Pochi giorni fa, aprendo Facebook durante la pausa pranzo, mi è balzata subito all'occhio la notifica di un amico: aveva cambiato la sua foto del profilo. «E dov'è la notizia?», direte voi. «Capita ogni giorno». Non c'è dubbio, ma non è così comune che a farlo sia una persona morta due anni prima in un incidente stradale. Che cos'è successo? È diventato uno zombie e si è messo a consultare il social network di Mark Zuckerberg come un menù, per decidere quale delle sue vecchie conoscenze mangiare per prima? Non ha sopportato di lasciare di sé l'immagine di un ventenne con la maglietta dei Led Zeppelin e un paio di occhiali da sole a forma di fenicottero rosa, ed è tornato dalla morte per caricare una foto più sobria, in giacca e cravatta?
Nulla di tutto questo. La spiegazione è che gli amministratori di Facebook, per risolvere il problema dei profili di persone decedute che continuavano a essere segnalati come attivi sul social, hanno deciso di creare la categoria «account commemorativo». Al momento dell'iscrizione viene richiesto di scegliere tra i propri contatti un «erede» (non è specificato se consenziente o meno): costui avrà l'onere e l'onore di gestire il profilo dopo la dipartita del proprietario. Servendosi della foto e del nome del defunto (a cui sarà stata aggiunta la provvidenziale dicitura «In memoria»), potrà accettare le richieste di amicizia, aggiungere nuovi post e modificare, come nel caso del mio amico, l'immagine del profilo e quella di copertina.
Appena ho scoperto la bizzarria, sono corso a controllare le opzioni: è possibile richiedere che il proprio profilo venga eliminato al momento della morte, ma Facebook consiglia «vivamente» di impostare un contatto erede che gestisca l'account. È naturale: che Mario Rossi muoia nel mondo reale è contemplato, fa parte dell'ordine delle cose. Ma che muoia su Facebook, beh, questo non è accettabile. Gli account commemorativi hanno lo scopo ufficiale di permettere ad amici e familiari di raccogliere e condividere i ricordi di un caro estinto, ma è inevitabile guardare al risvolto economico della faccenda. Da quando il social è quotato in Borsa, Zuckerberg deve presentare agli azionisti un rendiconto periodico sull'andamento del sito: come potrebbe permettersi di vedere calare le cifre del social per un'inezia come la morte fisica degli iscritti? Per quanto mi riguarda, ho subito chiuso la finestra di selezione del contatto erede. Ho scelto l'oblio.
web marketing
Quello che potrebbe sembrare soltanto un episodio grottesco, palesa una questione più profonda: i social network, i tanto celebrati miracoli della comunicazione, non sembrano né capaci né intenzionati ad affrontare il tema della morte. Ne è una riprova quanto avvenuto sul profilo Twitter dell'esercito Usa in occasione del Memorial day, giornata dedicata ai caduti di guerra americani. Per promuovere una videointervista in cui il soldato scelto Nathan Spencer decanta l'arruolamento come «esperienza formativa», il social media manager dell'account ha fatto ciò che viene insegnato a ogni corso di web marketing per stimolare la partecipazione degli utenti: ha posto una domanda. Peccato che, nel caso specifico, fosse: «Come vi ha influenzato la leva?». Possiamo immaginare la gioia dell'impiegato nel vedere il tweet sommerso da oltre 12.200 risposte in poche ore; possiamo anche immaginarne lo smarrimento quando si è accorto che oltre 12.200 veterani e parenti di caduti avevano preso d'assalto il suo post con storie di morte, suicidio, dipendenza da sostanze e disturbi mentali. Parole d'odio da chi ha combattuto per il proprio Paese, per poi tornare in patria e vedersi negata l'assistenza sanitaria, il lavoro e le indennità previste per chi ha servito in guerra (secondo la Cnn, le riceve solo il 20 per cento degli oltre 20 milioni di veterani). Grida di dolore di chi ha visto i compagni d'arme o le persone amate distrutti da ansia, depressione, incubi notturni, disturbo da stress post-traumatico, alcolismo, abuso di farmaci e droghe, esplosioni di violenza, stupri, abbandono da parte dei familiari e dello Stato, problemi di salute causati dall'impiego di sostanze chimiche al fronte e, soprattutto, suicidio (secondo i dati della stessa Us Army, nel solo 2018 si sono uccisi più di 5.500 veterani: circa 22 al giorno, quasi uno ogni ora).
Tra i numerosi commenti, Karly Kathleen ha scritto: «Sono stata violentata da un commilitone, ho portato il caso in corte marziale e ho perso. Lui sa cos'ha fatto e ne è uscito libero. Ora soffro di depressione e di disturbo da stress post-traumatico». Arthur Gonzales, di suo, ha twittato: «Quand'è tornato, mio padre sfogava rabbia e depressione su di me. L'Associazione veterani non gli ha più rimborsato le spese mediche. Non dimenticherò mai le botte». Infine, un reduce ha risposto: «Molti di noi non sono che il guscio vuoto di ciò che siamo stati». All'insipiente social media manager non è passato per la mente che in guerra i soldati uccidano e muoiano? Che, come scrisse William Faulkner, le battaglie non si vincano e nemmeno si combattano, perché «l'uomo scopre, sul campo, solo la sua follia e disperazione»? Evidentemente no. La reazione, a frittata ormai fatta, è consistita solo in due messaggi retorici sulla necessità di onorare chi ha dato la vita per il Paese e nel segnalare il numero verde dell'esercito dedicato ai veterani in difficoltà.
black humour
Passando da Twitter a Youtube, l'unica, inquietante eccezione al rigetto social della morte sembra essere il canale Ask A Mortician (letteralmente, «Chiedilo a una becchina»), che questo mese ha superato i 780.000 iscritti. Interamente gestito da Caitlin Doughty, 34 anni, losangelina, impresaria di pompe funebri, è una vera e propria videoenciclopedia di tutti gli aspetti tecnico-scientifici riguardanti la morte fisica e il mestiere di necrofori. A giustificarne il successo è la forte impronta di black humour che l'autrice imprime ai suoi video, come si può intuire da titoli frizzanti quali «Make-up mortuari per corpi difficili», «Morire grassi: le tue opzioni funebri» o «Così tanti modi di decomporsi!». Ma, come ho scritto, sembra un'eccezione senza esserlo realmente. La youtuber americana concentra la sua attenzione sugli aspetti più macabri e iconici del morire: cadaveri, processi di putrefazione, omicidi di star dello spettacolo… Un varietà morboso, ma a suo modo affascinante e glamour. Il massimo di speculazione filosofica che si concede la Doughty è che la morte sia un passo inevitabile e, in quanto tale, vada accettato. Punto. Poco o nulla è detto su ciò che potrebbe venire dopo la dipartita, o su quale sia il peso di un simile, ineluttabile evento sul piano esistenziale di un uomo.
Cosa impedisce dunque ai social network di diventare un minuzioso specchio della realtà? La verità è che a molti (se non a tutti) la vita fa paura. Che il mondo, la natura e il tipo di società che abbiamo costruito fanno paura. I rapporti umani, poi, sono terrorizzanti: gli amici di una vita possono pugnalarti alle spalle; la persona che ti ha giurato amore incondizionato può tradirti con il primo di passaggio; i figli possono abbandonarti a ogni momento di difficoltà. Ma a tutto questo può esserci rimedio. La tecnologia offre una via di fuga da queste paure, dando la possibilità di mediare tutti gli aspetti della realtà a distanza di sicurezza, attraverso lo schermo di un computer. Vuoi goderti i mille volti della natura senza il pericolo di ritrovarti tra le fauci di un leone? Eccoti il meglio di National Geographic su Google Immagini, così risparmi pure il tragitto verso l'edicola. Vuoi assaporare il brivido dell'imprevisto senza assumerne il rischio? Eccoti le più appassionanti serie tv di Netflix: 7,99 euro al mese e non devi neanche sorbirti le pubblicità. Vuoi avvicinare gli altri, ma hai paura di ferirti? Ecco i social, con cui puoi quantificare il numero dei tuoi amici, stabilire il vostro tipo di rapporto nelle informazioni personali, scegliere come e quando parlargli e, grazie alle emoticon, che umore assumere sul momento.
Ma la morte no. Nonostante gli sforzi fatti, quella la tecnologia non riesce proprio a mediarla. È un viaggio che s'intraprende in solitudine, e questo né i social né tutta la rivoluzione digitale potranno mai cambiarlo. O l'uomo moderno riscoprirà dentro di sé qualcosa di più antico, di più profondo, di più spirituale, o si troverà a vagare incredulo nell'oscurità. Senza la possibilità di chiedere consigli ai contatti di Facebook, senza l'oppio di Instagram e Youtube, senza poter twittare le proprie emozioni o cercare informazioni sull'itinerario con Tripadvisor, non potrà che abbandonarsi al vuoto disperato che porta dentro, arrancando verso la luce in fondo al tunnel. Salvo poi scoprire che non è altro che il display di uno smartphone, su cui lampeggia la scritta «Nessuna connessione».
In Giappone, un dio ha rassegnato le dimissioni. Il 30 aprile, Akihito, l'ottantacinquenne Tennō heika, «sua maestà l'Imperatore», ha lasciato il trono dopo 30 anni di regno, dichiarando di non sentirsi più in grado di adempiere ai propri doveri a causa dell'età avanzata. È il primo sovrano ad abdicare da oltre 200 anni. Oggi gli è succeduto il figlio Naruhito, 59 anni. Ma il passaggio di potere ufficiale avrà luogo durante la cerimonia d'incoronazione, il 22 ottobre, quando verranno consegnati al nuovo Tennō la Spada e il Gioiello, due delle insegne regie che la tradizione shintoista vuole affidate al clan di Yamato dalla dea del sole Amaterasu Ōmikami, progenitrice della dinastia imperiale. Nei numerosissimi riti di successione (per l'ascesa al trono di Akihito nel 1990 furono ben 89), tutto ha il sapore del sacro e dell'antico. Ma cosa rappresenta l'Imperatore per i giapponesi di oggi?
Per i fedeli shintoisti, i militanti di destra e gli esotisti occidentali, è un akitsukami, un «dio che si manifesta in terra», l'anima stessa del Giappone. E in parte è vero. Secondo il culto shintoista, Amaterasu ha conferito l'autorità sull'Arcipelago al clan di Yamato, sua progenie in terra, nel 660 a.C., data che la renderebbe la dinastia più antica al mondo. Il potere del sovrano è legittimo perché deriva da legami di sangue ininterrotti con la divinità, che lo rendono l'unico a poter comunicare direttamente con essa. Non a caso, il 18 aprile Akihito si è presentato al santuario di Ise, il sacrario principale dello shintoismo, per comunicare le proprie dimissioni direttamente alla dea.
Una centralità che si riflette anche sul tempo. In Giappone, infatti, la scansione degli anni non viene misurata a partire dalla nascita di Cristo, ma in base all'inizio del regno del sovrano. Se fino al 30 aprile eravamo nel 31° anno Heisei («pace realizzata», nome ufficiale di Akihito in veste d'Imperatore), dal giorno successivo siamo entrati nel primo anno Reiwa («meravigliosa armonia», nome assunto da Naruhito). Per i giapponesi non si tratta di un semplice avvicendamento sul trono, ma della fine di un'era: la prima della storia moderna in cui il Paese non sia mai entrato in guerra, ma anche un periodo flagellato dalla crisi economica, dal rapido invecchiamento demografico e da terribili disastri naturali (tra cui lo tsunami che l'11 marzo 2011 provocò 16.000 morti e l'esplosione alla centrale nucleare di Fukushima).
Per i sacerdoti dell'accademismo pastorizzato e gli alfieri dell'intellighenzia conformista, invece, il Tennō non sarebbe altro che una figura anacronistica, il residuo di un passato feudale e retrivo che ha condotto il Paese agli orrori della Seconda guerra mondiale. E anche questo in parte è vero. Nella storia giapponese, l'Imperatore ebbe un potere politico effettivo solo fino all'XI secolo. Successivamente, fu ridotto a una sorta di taumaturgo di Stato mantenuto dai vari shōgun, i signori della guerra, per legittimarne il governo. Lo scenario cambiò radicalmente nel 1868: per far fronte alla decadenza del potere shogunale e alla pressione navale degli Stati Uniti, che minacciavano di ridurre il Paese a una colonia, il Tennō Meiji venne riportato sul trono. Fu una rivoluzione militare e culturale: lo shintoismo divenne religione di Stato; Amaterasu, sullo stampo dei monoteismi occidentali, assurse al rango di divinità suprema; il Tennō fu ossessivamente esaltato come figlio degli dei e padre del popolo. Il mito delle origini divine dei giapponesi servì a costruire la retorica dell'identità nazionale, ma fu una manipolazione necessaria per permettere alla popolazione di reggere gli enormi sacrifici richiesti da una modernizzazione forzata e accelerata. Fu un'arma a doppio taglio: ciò che permise alla società nipponica di non disintegrarsi, fu ciò che la spinse al delirante sogno della conquista dell'Asia e ai ripugnanti massacri della guerra del Pacifico. Non a caso, dopo la disfatta del 1945, la Costituzione imposta dagli americani negò formalmente la natura divina del Tennō e i suoi poteri temporali, relegandolo al ruolo quasi unicamente onorifico di «simbolo dello Stato».
Entrambe queste immagini del Tennō sono vere, ma parziali. Un paradosso? Non se si considera che in giapponese il termine makoto significa a un tempo «verità» e «fedeltà»: la sola cosa che può dimostrare la veridicità di un'idea è la costanza con cui la si persegue, fino ai limiti estremi, là dove i mezzi giustificano il fine. La figura del Tennō come padre del popolo fu senza dubbio una forzatura, ma per sostenerla rischiarono la vita alcune delle personalità più straordinarie della storia dell'Arcipelago. Questa retorica fu l'ancora di un popolo allo sbando tra i marosi dei grandi mutamenti della Storia.
Negli anni della modernizzazione forzata, un intellettuale scrisse nel suo diario: “So che cosa eravamo, lo so bene, ma non so più che cosa siamo e quale futuro ci possiamo aspettare". Oggi, nel Giappone dei robot avveniristici, dei treni ultraveloci e degli alberghi a capsule, nel Giappone ultramaterialista, relativista, ipertecnologico, sonnolento e cinico della contemporaneità, si avverte lo stesso rischio di una perdita irrimediabile d'identità e di senso. E proprio per questo, dopo le dimissioni del figlio del Cielo, un nuovo e identico dio ha ripreso il suo posto sul trono. Perché tra gli astri che turbinano in una notte senza fine, c'è sempre bisogno di una stella polare.
Patrice Leconte è l'unico uomo allampanato che riesca a indossare con eleganza questa sua condizione. Il settantunenne regista francese, pluripremiato autore di film quali Il marito della parrucchiera (1990) e L'uomo del treno (2002), è in Italia per tenere una masterclass al Ca' Foscari short film festival, rassegna di cortometraggi organizzata dalla professoressa Maria Roberta Novielli con la partecipazione degli studenti dell'ateneo veneziano. Ma, a giudicare dall'aria scanzonata, potrebbe benissimo essere capitato in laguna per caso, sull'onda di una danza sfrenata come quelle di Jean Rochefort nel suo film del 1990, il più celebre. Leconte parla solo francese e nello scusarsi non rinuncia a una punta di umorismo: «Non conosco neanche una parola d'italiano e mi rincresce moltissimo, perché penso che se lo parlassi avrei un accento meraviglioso».
Sia ne Il marito della parrucchiera, sia in L'amore che non muore, i suoi personaggi non esitano ad andare incontro alla morte per amore. Nonostante si voglia dare una patina di cinismo, lei resta un impenitente cantore dell'amour fou. Alla sua età si ritiene ancora un romantico?
«Credo di sì, ma di un romanticismo realista e moderno».
Moderno?
«Il romanticismo è parte più dei miei sogni che del mio quotidiano. Nel fondo del mio animo sono sì un romantico, ma con la consapevolezza di cos'è il mondo, la realtà concreta. Il mio romanticismo è un modo di prendere in contropiede le esigenze di amore che tutti abbiamo nella vita».
Ne Il marito della parrucchiera, il protagonista scopre l'erotismo nell'infanzia. Qual è il suo primo ricordo legato all'eros?
«Quella scena è autobiografica. Il mio primo ricordo è proprio quello di una parrucchiera che mi tagliava i capelli con la camicetta semiaperta e un seno prosperoso in bella vista». (Ride)
La parrucchiera del film non può non ricordare la tabaccaia di Amarcord. Federico Fellini è un modello per lei?
«Ho un'ammirazione sconfinata per lui e alcune mie scelte registiche possono richiamarlo, ma non è una citazione consapevole. È un'influenza inconscia che ogni tanto viene a galla. Cionondimeno, registi come Fellini, Michelangelo Antonioni, Ermanno Olmi, Ettore Scola e Valerio Zurlini hanno avuto per me un'enorme importanza».
Lei incardina i suoi film sul lato tragico delle relazioni umane e dei sentimenti, ma li stempera sempre con un'ironia amara e delicata. Non sono mai commedie o tragedie pure. Non ama il cinema di genere?
«È la vita a essere così. Non è mai commedia o tragedia, ma è una commistione delle due. Ogni mio personaggio tenta sempre di forzare il fato aprendo la porta sbagliata. Finisce per innescare un processo che conduce a strade diverse da quelle di partenza, comiche o tragiche che siano».
Il suo eclettismo l'ha portata nel 2012 a realizzare un cartone animato, La bottega dei suicidi, ambientato in un negozio in cui si vende il nécessaire per uccidersi comodamente a casa propria. Nonostante l'ironia caustica, qualcuno lo accusò di essere un'apologia del suicidio.
«Naturalmente non era così. So di essere un privilegiato e di non potermi immedesimare in chi ha perso tutte le speranze, pur comprendendone la sofferenza. Tuttavia, sono convinto che ci sia sempre la chance di rimboccarsi le maniche e affrontare le sfide dell'esistenza. Io non amo la morte, amo la vita».
Il 2017 è stato per lei un annus horribilis: il 9 ottobre è venuto a mancare Jean Rochefort, attore protagonista di ben sette dei suoi film. Che cosa l'ha spinta a intraprendere questo rapporto professionale?
«Ho visto in lui la rappresentazione di me stesso più antique, più anziano. Era un rapporto strano, fatto sì di fiducia assoluta, ma anche di edonismo e pazzia. Durante le riprese di Il marito della parrucchiera chiese se fosse previsto un coreografo per le scene di ballo. Risposi: “Assolutamente no, devi danzare come se fossi un bambino". Ne fu felice, perché poté inventarsi un suo modo di ballare, folle e indimenticabile. Ricorderò sempre con affetto anche quanto fu difficile convincerlo a tagliarsi i baffi per interpretare in Ridicule il ruolo di un nobile nella Versailles del Settecento».
Il 6 dicembre dello stesso anno è morto Johnny Hallyday, la più grande rockstar francese, indimenticato protagonista di L'uomo del treno. Sono ancora vivide le immagini del suo corteo funebre, con la folla accalcata lungo gli Champs Elysées fino a Place de la Concorde. Che ricordi ha di lui?
«Ricordo che dopo la cerimonia dei César, gli Oscar francesi, chiese a Jean-Luc Godard: “Presentami a Leconte". Mi guardò, mi mise una mano sulla spalla e disse: “Un giorno mi piacerebbe essere filmato da te". Il film è nato in quell'esatto momento. Si è poi concretizzato quando mi è venuta l'idea di contrapporgli Jean Rochefort. Funzionò a meraviglia».
Ha incontrato difficoltà nel farlo accettare per quel ruolo?
«Nessuna difficoltà, neanche a lavorare con lui sul set. Era modesto, disponibile, attento ai bisogni degli altri. Ricordo la prima del film alla Mostra del cinema di Venezia. Quando ancora ci stavamo inchinando per ringraziare il pubblico degli applausi scroscianti, Johnny mi sussurrò: “Questo è il più bel giorno della mia vita". Ne fui turbato. Voglio dire, quell'uomo aveva assistito allo spettacolo di stadi colmi di fan che cantavano all'unisono con lui e urlavano il suo nome. Ma, imperturbabile, concluse: “Stasera sono stato applaudito come attore". Non mi feci altre domande».
Spesso nelle sue opere si crea un rapporto simbiotico tra i due protagonisti.
«Se non c'è una relazione forte tra i personaggi, il film semplicemente non esiste. Ho sempre messo al centro di tutto i rapporti tra i personaggi. Tempo fa mi sono accorto di un fatto di cui non mi ero mai reso conto durante la realizzazione delle mie opere: all'inizio del film, i protagonisti non si conoscono. Ciò che m'interessa veramente è il momento dell'incontro. Anche senza essere legati all'amore, gli incontri possono stravolgere una vita. Naturalmente, per fare un'esperienza simile bisogna avere gli occhi aperti sul mondo. Se li si tiene fissi sul display dello smartphone, non si corre certo questo rischio».
I protagonisti di molti suoi film, quali L'uomo del treno e L'insolito caso di Mr. Hire, o sognano una vita diversa, o incarnano in pieno le proprie ossessioni. A che cosa è dovuta questa scelta?
«Credo che nessun sogno sia impossibile. Possiamo essere frustrati dalla vita che stiamo conducendo, ma se ci si impegna è comunque possibile cambiarla e uscire dalla sofferenza. Sempreché non si resti intrappolati nelle nostre ossessioni, s'intende. Forse abbiamo tutti torto a cercare negli altri quello che ci manca. Sono convinto che sia nelle persone semplici che si nascondono le storie più formidabili».
È sempre stato lucido nella visione della nostra epoca e della nostra società. Qual è il suo giudizio sul movimento dei gilet gialli?
«È un male necessario. Sicuramente ha degli aspetti spaventosi, come la violenza nelle manifestazioni. Però è un movimento che esprime ciò che si muove nella pancia della gente. È uno specchio della realtà della Francia in questo periodo storico».
In un'epoca di serie tv e Netflix, qual è il futuro del cinema?
«Sicuramente cambierà. Cambierà il modo di girare, cambieranno fisicamente anche le sale in cui la gente andrà a vedere i film. Personalmente amo assistere al cinema nei cinema, ma oggigiorno si possono guardare i film persino sull'iPhone. Come si può star lì, con gli auricolari e, peggio ancora, fissando uno schermo da tre pollici? Per me è una cosa terribile. Ma finché ci saranno sceneggiatori, registi e attori validi, il cinema sopravviverà. Bisogna continuare a creare pensando al film e non al supporto su cui sarà visto».
Progetti per il futuro?
«In autunno girerò un adattamento da un romanzo di Georges Simenon su Maigret. Daniel Auteuil sarà il protagonista. Penso sarà un'opera emotivamente molto forte».
Sarà un film modernamente romantico?
«Sicuramente non sarà un film da intellettuali. Odio il cinema intellettuale. Preferisco parlare al cuore che al cervello».





