficaci e fondate su dati concreti. Lo studio, basato sull’analisi di oltre due milioni di documenti pubblici elaborati con algoritmi di Intelligenza artificiale tra gennaio e settembre 2025, ha restituito un quadro rilevante: solo il 2% delle aziende globali supera la soglia minima di «fitness di influenza», fissata a 20 punti su una scala da 0 a 30. La media mondiale si ferma a 13,6, segno di un deficit strutturale soprattutto in tre dimensioni chiave (forza settoriale, potere mediatico e leadership di pensiero) che determinano la capacità reale di incidere sul contesto regolatorio e anticipare i rischi geopolitici.
Dai lavori è emerso come la crisi di influenza non riguardi soltanto le singole imprese, ma l’intero ecosistema economico e politico. Un tema tanto più urgente in una fase segnata da tensioni commerciali, transizioni energetiche accelerate e carenze di competenze nel policy making.
Tra gli interventi più significativi, quello di Ken Hersh, presidente del George W. Bush Presidential Center, che ha analizzato i limiti strutturali delle energie rinnovabili e le prospettive della transizione energetica. Sir William Browder, fondatore di Hermitage Capital, ha messo in guardia sui nuovi rischi della guerra economica tra Occidente e Russia, mentre William E. Mayer, chairman emerito dell’Aspen Institute, ha illustrato le ricadute della geopolitica sui mercati finanziari. Dal fronte italiano, Alessandro Varaldo ha sottolineato che, dati alla mano, non ci sono bolle all’orizzonte e l’Europa ha tutti gli ingredienti a patto che si cominci un processo per convincere i risparmiatori a investire nelle economia reale. Davide Serra ha analizzato la realtà Usa e come Donald Trump abbia contribuito a risvegliarla dal suo torpore. Il dollaro è molto probabilmente ancora sopravvalutato. Thomas G.J. Tugendhat, già ministro britannico per la Sicurezza, ha offerto infine una prospettiva preziosa sul futuro della cooperazione tra Regno Unito e Unione Europea.
Un messaggio trasversale ha attraversato tutti gli interventi: l’influenza non si costruisce in un solo ambito, ma nasce dall’integrazione tra governance, innovazione, responsabilità sociale e capacità di comunicazione. Migliorare un singolo aspetto non basta. La ricerca mostra una correlazione forte tra innovazione e leadership di pensiero, così come tra responsabilità sociale e cittadinanza globale: competenze che, insieme, definiscono la solidità e la credibilità di un’impresa nel lungo periodo.
Per Stefano Caselli, rettore della Bocconi, la sfida formativa è proprio questa: «Creare leader capaci di tradurre la competenza tecnica in strumenti utili per chi governa».
«L’Irg non è un nuovo indice di reputazione, ma un sistema operativo che consente alle imprese di aumentare la protezione del valore dell’azionista e degli stakeholder», afferma Fernando Napolitano, ad di Irg. «Oggi le imprese operano in contesti dove i legislatori non hanno più la competenza tecnica necessaria a comprendere la complessità delle industrie e dei mercati. Serve un trasferimento strutturato di conoscenza per evitare policy inefficaci che distruggono valore».
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